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L'ordine naturale delle cose
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E-book133 pagine2 ore

L'ordine naturale delle cose

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Info su questo ebook

Per quelli che non credono che la scienza sia in grado di spiegare tutto, ma che esistano più cose tra cielo e terra. Per quelli che sentono il bisogno di inseguire il cammino di una nuvola bianca nel cielo del luglio mediterraneo, riflettendo su chissà cosa. Per quelli che ancora si fanno le stesse domande pur sapendo che forse non esistono risposte.
Una raccolta di racconti in cui Camilletti affronta sulla pagina gli incroci e gli snodi dell’avventura esistenziale: la corsa delle ore sfuggenti, l’identità sparpagliata, la maschera, il sapere come e quando e dove si decide per noi il destino, le “istruzioni per il montaggio” dei pezzi che ci tengono insieme, noi e l’inferno (o il paradiso) dell’Altro. Certe volte a parlare sono le cose, una finestra per esempio, che osserva dal suo punto di vista senza vie di mezzo - aperta o chiusa - il malinconico farsi e disfarsi dei legami d’amore, o una calcolatrice speciale, capace di numeri e di poesia.
 
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2019
ISBN9788834156469
L'ordine naturale delle cose

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    L'ordine naturale delle cose - Mario J. Camilletti

    collana

    VITA RACCONTATA

    L’ordine naturale delle cose

    di Mario J. Camilletti

    © 2012 Mario J. Camilletti

    © 2012 Tempesta Editore

    I edizione cartacea 5 ottobre 2012

    collana: Vita raccontata

    ISBN 9788897309260

    Tempesta Editore

    via Sisto IV, 77 - 00167 Roma - cell. 3479282082

    www.tempestaeditore.it

    info@tempestaeditore.it

    Mario J. Camilletti

    L’ORDINE NATURALE DELLE COSE

    Mitologia per gli anni 2000

    Prefazione di

    Giulio Guidorizzi

    Dedicato a Valentina,

    meravigliosa compagna di viaggio,

    e al nostro tesoro, Francesco.

    PREFAZIONE

    di Giulio Guidorizzi - Università di Torino

    La raccolta di Mario Camilletti inizia con un mito di fondazione: Dio crea il mondo dalle onde. L’intenzione mitopoietica emerge però anche nell’architettura complessiva della raccolta e nell’individuazione dei temi narrativi. Ammesso che, trattandosi di mito, dunque di materia originaria del pensiero, resti per l’autore qualche margine di scelta, oltre la necessità di dire cose che travalichino i confini dell’esperienza, chiusa dalla dimensione spazio-temporale, per attingere alle zone impervie degli universali. Un dio sorridente e familiare cammina sulla spiaggia contemplando la sua creazione e ne percepisce il limite, che non consiste nella finitezza, nella condanna alla consunzione materiale; piuttosto, questo dio bonario, pare soffrire l’assenza di un’eco emotiva di fronte a un universo ancora troppo silenzioso. E questa eco il dio del principio la fa risuonare risucchiata dal mare, inattesa, a placide ondate, che si chiamano speranza, onestà, fantasia, pace, futuro, vita… Infine, soddisfatto, sorride: non è il Verbo a togliere il mondo dal Nulla e dal Caos, ma il lieve incresparsi delle labbra di un essere che pensa di aver fatto qualcosa di buono e contento di sé, senza superbia, ne gode.

    In chiusura, il ritorno al principio attraverso un primo colpo, che riporta il protagonista da dove era partito, allo spavento che accompagna ogni nascita così come tutte le morti. Di questo si tratta, alla fine: di trovare il racconto, il mito che renda sensato non solo il non esserci più, ma anche l’essere stato dentro le maglie del tempo: aver patito e imparato, aver guardato il corpo invecchiare, perdere la compattezza della pelle giovane, l’agilità naturale dei movimenti, la scioltezza della parola, e all’ultimo istante vedersi da fuori. Con altri occhi, immobile, assente al pianto dei figli e dei fratelli, congedarsi da sé con dolcezza, chiedendo di essere lasciato andare, poiché pensa che esista davvero un altro luogo dove andare, oltre a questa riva dove siamo approdati senza possibilità di scelta. Tra questi due estremi, Camilletti affronta sulla pagina gli incroci e gli snodi dell’avventura esistenziale: la corsa delle ore sfuggenti, l’identità sparpagliata, la maschera, il sapere come e quando e dove si decide per noi il destino, le istruzioni per il montaggio dei pezzi che ci tengono insieme, noi e l’inferno (o il paradiso) dell’Altro. Certe volte a parlare sono le cose, una finestra per esempio, che osserva dal suo punto di vista senza vie di mezzo (aperta o chiusa) il malinconico farsi e disfarsi dei legami d’amore, o una calcolatrice speciale, capace di numeri e di poesia.

    In queste pagine di un narratore giovane, e anch’esso si direbbe semplice e solare come la sua scrittura (così almeno ho avuto modo d’intuirlo, avendolo conosciuto durante alcune conferenze in uno storico liceo di Civitavecchia, dove l’autore insegna, credo ben amato dai suoi allievi), si coglie comunque il piacere di abbandonarsi al Mito come presupposto del fare arte e si colgono anche le suggestioni di una cultura classica intimamente assimilata, che lo guida nella limpidezza dello stile e anche nell’ottimismo del pensiero.

    In altre, più mature prove (poiché la carriera di uno scrittore è impervia e lunga, una scala fatta di molti gradini, come diceva Kavafis) speriamo di aver modo di seguire lo sviluppo di questo autore, la cui raccolta susciterà, per ora, gradevoli emozioni nei lettori.

    Nel suo profondo vidi che s’interna,

    legato con amore in un volume,

    ciò che per l’universo si squaderna:

    sustanze e accidenti e lor costume

    Dante, Paradiso,

    XXXIII, vv 85-88

    In principio

    Dicono che in principio era il mare.

    Dicono che spesso Dio passeggiava sulla spiaggia, guardando l’immensità di ciò che lui stesso aveva creato.

    Dicono, infine, che quel giorno Dio si sedette sulla sabbia fresca del mattino e guardò lontano, oltre la linea curva che ci ricorda i nostri limiti, e si accorse che qualcosa ancora mancava. Allora sentì il bisogno di chiamare, pensandole dalle profondità del mare, le sette onde della creazione. Le guardò attraversare pian piano l’enorme distesa d’acqua, pian piano giungere a riva, silenziose e cariche di nuovo, quasi sembravano sorridere obbedendo al pensiero e al bisogno. E Dio affidò a ognuna un compito, una specifica parte nell’opera immensa della creazione. Così le chiamò. E in quel modo le fece scivolare via dall’ombra scura del non conosciuto, del non finito, e quindi del non perfetto. Le chiamò e le contò una ad una mentre si infrangevano sul bagnasciuga, e quel rumore di acqua scrosciante, quel rumore eterno e sempre simile a se stesso divenne come un urlo di gioia che ogni onda gridava nell’attimo in cui, distesa ai piedi di Dio, sublimava se stessa. E guardandole, Dio le rese vere.

         La prima onda era il volo di un gabbiano: si stemperava libero e silenzioso sul mare tracciando un’invisibile scia. Ogni tanto si tuffava, esperto e spontaneo, verso il basso per poi risalire, agile e sicuro, verso la promessa d’azzurro del cielo.

    E Dio la chiamò Vita.

         La successiva fu il sorriso di un bambino: puro e sincero, era la calda promessa di un futuro di pace. Se ne stava tranquillo a guardare con occhi beati la luce del giorno, voltandosi ora qua, ora là per meglio vedere; e dove guardava, piccole scintille dorate sprizzavano fuori, avvolgendo di soffice nube le cose. Poi chiuse gli occhi e respirò.

    E Dio la chiamò Speranza.

         La terza onda era un grido sofferto: nero e profondo, sgorgava dal cuore della terra e si portava dietro secoli e giorni di sete di giustizia. All’inizio sembrava avere gli occhi di una civetta: ma poi apparve il volto rigato di pianto di una madre, poi quello di un ragazzo ferito e ancora il volto di un uomo torturato, di un cane abbandonato, di un cerbiatto braccato, volti deformati in un urlo infinito; e quell’urlo squarciava il silenzio. Bagnava la sabbia, là dove è più facile scavare, più docile la terra; là insomma, dove ognuno, ingannato da quella facilità, vi pianta speranze che non sbocceranno mai. E Dio la chiamò Dolore.

         La quarta onda era profumo di pane: era la gioia di un lavoro ben fatto, ricompensa giusta e sicura di giorni passati a fare, sotto il sole o nel gelo, a bagnare di sudore la terra perché sia più fertile e generosa. E quel profumo si sparse nell’aria e fu il segno tangibile di una vita pulita.

    E Dio la chiamò Onestà.

         La quinta onda era un fiato di vento che gonfia le vele e solleva le tende e scompiglia le chiome e smuove i rami e modella le rocce e toglie cappelli e sposta le nubi e agita il mare e accarezza l’erba e scoperchia le case e sostiene aquiloni e disperde la polvere e passa fra i capelli come una mano spensierata e felice.

    E Dio la chiamò Libertà.

         La sesta onda era un suono di violino: all’inizio fu appena percettibile. Poi divenne più pieno e presente, sicuro di sé, divenne più vicino e caldo; man mano si fece più certo, luminoso, vibrante; infine, risuonò nell’aria chiaro e determinato un suono limpido che riempì tutto lo spazio attorno a sé. Le acque stesse del mare si quietarono per un po’, interrompendo il suono eterno del proprio respiro, per ascoltare meglio. Anche Dio chiuse gli occhi a gustarsi quella musica e fu contento di aver creato un assaggio di paradiso. Come una candela, il suono si spense a poco a poco; e il mare ricominciò ad essere.

    E Dio la chiamò Fantasia.

         La settima onda era amore; e come il mare impetuoso rompe gli ormeggi, così l’amore sciolse le corde delle anime ancorate nei porti sicuri dell’indifferenza e le rese libere. Tutto il creato cominciò a correre, a navigare con piene vele attraverso il mare dell’esistenza, verso l’unico sogno che ci è dato vivere. E quella fu l’onda che più lontana delle altre lasciò sulla sabbia la sua impronta.

    E Dio la chiamò Futuro.

    A quel punto, Dio sorrise soddisfatto: e a quel sorriso si svegliò il mondo.

    Aspettando il treno

    Cammino lentamente muovendomi con calma sui gradini della stazione. Guardo ancora una volta l’orologio, ho tempo, il treno passerà fra un quarto d’ora buono; osservo la gente affrettarsi alla volta di altri binari, qui partono così tanti treni che sembra un continuo ripetersi della scena di un film, quella dove il protagonista deve partire e viene accompagnato al treno dalla sua donna. Passeggio stancamente lungo il marciapiede numero 4, quello del mio treno, altre persone sono già in attesa, le valigie ammassate a terra e il pacco dei giornali sotto il braccio, fedele compagno di un viaggio che si preannuncia lungo e caldo. Sì, fa caldo, è una splendida giornata di giugno inoltrato, con il cielo azzurro e tutto il resto, buona per andare al mare, prendere un caffè in terrazza con gli amici, giocare una partita di calcetto o starsene sul balcone a far finta di leggere per poter spiare la ragazza della finestra di fronte. Sì, buona per tutto meno che per starsene in ufficio a leggere quelle cartacce odiose o a digitare su quello stupido computer centinaia di dati che poi dovrò aggiornare, cancellare, sostituire, controllare, incolonnare. Meno male che oggi sono uscito prima, con tutto il tempo per prendere la metro e arrivare comodamente in stazione; riguardo l’orologio, sono le 14 e 27, ancora qualche minuto e poi arriverà il treno; poi salire, cercare posto, ingannare il tempo, magari leggendo il giornale di stamattina, mostrare il biglietto al controllore... e in meno di un’ora sono in grado di arrivare a casa, prendere la moto e raggiungere Sandra al mare, gran bella cosa abitare vicino al mare, almeno in estate è davvero quello che ci vuole, mentre tutti restano nelle città a sudare come un eschimese all’equatore. Sì, proprio così, come un eschimese all’equatore; chissà se riuscirebbe a sopravvivere, sarebbe davvero un’esperienza traumatica; ma poi, non so

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