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Peccato di Sangue
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E-book313 pagine4 ore

Peccato di Sangue

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Info su questo ebook

Schio, 2010. Michele Conte, mentre svolge delle ricerche con le quali intende far luce sul passato misterioso di una famiglia di Sommacampagna, i Malentie, riceve una lettera che lo invita ad abbandonare le indagini. Per nulla intimorito, affiancato da Debora Leoni, una ragazza affascinante e intelligente, decide di procedere, dando così il via ad una serie di omicidi. Ecco che inizia una corsa contro il tempo per scoprire l’identità dell’assassino e fermare la sua follia. I due amici dovranno destreggiarsi tra diari segreti, enigmi, testamenti, tesori scomparsi, manoscritti, personaggi ambigui. Paura, intrigo, rabbia, desiderio, sono gli ingredienti di questo romanzo giallo, la cui trama si sposta tra passato e presente, tra Schio e Torrebelvicino, tra Verona e Sommacampagna, nel quale nulla va dato per scontato.
LinguaItaliano
Data di uscita3 ott 2019
ISBN9788834192955
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    Anteprima del libro

    Peccato di Sangue - Stefano Giuseppe Ramazzotto

    Alessandro

    Ringraziamenti

    In questa sede voglio ringraziare gli amici che mi hanno aiutato leggendo il romanzo e dato il loro parere sulla trama: Amina, Edoardo, Elisa, Silvia, Teresa.

    Un ringraziamento particolare ad Andrea, Carlo e Emiliana, Ylenia per il loro lavoro di lettura e correzione.

    Grazie a zio Claudio per il continuo supporto, a Lorenzo Maistro per aver disegnato un’altra meravigliosa copertina, a Ylenia per le due poesie Io ti amo e Il petalo rosso, inserite nel capitolo XXXVI.

    Grazie a mio papà Ermanno per aver contribuito a far nascere la mia passione per la scrittura, a Martina per il suo appoggio e a Giulia di Editrice Veneta per l’ottimo lavoro svolto.

    Prolegomeni

    Anno 1750

    Un liquido denso, rosso e viscoso, scendeva da un angolo della cornice del ritratto imbrattando la parete color seppia per poi raggiungere il pavimento. La ragazza doveva aver tentato di fuggire salendo le scale prima che l’accetta si conficcasse alla base del collo e la testa rotolasse fino al punto più lontano del pianerottolo, dove era infine rimasta. Il suo corpo pareva essersi pietrificato all’istante e negli occhi, oramai lontani da esso, era chiaramente visibile il terrore. Povera Clara, prestava servizio in quella villa da pochi mesi, aveva solo sedici anni e tutta una vita davanti, e ora di lei non sarebbe rimasto nemmeno il ricordo.

    A quella vista la gamba destra, quella buona, aveva ceduto all’improvviso e se non si fosse aggrappato alla ringhiera di metallo quel capogiro lo avrebbe fatto senz’altro cadere. Si tolse il tabarro e paonazzo riuscì a trovare la forza, ma soprattutto il coraggio, per continuare a salire e raggiungere il salone al primo piano. Ovunque sulle pianelle esagonali verdi e rosso mattone del pavimento vi erano frammenti di vetro e di porcellana. I cassetti della grande madia, come pure quelli dello scrittoio, erano stati rovesciati a terra e i documenti ivi contenuti ora erano insanguinati. La stanza, la più bella e ampia di quella dimora eretta nel Seicento, era stata completamente distrutta. Il servo, tremante, girò attorno al grande tavolo di legno massiccio e solo allora vide i due corpi a terra. La padrona di casa indossava una camicia da notte bianca e una cuffia in testa. Il suo viso era rivolto verso il soffitto ed era sicuramente morta. Il marito, disteso su un fianco, era vestito ancora con un elegante gilet nocciola, una camicia bianca con gli sbuffi ai polsi, culottes verdi fermate al ginocchio da una fettuccia con bottone e scarpe marroni con la fibbia.

    Il domestico gli si avvicinò procedendo carponi. Respirava ancora.

    «Signore, che è successo? Chi ha fatto ciò?» chiese.

    Il signorotto provò a muovere le labbra, ma dalla sua bocca uscì solo un rantolo, il suono che precede il trapasso. Il servitore si fece più vicino e vide il pugnale che gli era stato conficcato vicino al muscolo dorsale sinistro. La lama, attraversando la carne, doveva aver lacerato delle vene importanti perché l’uomo aveva perso parecchio sangue.

    Il domestico pensò che non poteva trattarsi di un furto, dato che i dipinti, i ricchi soprammobili, l’argenteria, erano rimasti al loro posto così come se li ricordava. Si chiese dunque chi potesse odiare a tal punto la famiglia. Il suo padrone e la moglie erano due persone meravigliose e lui lo sapeva bene dato che lo avevano preso a servizio nonostante la sua menomazione.

    Dio mio, i bambini! pensò ad un tratto.

    Il fiato si stava esaurendo a causa del turbamento e non sapeva se in quelle condizioni sarebbe riuscito a raggiungere le camere, ma doveva farlo. Quelle povere creature potevano aver bisogno del suo aiuto.

    Regnava il silenzio. Scosse la testa, abbandonò il salone ed iniziò a salire una nuova rampa di scale. Passò davanti ai dipinti che ne coprivano le pareti senza quasi vederli. Certo, in un altro momento sarebbe rimasto incantato da quel paesaggio, un concerto campestre con sullo sfondo un boschetto e un placido torrente, ma ora aveva altro per la testa.

    Le scale non finivano mai, come se il tempo si fosse fermato. Finalmente giunse nel corridoio e, davanti alla porta della camera, vide a terra le altre due serve. Sui loro corpi nudi erano visibili con chiarezza i segni del livor mortis: avevano perso colore e nella parte che appoggiava sul pavimento si erano formate delle macchie che andavano dal marrone violaceo al nero.

    Il suo viso era sgomento.

    Chi può aver fatto questo scempio? pensò.

    Non sapeva cosa fare e tremava all’idea di cosa avrebbe potuto aspettarlo oltre quella soglia. Si fece coraggio, respirò a fondo e tirò l’uscio verso di sé. Le mani, di riflesso, si spostarono velocemente sul suo capo.

    I due angioletti erano nei loro letti e parevano dormire. Provò ad appoggiare la mano davanti alle loro boccucce, ma nulla usciva da quelle labbra oramai bianche e ghiacciate. Fu allora che vide il sangue sulle lenzuola e sul tavolato. Si fece il segno della croce.

    «Fa’ che non abbiano sofferto» disse mentre guardava al cielo.

    Si inginocchiò ed iniziò a pregare per le loro anime.

    Ad un tratto capì che qualcosa non tornava. Ma cosa? La confusione aveva ottenebrato la sua mente. Si sedette per terra e si coprì il viso. Quando realizzò, i suoi occhi si riempirono di lacrime, lacrime di speranza.

    Uscì dalla stanza, scese le due rampe di scale, raccolse il mantello, lasciò la porta d’ingresso aperta come l’aveva trovata al suo arrivo e in men che non si dica si ritrovò nel cortile. Appoggiò le mani sulle ginocchia cercando di riprendere fiato, radunò le forze, passò davanti al pozzo, poi tra le due colonne in stile dorico del giardino, quindi, tenendo la ghiacciaia sulla sua destra, raggiunse il viale alberato e osservò come in quel momento le chiome dei cipressi fossero mosse con forza dal vento gelido. Giunto sulla strada in uno stato misto tra agitazione e rabbia, si guardò attorno, ma non vide nessuno. La luna illuminava la chiesa di Sant’Andrea all’interno del cimitero mettendone in risalto la sue forme antiche, delineate da pietre e ciottoli. Iniziò a correre goffamente verso le case gridando e in capo a pochi minuti tutta Sommacampagna si risvegliò.

    Dicembre 1849

    «Adesso cerchiamo di dimenticare questa vicenda» disse il gentiluomo. «Andiamo a casa. Mia figlia ci sta sicuramente aspettando.»

    Prima di rispondere, lei lo guardò negli occhi e gli sorrise. Il suo era il sorriso di una donna innamorata.

    «Non solo tua figlia ci sta aspettando, ma anche l’inizio della nostra vita insieme.»

    L’uomo e la donna uscirono dal villino, salirono a cavallo e dopo essere passati sul ponticciolo di pietra attraversarono la città fino a raggiungere la casa dell’uomo. La porta in legno di larice con disegni floreali era maestosa. Lui impugnò il batocchio in ferro brunito, bussò e una domestica anziana aprì.

    «Signore, sua figlia la sta aspettando nel salone» disse quest’ultima.

    «Lo immaginavo» rispose lui rimanendo ancora una volta incantato davanti all’affresco che si trovava nell’ingresso.

    «Che ti succede?» chiese lei.

    «Nulla» rispose l’uomo, sognante. «Quando guardo questa scena mi chiedo come abbia fatto l’artista a rendere così reali i colori del prato e delle farfalle.»

    La bambina corse incontro alla coppia. Pareva che non li vedesse da giorni.

    «Resterai sempre con noi?» chiese alla ragazza, con gli occhioni imploranti.

    La donna guardò il padre della bimba e lui, senza indugio, fece un cenno di assenso col capo.

    «Sì, tesoro, rimarrò qui con voi» rispose dunque.

    La domestica sorrise. Quella ragazza le piaceva moltissimo.

    Ora che tutto si era risolto per il meglio e che con serenità avevano deciso di non farne parola con nessuno, l’uomo e la donna si sentivano meglio, liberi di lasciarsi andare ai loro sentimenti.

    Dopo aver salutato la bimba, che accompagnata da una giovane domestica imboccò le scale per raggiungere la sua stanza, lui e lei si accomodarono nel salone. Ad ogni angolo mensole di legno e di gesso, specchiere, statuette in marmo e dipinti.

    «Vi sentite bene?» chiese la domestica presentandosi sulla porta.

    «Bene, sono solo stanco» rispose il padrone di casa.

    L’uomo fece portare dei biscotti e una bottiglia di vino bianco per festeggiare la fine di quella brutta storia.

    «A noi due, cara!» disse.

    I calici, illuminati dal tremolio delle candele poste sul lampadario di cristallo, scintillarono.

    Finito il brindisi, lui prese la ragazza per mano e la accompagnò al terzo piano. Quella notte, finalmente, avrebbero dormito nello stesso letto.

    Non dormirono molto per la verità.

    «Non mi sembra vero» disse lui «di essere qui con te.»

    La guardava come se mai avesse visto cosa più bella al mondo. Ed era proprio così. Neanche una volta nella sua vita aveva provato ciò che provava per lei e adesso gli sembrava di impazzire dalla gioia.

    La strinse a sé e ne respirò il profumo mentre con dolcezza la baciava sulla fronte. Per tutta risposta la ragazza si sollevò e iniziò a mordere il labbro inferiore di lui. I suoi occhi, a mandorla e profondi, chiedevano maggiori attenzioni e le sue mani andavano su e giù tra la peluria del petto dell’uomo. Lo desiderava con tutta se stessa e lui, che riusciva a vedere nel profondo del suo animo e a leggere i suoi pensieri più intimi, la prese in braccio e la distese sul letto a baldacchino.

    «Aspetta,» disse la ragazza indicando la collana di sautoir di perle d’acqua dolce con cammeo. «Prima aiutami a togliere questa.»

    «Mi piace il carattere col quale è stata incisa la V e il color rosso bruno dell’avventurina si sposa a meraviglia con il resto del gioiello.»

    «È un dono di mio padre.»

    La baciò sulla bocca, sul collo, dietro le orecchie, in un crescere vorticoso dell’eccitazione di entrambi. La mano sinistra di lui cominciò un lento, sensuale balletto, passando dall’esterno all’interno delle cosce per poi osare sempre più. Lei iniziò ad inarcare la schiena e ad ansimare mentre sentiva il ventre andare in fiamme.

    «Ti piace, amore?» chiese l’uomo.

    «Oh sì…» rispose prima che i suoi occhi facessero una capriola.

    La ragazza si sentì mancare quando la lingua di lui iniziò a muoversi su e giù ritmicamente. Era tutto un fremito. Quindi i baci presero la direzione opposta e si spostarono dall’inguine verso l’addome e l’ombelico, per arrivare infine all’incavo dei seni.

    «Ti amo» le disse ritornando a baciare i lobi delle orecchie.

    Fecero l’amore, piano, dolcemente, e lui adoperò tutta la tenerezza possibile. Voleva che lei stesse bene, che si sentisse unica, desiderata.

    Quella notte concepirono Giulia.

    I – Ricerca

    Colli berici, maggio 2010

    L’aria frizzante di quei primi giorni di maggio gli avrebbe scompigliato i lunghi riccioli, ciò nonostante aveva deciso di tenere abbassata la capote. Prima l’organo calmo, poi la chitarra straziata, quindi il batterista che sembra fracassare le casse. Shhh quiet might piss somebody off sussurrava Matthew Shadows mentre il pathos andava aumentando. La musica di Critical acclaim degli Avenged Sevenfold era ai massimi volumi e la sua Golf pareva volare sull’autostrada. Una volta arrivato a Vicenza avrebbe proseguito sui colli Berici e raggiunto il paesello dov’era nato Sartori Giuseppe, il bisnonno del suo cliente.

    Michele Conte, nato e residente a Schio, aveva frequentato l’istituto tecnico Silvio De Pretto allo scopo di entrare, dopo il diploma, direttamente nel mondo del lavoro, ma strada facendo aveva scoperto di rimanere incantato davanti ad una poesia di Leopardi, di essere affascinato dalla storia medievale e dal Rinascimento. Così si era iscritto alla facoltà di lettere. Notti intere passate in compagnia dei cari amici Boccaccio, Alessandro Magno, Pirandello, Federico Barbarossa, avevano arricchito la sua cultura e il suo animo. Si era impegnato nello studio con grande passione e aveva letto una miriade di testi tra i quali alcuni in latino, allucinanti e al tempo stesso seducenti, come i Libri Feudorum, una raccolta di consuetudini in materia feudale riordinati dal giurista Antonio da Pratovecchio. In quegli anni era anche nato in lui un amore folle, senza limiti, nei confronti della genealogia e dell’araldica. Adesso che si stava avvicinando ai quarant’anni poteva finalmente lavorare nel campo della ricerca genealogica: il suo sogno si stava realizzando e sarebbe riuscito a mantenere la promessa fatta a sé stesso.

    Percorse alcuni chilometri a ridosso dei colli, tra vitigni, campi di granoturco, mais, tabacco, prati verdissimi e lunghi fossati. Poche le case e per lo più isolate, con annessi i ricoveri per gli attrezzi e le macchine agricole. In quei luoghi il tempo pareva essersi fermato e Michele sapeva bene che lì ci si poteva ancora imbattere in nuclei famigliari estesi o patriarcali, così detti per la presenza di un patriarca, in genere il membro più anziano. Ora non è più il nonno a gestire ogni attività, non è più lui a tenere appese alla propria cintola l’unica copia delle chiavi che aprono la cantina; il capofamiglia non sta seduto al tavolo da pranzo aspettando che una figlia o una nuora gli versi il vino nel bicchiere come avveniva all’inizio del secolo, ma in qualche modo nelle campagne la stima e il rispetto verso chi ci ha preceduto sono rimasti più o meno quelli del passato.

    In mezzo al verde, qualche raro capannone industriale cozza col paesaggio. Davanti agli occhi di Michele le colline e sopra di esse solo quattro timide nuvole che così a guardarle paiono grossi uccelli in formazione.

    Giunto ad Alonte, la sua meta, Michele parcheggiò l’auto di fronte alla chiesa dedicata a San Biagio e attraversò la strada sotto un pallido sole. Andò a suonare il campanello posto su una delle due colonne in marmo del muro di pietra. Il vecchio cancello, oramai arrugginito, si aprì quasi subito, cigolando. Il ragazzo risalì la stretta scalinata e giunse all’ingresso dell’edificio color lilla. Una donna sui sessant’anni, di corporatura massiccia e con due grossi occhi a palla, aprì la porta.

    «Buongiorno. In che cosa posso esserle utile?» chiese la donna con un tono di voce appena percettibile.

    «Buongiorno, signora. Mi chiamo Michele Conte e ho un appuntamento con Don Carlo.»

    All’apparenza un po’ seccata, la perpetua si diresse verso la porta sulla sinistra e sparì dietro di essa. Due minuti dopo, il parroco, mostrando un gran sorriso, fece la sua apparizione.

    «La stavo aspettando. Mi segua, ho già preparato i registri che mi ha chiesto. Ora, purtroppo,» aggiunse alzando le mani al cielo «devo uscire perché mi aspettano a Corlanzone. Lei faccia con comodo e una volta finito lasci tutto sul tavolo e chiuda la porta, per cortesia.»

    Il sacerdote strinse con forza la mano di Michele.

    «Mi stia bene» disse e, senza attendere la sua risposta, uscì dalla porta d’ingresso.

    Certo che quest’uomo ha molta fiducia nel prossimo pensò Michele piuttosto sorpreso.

    Dallo studio dei registri dei battesimi Michele riuscì a farsi un’idea su quella che era la famiglia Sartori tra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Vi erano Giuseppe e i suoi fratelli, ma anche quelli che dovevano essere dei cugini. Passò quindi agli atti di matrimonio. Oltre a quello di Achille Sartori, il trisnonno del suo cliente, trovò altre tre registrazioni. Si trattava di fratelli di Achille. I quattro risultavano essere nati a Toava tra il 1855 e il 1870. Le ricerche non si sarebbero dunque fermate ad Alonte e Michele era curioso di sapere quanto lontano lo avrebbero portato. Restava da scoprire dove si trovava quel paese.

    Appena uscito dalla canonica Michele entrò nel piccolo bar davanti alla chiesa e ordinò un caffè.

    «Scusi, signore, lei sa se in zona c’è un paese che si chiama Toava?» chiese all’anziano seduto lì vicino.

    «ToaRa, si chiama!» rispose questi in modo un po’ arrogante, forse sorpreso dall’ignoranza del ragazzo.

    Michele arretrò di un passo.

    «Mi scusi, ma non sono del posto. Dove sarebbe questa ToaRa?» chiese dunque.

    L’uomo rispose, ora più gentile.

    «Dietro alle colline che può vedere alle spalle del municipio.»

    L’anziano spiegò a Michele la strada più breve per raggiungere Toara, quindi il ragazzo salutò e si diresse verso la sua auto. Non aveva fretta e decise di entrare in chiesa per vedere la cupola semisferica della quale gli avevano parlato alcuni conoscenti.

    Uscito dall’edificio sacro il suo sguardo andò a posarsi sul campanile e gli venne naturale un sorriso. Alcuni giorni prima, una signora che abitava a Schio ma che proveniva proprio da quel paesino, gli aveva riportato infatti una specie di filastrocca: Alonte, lontan da Dio. Ciesa davanti e campanile drio. Osservò come in effetti la torre campanaria si trovasse lontano dalla chiesa e dall’altro lato della strada. In realtà si era informato e ora sapeva che ciò era dovuto semplicemente al fatto che l’attuale edificio, la cui erezione era iniziata nel 1868, aveva sostituito la vecchia chiesa del paese che, abbandonata dai fedeli in quanto pericolante, si trovava invece proprio a ridosso del campanile.

    Il cielo iniziava ad annuvolarsi, Michele salì in auto e chiuse la capote. Estrasse dal lettore il cd degli Avenged e al suo posto inserì Mechanical Resonance dei Tesla, disco che adorava. Altra epoca, altro sound. Al ritmo di Ez come ez go uscì dal paesino.

    Appena entrato in autostrada si imbatté in un acquazzone e fu costretto a procedere lentamente. Non vedeva nulla.

    Arrivò a Schio nel primo pomeriggio e si mise subito al telefono.

    «Buonasera, sono Michele Conte e la chiamo da Schio. Sto facendo un’indagine per conto di un mio cliente e avrei la necessità di consultare i vostri registri canonici.»

    Il parroco di Toara di Villaga si dimostrò molto disponibile e i due si accordarono per vedersi la settimana successiva.

    Michele era soddisfatto. Quello era il lavoro che aveva sempre sognato e ora l’avventura aveva avuto inizio. C’erano voluti alcuni mesi per trovare l’appartamento con una stanza adatta al suo studio, arredarla, attrezzarla e pubblicizzare la nuova attività. Oltre alle notti passate insonni, aveva messo in quel progetto ogni euro del conto in banca e ora era desideroso di sapere se sarebbe riuscito a vivere della sua nuova attività. La ricerca per il signor Sartori gli avrebbe permesso di guadagnare i primi soldi come libero professionista. Fino ad allora Michele aveva lavorato presso lo studio di un avvocato per il quale svolgeva indagini su soci d’affari poco onesti, mogli e mariti fedifraghi, figli e nipoti scialacquatori di beni, lavoro che non gli dava alcuna soddisfazione, ma una paga molto buona.

    Il tempo era migliorato e il sole era tornato a splendere nel cielo. Dopo aver riordinato il materiale raccolto quel giorno si mise dei pantaloncini al ginocchio, la maglietta tecnica preferita, le scarpe Adidas Response rosse e uscì a fare una corsetta. Preso da mille impegni com’era stato negli ultimi mesi aveva fatto poco movimento e ora sentiva la necessità di scaricare tutta quell’energia negativa che era andata accumulandosi. Imboccò il ponte sul torrente Leogra, risalì a passo lento la Riva di Magrè e proseguì fino a Contrà Barona deciso a raggiungere Pievebelvicino. Si ricordò del lettore Mp3 che teneva nel marsupio e della compilation preparata appositamente per gli allenamenti, mise dunque gli auricolari e, deciso a correre senza più pensare, schiacciò Play. La prima traccia pareva fatta apposta per scatenare l’adrenalina in un podista: Big Gun degli Ac/dc, elemento della colonna sonora del film Last action hero. Accelerò infatti il passo, per rallentarlo prontamente dopo aver lanciato un’occhiata al display del suo Suunto che segnava battiti già prossimi alla soglia impostata. Percorse il rettilineo in mezzo ai campi, passò tra le case del Rivo Ballarin e iniziò a scendere. Giunto alla Roggia si fermò per riprendere fiato e per alcuni istanti rimase incantato a guardare i ragazzini che si stavano allenando sulla piccola pista per i trial. Riprese dunque a correre e prima Always di Bon Jovi, poi Sogni di Gianna Nannini, portarono la calma cullandolo fino a raggiungere la frazione del comune di Torrebelvicino; quindi i battiti tornarono a salire quando l’ansia ritmica, la viva esaltazione, forse eccitazione pura, che gli trasmisero la doppietta Taking the Queen e Darkside of Aquarius di Bruce Dickinson, ebbero il sopravvento.

    Rientrò a casa che erano già passate le cinque e fatta la doccia si appisolò sul divano. Non appena si risvegliò una sola cosa riempiva la sua mente: la pizza del Marechiaro. Quella pizzeria aveva aperto in viale Trento Trieste negli anni sessanta e secondo Michele era ancora la numero uno.

    «Allora, signorino Michele, mi racconti. Come va con la nuova attività?»

    Antonio adorava stuzzicarlo dandogli del lei. Michele sembrava infastidito, la realtà, invece, era che questo lo faceva sentire importante.

    «Adesso lo studio è perfetto e oggi ho iniziato una ricerca per il mio primo cliente!» rispose contento.

    Il volto del titolare della pizzeria mostrava ora soddisfazione e in un certo senso orgoglio perché conosceva Michele fin da quand’era bambino.

    «Bene, mi fa molto piacere» rispose.

    La cameriera arrivò in quel momento interrompendo la loro conversazione. Michele ordinò la sua classica prosciutto cotto con salamino e una birra bionda. Il tempo di lavarsi le mani e la pizza era già sul tavolo, fumante.

    La serata trascorse tranquilla e verso le nove il ragazzo

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