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Sull'ala del picchio
Sull'ala del picchio
Sull'ala del picchio
E-book549 pagine7 ore

Sull'ala del picchio

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Info su questo ebook

"Sull'ala del Picchio" è il primo romanzo storico sull'origine dei Piceni, fiero popolo che dominava le Marche in epoca pre-romana, protagonista di scontri feroci con le legioni dell'Urbe. Si narra in particolare di un piccolo borgo marchigiano oggi denominato Attigio, sito nelle vicinanze dell'attuale Fabriano (AN). L'Autore, pur non essendo un vero archeologo, attratto da sempre dalle "cose antiche" ha perfezionato negli anni una singolare cultura storico-archeologica da autodidatta. Con ricognizioni sul campo e studi dettagliati sulla civiltà dei Piceni, ci porta a conoscere gli usi e i costumi di un popolo per molti versi ancora sconosciuto.
La narrazione parte dalla vallata di Rieti, nell'Alta Sabina, dove un villaggio viene distrutto dagli etruschi, costringendo i superstiti tra valli inesplorate e luoghi inospitali. Intrepidi e leggendari condottieri, seguendo un picchio, uccello sacro a Mate, oltrepasseranno le alte montagne dell'Appennino centrale per fondare una nuova nazione a ridosso del sinclinale camerte, nelle attuali Marche. Il villaggio di Attidium sarà il traguardo finale della lunga trasmigrazione, attuata nell'arco di tre generazioni.
LinguaItaliano
Data di uscita5 mag 2023
ISBN9791280990372
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    Anteprima del libro

    Sull'ala del picchio - Antonio Ciarabalà

    Antefatto

    Attiggio di Fabriano, 13 giugno 2010 d.C

    Cominciò tutto in un bel giorno di mezza estate… sembra il titolo di un film ma realmente, quella, fu un’estate particolare per me.

    Partiamo dal principio; la passione per l’archeologia è nata in me lo stesso giorno in cui sono venuto al mondo. Ho trascorso giornate intere tra le zolle di terra appena arata e slavata dalle piogge autunnali a raccogliere cocci e frammenti di tegole romane.

    Non mi sono laureato ma da perfetto autodidatta mi sono fatto una cultura niente male.

    Conosco molto bene la storia della mia regione e dell’Italia in generale; il mistero dei popoli passati che l’hanno abitata è il carburante delle mie ricerche senza fine.

    Ci sono ancora molti dubbi e molte ombre sulle civiltà preromane, la loro origine, la loro lingua e molto altro ancora; questo è ciò che mi fa sognare e rivivere quei tempi remoti...

    Cominciò tutto un bel giorno di mezza estate, come ho già scritto, in un piccolo paesino che non esiste neanche sulle carte, sito nella parte interna delle Marche, a ridosso degli Appennini.

    Si chiama Attiggio e, pur essendo sconosciuto al mondo intero, è però molto famoso nei salotti della Sovrintendenza archeologica delle Marche.

    Negli anni ‘60 furono condotti scavi archeologici che misero in evidenza un insediamento neolitico con frequentazioni posteriori, soprattutto del periodo piceno. Una decina di anni or sono iniziarono delle esplorazioni sistematiche dell’area in cui sorgeva un piccolo municipio romano che raggiunse il suo massimo splendore nel I-II sec. d.C. e che fu letteralmente spazzato via dalle orde di Alarico nel 409 d.C.

    Attiggio deriva dal nome dell’antico municipio romano Attidium, già nominato nella prima divisione regionale-amministrativa di epoca augustea e, se non fosse per l’incredibile storia che si cela dietro questo toponimo, si potrebbe definire come uno tra i tanti comunissimi municipia esistiti in epoca romana in ogni angolo dell’impero.

    Per quanto riguarda l’origine di questo antico insediamento, tutti i vari studiosi locali e non la collocano in una età molto remota e assai precedente alla conquista romana, esattamente agli albori della civiltà picena.

    Se comunque tutti gli storici sono concordi all’unanimità sull’origine picena del sito, altra cosa è invece per l’origine del suo nome, Attidium.

    Vi sono diverse teorie, fra cui due più accreditate: la prima riguarda un oscuro gentilizio di origine italico-romana e la seconda è l’incredibile storia che sto per narrare…

    Dopo due giorni di piogge monsoniche, in un bel dì, caldo e assolato, mi balenò in mente l’idea di fare una perlustrazione nell’area dove anticamente esisteva questa città romana.

    Quand la pioggia lava il terreno appena arato, dei cacciatori di reliquie come me possono avere delle belle soddisfazioni e quel giorno era l’ideale per scovare frammenti di ceramica aretina, monetine romane, marmi lavorati o laterizi con bolli di fabbricazione tra le zolle di terra ancora umide.

    Arrivai di mattina presto. Erano circa le 7.00, il sole all’orizzonte, ancora insonnolito data l’ora sicuramente insolita per svegliarsi, specialmente d’estate, quando la sera si fa tardi al bar, con gli amici del paese a bere e scherzare.

    Quella mattina trovai una situazione ottimale per la ricerca anche se si faticava un po’ a camminare nel campo reso melmoso dall’ultimo temporale.

    Le tasche del mio giubbetto verde, da cacciatore cinghialaro, come dicono i miei amici del bar, cominciavano a riempirsi di ogni cosa; la ricerca si stava rivelando molto fruttuosa, soprattutto per la quantità di oggetti rinvenuti, ma non speciale.

    Per speciale si intende un qualcosa che quando lo tieni in mano ti provoca un attacco di tachicardia, un brivido che ti attraversa il corpo e ti fa esclamare cose che non diresti neanche quando sei ubriaco, come l’oggetto mirabolante e ignoto che dissotterrai poco dopo.

    Bene o male, avevo setacciato attentamente la parte più pianeggiante dell’area archeologica e, dopo essermi rifocillato un poco, pensai di fare anche un’escursione in una zona periferica del municipio romano, esattamente sopra un pianoro alluvionale e ciottoloso a poche decine di metri dal fiumiciattolo che taglia la valle a metà e che nei tempi antichi doveva circoscrivere in parte l’abitato.

    Trovai pochi reperti e poco interessanti, frammenti di ceramica depurata grezza di colore rosso vivo, qualche tegola o piuttosto ciò che rimaneva di qualche tegola romana e una monetina tardo-imperiale consunta dal tempo e quindi indecifrabile.

    L’unica cosa che mi destava una certa curiosità era la colorazione del terreno, anomala per essere un terrazzo alluvionale.

    Normalmente il materiale di queste strutture terrazzate, residui di antichi depositi alluvionali pleistocenici, è costituito da ghiaie e ciottoli levigati dal passaggio dell’acqua, ma lì di fronte a me, alcune macchie di terra scura, più o meno equidistanti l’una dall’altra, mi indussero a ipotizzare che forse mi trovavo in presenza di un’area cimiteriale.

    L’aratro doveva essere andato più basso del normale toccando e asportando parte dei livelli sottostanti di quel terrazzo alluvionale.

    Di conseguenza, se vi erano delle sepolture, parte di loro era venuta in superficie creando quelle macchie di leopardo di terra scura e grassa, tipica delle tombe antiche.

    A quel punto decisi di setacciare con più attenzione la zona, soprattutto in corrispondenza delle macchie, dove, mescolati alla terra nerastra, vi potevano essere reperti molto interessanti, testimonianze delle antiche sepolture.

    Mentre ero chino in prossimità di una di queste, il mio ginocchio destro, che era appoggiato sul terreno, avvertì qualcosa di spigoloso che stava immediatamente sotto.

    Dopo una smorfia di disappunto per il fastidio causatomi dal corpo contundente, notai fuoriuscire dal terreno qualcosa di metallico dal colore grigio scuro.

    Estrassi l’oggetto e lo ripulii: era piombo.

    Pensai ad una comunissima grappa plumbea frequentemente usata in epoca romana per saldare grandi recipienti ceramici rotti o per stuccare buchi o fessure nei pavimenti o nei muri delle abitazioni.

    La stavo per buttare, quando, pulendola ancora a fondo, mi accorsi con grande sorpresa che si trattava di una rozza statuina di piombo rappresentante una figura umana di cui si potevano ben distinguere il volto, il corpo, un braccio intero l’altro a metà e parte delle gambe.

    Il braccio era alzato a quarantacinque gradi e anche l’altro doveva esserlo, le gambe leggermente aperte con il sesso leggermente evidenziato.

    Era lungo una decina di centimetri e largo circa 6 o 7. Tutta la struttura aveva una forma schiacciata, probabilmente ottenuta per martellatura, segno questo di una lavorazione piuttosto artigianale e sbrigativa.

    Tutti i particolari erano piuttosto schematici e sintetici, e l’ossidazione del piombo, insieme all’usura del tempo, conferivano alla statuina un aria primordiale e ancestrale.

    Non riuscii subito a datarla; era troppo grezza per appartenere ad un filone artistico ben preciso e da me conosciuto.

    Mi ricordo ancora l’emozione nel trovarla. Rimasi in apnea per diversi secondi, in preda allo stupore per quel misterioso oggetto. Come un bambino quando riceve un giocattolo nuovo, me lo giravo e rigiravo tra le mani.

    Stupore e panico aumentarono ancora di più quando, dopo averlo lavato con l’acqua dell’antistante fiumiciattolo, mi accorsi che c’era una scritta sul dorso della figurina plumbea; non era italiano, non era latino. Caratteri arcaici primeggiavano, staccandosi dal grigio fuligginoso del metallo ossidato dai secoli.

    Un’emozione immensa mi assalì in quel frangente. Ora ero consapevole di una cosa, di trovarmi di fronte non a un bel ritrovamento, ma a una cosa unica; non un oggetto da mettere in vetrina e da ammirare solo per il suo valore oggettivo, ma un reperto da studiare, un mistero da svelare, un viaggio nel passato…

    Tornai a casa ringraziando il Signore e tutti i Santi per avermi fatto trovare quell’oggetto incredibile.

    La sera, al bar, mi ubriacai.

    Grazie alla mia ottima cultura da autodidatta e ad alcune conoscenze preziose, non mi ci volle molto a decifrare quelle due parole di 7 lettere ciascuna.

    I caratteri appartenevano al Piceno Meridionale, un dialetto di origine Osco-Sabellica simile all’Osco-Umbro parlato in Umbria e nella parte settentrionale del Piceno.

    Questa lingua veniva parlata quasi tremila anni fa dalle genti italiche stanziate nell’alto Lazio, nell’Umbria e in tutta la fascia medio-adriatica.

    Tutt’ora rimane sconosciuta; solo alcune parole o frasi sono state tradotte e per lo più nomi di personaggi scolpiti sulle stele funerarie o su materiale fittile.

    La statuina di piombo che trovai si poteva ora datare, anche se con una certa approssimazione, ai primordi della civiltà picena.

    …E la frase, scritta sul dorso, era:

    T U T A P E R

    S A P H I N A

    che si può tranquillamente tradurre in LA GENTE SAFINA.

    Cosa vuol dire? Perché quella statuina picena si trovava nelle immediate vicinanze dell’antica Attidium piceno-romana? E perchè era così schematica come fosse stata forgiata da mani infantili?

    È una storia che merita di essere raccontata, ed è quello che proverò a fare nelle prossime pagine.

    Capitolo 1

    Valle di Reat, 13 giugno 532 a.C.

    Luphu, il pastore, scendeva dalla montagna con il suo gregge di pecore. Con passo cadenzato e claudicante lasciava i freschi pascoli del monte Kuretos guidando l’armento giù per il ripido passaggio.

    Conosceva bene quel sentiero e, benché lo avesse percorso fin da quando era tra le braccia di sua madre, i suoi occhi neri come la notte non smettevano mai di guardare per terra, analizzando attentamente tutte le asperità del terreno, cercando di non inciampare sulle sporgenze rocciose o tra le radici dei rovi che crescevano lungo la via.

    Da secoli intere famiglie di pastori avevano percorso quel tratturo con le loro mandrie di vacche o pecore, per usufruire dei verdi pascoli delle montagne dell’alta Sabina.

    La transumanza era praticata da tempo tra i popoli appenninici locali; il padre di Luphu, suo nonno e tutti i suoi antenati si servivano di quel passaggio accidentato per raggiungere la cima del monte Kuretos, sacro agli abitanti della valle.

    All’inizio della stagione calda era usanza, tra i pastori della valle di Reat (la città rocca che emergeva con le sue mura megalitiche di arenaria tra i pioppi del meandrico fiume di Himella e i castagni delle colline circostanti), seppellire un ex-voto una volta raggiunta la sommità del monte.

    Le offerte per la dea Kure, la dea della salute e guaritrice dei mali nonché protettrice delle mandrie, erano costituite da amuleti in bronzo o in piombo raffiguranti animali da pascolo o parti anatomiche umane come braccia, gambe o teste.

    Anche Luphu aveva contribuito con il passare delle stagioni all’arricchimento della già copiosa stipe votiva.

    Quando si era ammalato un montone, quando i lupi avevano sbranato e dimezzato il suo branco di pecore, quando si era fratturato una gamba cadendo da un scala posta a ridosso del fienile e per molte altre occasioni, si era rivolto sempre alla grande dea guaritrice, pregando, in solitudine, sulla cima erbosa del monte Kuretos, tra i venti gelidi di tramontana settembrini e i temporali improvvisi primaverili, incurante del freddo, della fame e della pioggia che picchiava insistente sul suo viso abbronzato.

    Luphu era vecchio, nato da una famiglia di pastori. Per tutta la vita aveva condotto bestie al pascolo e fatto formaggio.

    Non aveva una compagna, solo un fratello malaticcio e gracile che poteva dargli ben poco aiuto nel lavoro.

    Quando portava le pecore al pascolo, lo lasciava a casa assegnandogli mansioni meno gravose ed impegnative.

    Voleva sempre andare con lui, ma il vecchio pastore dagli occhi neri come la notte sapeva che la montagna era cosa dura e pericolosa, e lui teneva alla salute del fratello sfortunato, gli voleva bene e per questo lo lasciava a casa.

    Oltre alle pecore, gli unici compagni di viaggio, fedeli e coraggiosi erano tre cani bianchi e pelosi di media taglia: Larku, Narku e la dolce Niche.

    Niche aveva otto anni ed era la madre di Larku e Narku che avevano invece quattro anni; Larku era un po’ più grande di Narku, aveva una macchia bianca sulla fronte ed era molto geloso del fratello quando lo vedeva giocherellare con il proprio padrone.

    Niche era molto più dolce e mansueta e se ne stava sempre al fianco di Luphu, leccandogli le mani in segno di affetto e proteggendolo dal freddo, come fosse una coperta quando dormivano all’aperto riparati da una grande quercia secolare o rintanati in una delle tante grotte carsiche esistenti sulle montagne sabine.

    Tutti e tre prendevano il cibo direttamente dalla mano del vecchio pastore e, ora trotterellando e,annusando l’aria, lo seguivano in quella ripida discesa verso casa.

    Ogni tanto si fermavano. Le ginocchia di Luphu non erano più quelle di una volta, e la gamba menomata lo costringeva a rallentare e riprendere fiato.

    Quando camminava in salita non aveva grossi problemi, ma la discesa era una autentica via crucis per lui. Il peso del corpo gravava tutto sulle gambe e, scendendo, il contraccolpo dei passi, più l’irregolarità del tratturo, indolenzivano le sue ginocchia consumate dall’artrite.

    Mancava poco per arrivare al suo villaggio adagiato sulle sponde di un piccolo ruscello chiacchierino, specialmente a primavera, durante il periodo del disgelo.

    Mentre camminava, sognava a occhi aperti il suo comodo giaciglio e un bel pasto caldo; erano mesi che mangiava carne secca e pecorino duro ed erano mesi che non parlava più con nessuno, a parte qualche altro pastore come lui che incontrava tra le montagne, appartenente ad altri villaggi sparsi nella grande e verde valle di Reat.

    Riposandosi, appoggiato sul suo bastone di faggio con l’estremità ricurva e scolpita, ammirava lo spettacolare panorama che aveva sotto di sé.

    Il monte Kuretos era molto alto, il più alto tra tutte le montagne che circondavano la rigogliosa e fertile valle abitata dalla sua gente, e la visuale che si poteva avere da quell’altezza era veramente straordinaria.

    La rocciosa Reat dominava la valle con i suoi bastioni possenti e le porte ciclopiche sorvegliate di giorno e di notte da guardie armate fino ai denti. Le si potevano scorgere da lontano, con le loro corazze di bronzo scintillanti fare la ronda sulla cortina turrita e difendersi dal freddo dei mesi invernali accanto a degli scoppiettanti falò.

    Il Palatium dell’ Uthur, l’autorità suprema della città, sovrastava il resto del centro urbano; era il simbolo del potere militare e civile, cuore pulsante dell’intera valle, punto di riferimento della civitas stessa. Vi abitava con tutta la sua famiglia e la sua corte; da lì, di continuo, entravano e uscivano staffette portaordini e araldi di altre nationes vicine.

    Reat, però, non era solo questo, ma anche un intreccio di viuzze rozzamente pavimentate e storte pullulanti di artigiani, fabbri, commercianti di ogni tipo e genere, e di bambini schiamazzanti.

    Il nome completo del vecchio pastore che stava scendendo dalla montagna era Luphu Attidiu, pastore del Ner Vophion Ioviu Attidiu, principe guerriero della gens Attides consacrata ad Atys, dio del Sole.

    Ogni Ner aveva una sua gens, costituita da una moglie, figli, fratelli minori, parenti e servi. Tutti insieme formavano un clan detto Trifu, che possedeva terre e armenti e che, anche se indipendenti tra di loro, formavano però una federazione molto solida al servizio dell’autorità suprema della città.

    Quando l’Uthur di Reat dichiarava la guerra, i Neres erano obbligati a parteciparvi e, in caso di assedio, erano tenuti a difendere la città stessa a discapito dei loro villaggi lasciati alla mercè del nemico.

    In battaglia, il principe guerriero doveva essere assistito da una schiera di Iovies, uomini di rango sociale inferiore, reclutati solo per l’occasione e quindi con poca esperienza militare che, formando la Katera, avevano il compito di respingere il nemico e di ospitare, al riparo dietro la schiera, il loro Ner stanco o ferito.

    Ogni Trifu veniva indicata con un gentilizio, che era poi quello della massima autorità del villaggio, il padre della tribù, nonché fondatore del clan.

    Vophion era il padrone e Luphu il suo pastore, ma ambedue appartenevano alla:

    - TOTA SAPHINES -

    - NAZIONE SAFINA -

    Dopo aver bevuto un goccio d’acqua dalla sua fiasca di pelle, Luphu e il suo gregge ripresero il cammino.

    Il tratto più pericoloso oramai era passato e dimenticato, il vecchio pastore poteva camminare più comodamente e accelerò quindi il passo, ansioso di arrivare al Trifu, il villaggio, prima del buio.

    Il tratturo si era fatto più pianeggiante e non mancavano che pochi chilometri ancora per arrivare alla meta finale.

    Aveva bisogno di lavarsi e radersi; sei mesi di vita eremitica tra i monti lo avevano reso irriconoscibile. Maleodorava, il contatto prolungato con gli animali, il sudore e la totale mancanza di acqua, ad eccezione delle rigogliose e gelide sorgenti montane, molto utili per abbeverarsi ma poco pratiche per lavarsi data la loro temperatura glaciale, rendevano il vecchio pastore barbuto più simile a un orso risvegliatosi da un lungo letargo che a un essere umano.

    Il suo corpetto di pelle di pecora era pieno di insetti e ingiallito dal grasso del corpo umano.

    La mantella di lana nera di caprone era lercia e sgualcita; tanti erano i buchi che sembrava fosse stato trafitto da uno sciame di api giganti.

    I calzari di cuoio che gli arrivavano fino alle ginocchia avevano la suola usurata dalle lunghe marce in terreni accidentati, e il pollice calloso del piede sinistro faceva capolino da un buco.

    Aveva con sé un coltello di bronzo fissato con delle borchie dorate a una cintura di cuoio sul fianco sinistro, una sacca di pelle per l’acqua ormai vuota e una specie di zaino anch’esso di cuoio, nascosto sotto la mantella sgualcita in cui riponeva provviste ed effetti personali.

    Questo era il suo fardello personale che fin da tenera età lo accompagnava per le sue peregrinazioni alla ricerca di verdi e freschi pascoli per le sue preziose pecore.

    Gli animali lo ripagavano con del formaggio speciale, spesso richiesto anche dai notabili più alti di Reat.

    Il nobile Ner Vophion aveva un’alta considerazione di lui, dei suoi prodotti caseari e dell’ottimo latte di capra appena munto che tutte le mattine gli faceva avere tramite un servo.

    Pur presentandosi in modo cencioso, Luphu il pastore era molto amato nel suo villaggio; taciturno e schivo, era però sempre gentile e servizievole con tutti, creandosi così una buona reputazione.

    La famiglia del Principe gli voleva bene, e, seppur relegato al rango di servo, era sempre stato trattato bene e con rispetto.

    Il tratturo finiva innestandosi su una strada più grande, parallela al fiume Himella, che tagliava la valle in due e tangente al grande insediamento murato di Reat.

    La strada costeggiava l’impetuoso corso d’acqua per una decina di chilometri, non era lastricata ma disconnessa e ciottolosa; in inverno era quasi impraticabile dopo le pioggie e le abbondanti nevicate che si avevano in quei luoghi remoti nel cuore dei Apennines Montes.

    Era comunque l’arteria principale della valle, chiamata Vea dai Safini. I solchi lasciati dalle ruote dei carri, che non di rado vi transitavano, ne confermavano l’importanza.

    Ora tutto il gregge del pastore dagli occhi corvini invadeva la sede stradale; i cani scodinzolanti in coda e il padrone in testa formavano una colonna lunga, un serpente bianco gigantesco che spezzava la monotonia del paesaggio circostante.

    Si poteva sentire il rumore incessante del calpestio delle pecore, che al loro passaggio si lasciavano dietro un tappeto di palline nere, i loro escrementi, la firma del loro passaggio.

    La grande città fortezza era alle loro spalle, a monte del fiume, nascosta da un grande sbarramento di pioppi e mimetizzata dal folto della vegetazione spontanea tipica delle sponde dei corsi d’acqua.

    Diversa cosa erano i rumori che giungevano da quella direzione, vocii, zoccoli di cavalli, incudini e cani irrequieti che davano energia cinetica a tutta la valle.

    A mezz’ora di cammino, in direzione opposta, c’era invece Trifu Attides, il villaggio di Luphu il pastore, con le sue abitazioni povere tipiche di una società rurale sparse intorno alla Domu del nobile Ner Vophion, circondata da un aggere irto di pali appuntiti ed un fossato senza acqua.

    Il sole era ancora alto e, malgrado la stagione calda, era quasi al termine.

    La strada era incorniciata da enormi alberi dai rami molto lunghi, i quali, data la loro mole, accompagnavano il viaggiatore con una buona ombra nelle infuocate giornate estive, e lo riparavano dalla pioggia nei freddi mesi invernali.

    All’improvviso, il vecchio pastore claudicante notò una radura tra la carreggiata e il tumultuoso corso d’acqua; constatando che le sue scorte idriche erano terminate e considerando che le bestie non avevano più bevuto da molto tempo da quando si erano fermati sulla Fonte del Passero, a metà strada tra dove di trovava ora e la cima del monte Kuretos, pensò bene di dirottare il gregge verso quella radura, in modo da poter far abbeverare gli animali e riempire di nuovo il suo stomaco di acqua fresca e salutare.

    Luphu esclamò: Hopa, Hopaaaaa!!! Siac!!!

    All’unisono, i tre cani iniziarono ad abbaiare, spingendo le pecore nella direzione della radura e il gregge composto e disciplinato si allineò lungo le rive del fiume per abbeverarsi.

    Lo stesso fece il loro padrone che, inginocchiandosi, riempì la sacca di pelle e se la porse sulla bocca nascosta dal folto della barba bianca e incolta, sorseggiando con soddisfazione allietato dalla sensazione di frescura che l’acqua gli lasciava nella gola placando la sete.

    Sistematosi infine la borraccia alla cintura, si voltò verso un moro selvatico e con un lungo respiro espulse dal suo corpo i liquidi indesiderati.

    Riprese il viaggio, provato dalla fatica della lunga marcia; si sentiva però rigenerato, dopo aver bevuto avidamente, e le sue gambe malconce sembravano andare meglio.

    Il villaggio era ormai prossimo; si intravedevano le prime case con il loro intonaci bianchi come la neve e i tetti rossicci.

    Il fiume, in prossimità dell’abitato, si allargava rallentando il suo corso e formando delle pozze d’acqua profonda e calma.

    Da sopra un masso, bambini seminudi e schiamazzanti vi si tuffavano, spingendosi come forsennati, senza badare al pericolo che vi si poteva celare cadendo male o battendo la testa su altri massi circostanti.

    Luphu sorrise nel vedere tanta spensieratezza e felicità. Ripensò per un attimo alla sua fanciullezza, quando anche lui, insieme al suo fratellino minore e agli altri suoi coetanei, si lanciava con acrobatici tuffi nelle limpide acque del’Himella.

    Larku e Narku, istintivamente, lasciarono il branco e, scodinzolando con le orecchie alzate, si affacciarono sul parapetto del fiume, abbaiando ogni volta che uno di quei fanciulli, con un gran tonfo, capitombolava nell’acqua sollevando spruzzi da tutte le parti.

    La dolce Niche, sempre al fianco del suo padrone, si limitava a osservare la scena e a controllare i due suoi figli irrequieti.

    La sua calma venne disturbata solo quando, con ordini secchi tipici di chi è abituato a vivere con i cani, Larku e Narku vennero richiamati nel branco.

    Sbiascicando rumorosamente, dapprima diede un’occhiata fugace al vecchio pastore, poi, con aria disinteressata, si avvicinò agli altri due cani, riprendendo tutti insieme la marcia.

    Erano quasi arrivati; l’intreccio di rami che sovrastava la strada e le grandi querce che la costeggiavano. D’un tratto sparirono per fare posto a uno scenario idilliaco, completamente diverso.

    Campi lavorati, donne supine e contadini grondanti di sudore che battevano vacche soggiogate dal peso del vomere, creavano un’atmosfera georgica molto familiare al vecchio pastore.

    C’erano le umili case dall’intonaco bianco e crepato, più o meno allineate lungo la via principale ed altre sparse tutt’intorno alla Domu fortificata del Ner.

    C’erano recinti di pietra che nascondevano maialini e scrofe occupati a sgranocchiare mele selvatiche e ghiande di quercia, e c’erano anche le chiassose galline che sbecchettavano qua e là, sempre controllate da un gallo impettito e colorato di vedetta sopra un muretto.

    L’odore della carne arrostita, uscendo dalle piccole finestre di quelle umili dimore, invadeva i cortili e le irregolari e larghe vie.

    Luphu, il pastore, era felice, e mentre rifletteva, assorto, su quale dono doveva fare al solare dio Atys per ringraziarlo di averlo fatto ritornare a casa sano e salvo, avvertì una mano pesante appoggiarsi sul suo vecchio pugnale di bronzo che portava sempre al suo fianco:

    Salute, vecchio caprone spelacchiato!!!

    Salute a te, nobile guerriero... rispose il pastore riconoscendo il volto del suo padrone Vophion.

    Quanti lupi hai scannato quest’anno con questo giocattolo?

    Si guardarono per un attimo negli occhi. Poi, sorridendo, si abbandonarono a un caloroso abbraccio.

    Non ce n’è stato bisogno replicò ironico il vecchio pastore è bastato il mio odore a tenerli lontano…

    Non ne dubito, vecchio matto di un pastore! Hai tanto di quello sporco addosso e tanta di quella puzza che non basterebbero tutte le acque del biondo Himella per ripulirti!

    Risero di nuovo e, malgrado l’odore decisamente caprino di Luphu, i due si riabbracciarono di nuovo, dandosi delle pacche sulla schiena in segno di amicizia.

    Sei sempre tu, padrone mio scellerato. Non cambierai mai… Eheheh, con i tuoi modi così delicati potresti rapire il cuore della stessa Kure, scatenando l’invidia di tutti gli Dei celesti...

    Sì, amore mio… sogghignò il Ner ...e magari ti potresti innamorare anche tu… aggiunse malizioso, stiracchiandogli la barba lanosa e bianca.

    I due risero ancora. La loro era un’amicizia vera, antica e pura. La differenza di età e la diversa estrazione sociale non intaccava minimamente il loro affiatamento.

    Anche i cani, scodinzolando, fecero le feste a Ner Vophion che contraccambiò accarezzandoli a lungo e solleticandoli sul collo, cosa che gli animali apprezzarono di molto.

    Ma dimmi… ricominciò il pastore dagli occhi corvini cosa ci fai in giro da queste parti, fuori dal recinto della tua lussuosa reggia e vestito di metallo?

    Ancora continui a giocare alla guerra? Non sei un po’ troppo cresciuto per fare queste cose?

    Il nobile uomo d’arme dapprima ridacchiò un po’ per la frecciatina velenosa, poi, con un’ espressione grave ma finta, inarcando un sopracciglio rispose:

    Bisogna tenersi sempre allenati e pronti all’azione… guardò verso una radura dove un gruppo di Iovies stavano simulando, in modo molto scomposto, una Katera.

    Questi giovani di oggi sono molto indisciplinati, caro mio… e poi… concluse con aria più ironica chi ti proteggerà il culo mentre, zoppicando, fuggirai per i monti con la coda tra le gambe, braccato dai nemici venuti da occidente?

    L’effetto di quella battuta ironica aveva lasciato il povero Luphu alla mercè delle battutacce da osteria del Ner, che ora si apprestava sempre scherzosamente a bombardarlo di aggettivi volgari.

    I due se ne dicevano di tutti i colori, fino a quando un grido che fece abbaiare i cani per la sorpresa non mise fine a quella diatriba briosa e molto colorita.

    Si voltarono verso il Campo Marzio, dove i giovani opliti si stavano esercitando e notarono che uno di loro, ingiuriando contro tutti e tutto, si massaggiava la fronte.

    Doveva aver preso una bastonata in testa da un commilitone, mentre simulava un duello con delle lance prive di punta.

    Hai visto che roba? mugugnò Vophion Si potranno mai respingere le schiere disciplinate dei Tusci o difendersi dalle razzie dei Naharca con questi smidollati?

    Il vecchio pastore abbassò lo sguardo, grattandosi l’orecchio sporco e peloso; fece finta di niente, alzò le spalle e con aria sufficiente sussurrò: Che ci vuoi fare… sono giovani... non so se riuscirai a trasformare questi docili agnellini in guerrieri esperti e disciplinati, ma una cosa è sicura… ne avrai per un bel po’…

    Dopodiché, con un fischio, richiamò quelle pecore che nella sosta si erano allontanate un po’ troppo, seguito dai tre cani che, abbaiando, le ricacciarono nel branco.

    Ner Vophion, senza distaccare lo sguardo dallo sfortunato fante, si diresse verso di lui per assicurarsi che non vi fosse nulla di grave.

    Lo chiamò a se, lo fece inchinare un po’ per meglio controllare l’entità del trauma e lo rimproverò per non aver eseguito alla lettera un’azione di difesa tramite la lancia senza punta, errore che gli era costato caro.

    Mentre lo tastava nel punto in cui aveva preso la botta, constatando che non era nulla se non un timido e violaceo bernoccolo, dava istruzioni agli altri Iovies su come si doveva maneggiare correttamente l’arma.

    Tutti lo ascoltavano in silenzio stretti intorno a lui, memorizzando quelle parole che avrebbero potuto salvare loro la pelle in battaglia.

    Con i larghi scudi oplitici rinforzati da coloratissimi dischi di bronzo e appoggiandosi sulle loro lance da esercitazione senza punta, se ne stavano lì, immobili come statue, coperti di sudore e oramai stanchi dopo un’ intera giornata di esercitazioni.

    Bene! O giovani lance safine… per oggi abbiamo finito. Tornate nelle vostre case, rifocillatevi e fate un bel sonno, domattina al cantar del gallo vi voglio tutti qua, al Campo Marzio!

    E aggiunse:

    Prima del sopraggiungere della stagione fredda, dovrete imparare a manovrare quel lungo bastone appuntito che si chiama lancia, come si conviene ad un esperto Iovie… Allora sì che potremmo formare una invincibile Katera!!!

    Salutati i suoi giovani guerrieri, ritornò da Luphu il pastore, che, assorto nei suoi pensieri, se ne stava appoggiato al suo lungo bastone, aspettandolo.

    Non ti starai mica annoiando, per tutti gli Dei!… Su con il morale…!

    Quelle parole lo fecero sussultare e quell’aria impassibile che aveva prima, d’un tratto sparì.

    Certo che no! rispose il vecchio Sono solo stanco e non vedo l’ora di coricarmi sul mio giaciglio… tutto qua.

    Non sono più quello di una volta, nobile Vophion… e ogni anno che passa le mie membra si indeboliscono sempre di più… non ho né moglie né figli… Chi prenderà il mio posto quando non ci sarò più?

    E continuò: Sarai costretto a trovarti un altro pastore, padrone mio… sai benissimo che mio fratello è debole e malaticcio, non può fare questo lavoro, non sopravviverebbe un mese, da solo, sul monte Kuretos…

    Troveremo una soluzione al momento opportuno, vecchio mio... ma ora non ti affliggere per questo... e, rincuorandolo, proseguì: Porterai le bestie al pascolo per molte altre estati ancora, e al tuo ritorno avrai sempre modo di porgere doni sulla Favissa di Atys Solare!

    Al suono di queste parole, il cuore del vecchio pastore si ravvivò; Vophion era un Ner veramente speciale: sapeva metterti a proprio agio con battute piccanti come poteva toccarti il cuore con la sua grande umanità.

    Dietro a quelle piastre di bronzo circolari che gli pendevano dal petto, c’era veramente un grande uomo.

    I suoi genitori erano morti da tempo, e ora tutta la responsabilità del villaggio ricadeva su di lui.

    Tutto ciò, però, non aveva inasprito il suo carattere, ma anzi lo aveva maturato prematuramente tanto che poteva considerarsi il Ner più giovane di tutta la valle.

    È tardi, giovane Vophion… il sole sta tramontando, incamminiamoci verso le nostre abitazioni… battè il bastone sulla strada rozzamente lastricata e tutto il gregge all’unisono cominciò a muoversi.

    Hop!!! hoppa…sic!!! I cani abbaiarono, le pecore belarono e finalmente entrarono nel caseggiato rurale.

    Per un po’, i due marciarono spalla a spalla in silenzio, poi Luphu il pastore se ne venne fuori dicendo:

    Sei nel pieno delle tue forze. Perché non ti prendi una ragazza in sposa? Molti Neres di villaggi vicini sarebbero ben lieti di offrirti una delle loro figlie o sorelle…

    Stava parlando molto seriamente, e si sforzava di trovare le parole migliori per convincerlo.

    Le ragazze di questo e di altri Trifu limitrofe stravedevano per questo ragazzone abbronzato dagli enormi pettorali ma dal cuore dolce e dall’animo gentile.

    Quando passava tra di loro, lungo le strette e scoscese viuzze che dalla sua Domu portavano al Campo Marzio, bardato come Achille in procinto di sfidare Ettore sotto le mura di Troia e bruciato dai raggi del sole estivo, manine fugaci femminili scivolavano sotto il suo gonnellino di cuoio, accarezzandogli i robusti glutei o i deltoidi tesi che si contraevano e stendevano mentre camminava.

    Lui sorrideva taciturno, avvertiva la libido delle femmine che lo importunavano, ma procedeva innanzi senza fermarsi, facendole sognare e soffrire per non poter avere quel corpo di tale grazia e bellezza.

    La mia donna deve essere speciale, Luphu, e i suoi occhi devono fissare i miei, non le mie cosce... rispose Ner Vophion.

    E tu, piuttosto, dimmi… con quale pecora ti accoppierai stanotte? continuò ironicamente sdrammatizzando l’atmosfera.

    Se non fosse che il vecchio pastore e la sua mandria erano arrivati a destinazione, avrebbero ricominciato a stuzzicarsi come due bambini.

    Il fratello di Luphu aveva già aperto il cancelletto di legno dell’ovile, in modo che le pecore vi potessero entrare, e ora gli veniva incontro giocherellando con i cani.

    Gli diede il benvenuto e salutò educatamente il nobile guerriero che, dopo un’ultima manata sulla schiena del suo vecchio servo e amico, continuò per la sua strada.

    Finalmente a casa! Non fece in tempo a finire la prima vera cena calda, dopo mesi passati a formaggio e pane secco, che stramazzò sul suo morbido giaciglio, mezzo ubriaco e con la pancia piena, in un sonno talmente profondo che neanche se lo avessero preso a schiaffi si sarebbe svegliato...

    Finalmente era a casa!

    Capitolo 2

    Ner Vophion Ioviu Attidiu era un nobile, anzi… il nobile, visto che lui era l’unico Ner di Trifu Attides.

    Aveva 35 primavere alle spalle ed era figlio unico, né fratelli né sorelle, solo alcuni cugini che abitavano in un altro Trifu a non molta distanza dal suo villaggio.

    I suoi genitori morirono molto presto; il padre, Ner Phisiu Ioviu Attidiu, cadde in battaglia combattendo contro i Tuscer, acerrimi nemici della gens saphina. Il suo corpo non fu mai recuperato; rimase sul campo con la gola aperta e l’armatura coperta di sangue, divenendo cibo per corvi e vermi.

    Non si seppe mai più niente di lui.

    Si narra che, qualche giorno dopo aver saputo della scomparsa del suo amato consorte, la sua compagna, presa dalla disperazione, cercò di raggiungere il luogo dove si era tenuto il tragico fatto d’arme, fatale per il nobile Phisiu, con l’intento di ritrovare e riportare nel proprio villaggio il di lui corpo senza vita, per dargli una onorevole sepoltura nel Tumulos della sua famiglia.

    Non trovò mai il corpo martoriato del congiunto. Avvilita e presa dalla disperazione, sulla via del ritorno si suicidò, gettandosi in un dirupo.

    Ancora oggi, nell’alta Sabina, esiste un dirupo, che la tradizione popolare chiama Lu burrò della spusa il burrone della sposa, dove vuolsi accaduta tale sciagura de li tempi antichi come dicono i contadini della zona nel loro dialetto locale.

    Aveva dieci anni quando accadde tutto ciò, e, da allora, solo e senza esperienza, il Ner Vophion divenne il capo indiscusso e legittimo del Trifu di suo padre.

    Solo il suo magister gli era al fianco, che completò egregiamente la sua istruzione di vita, di politica e di guerra.

    I servi della domu, il castellare ligneo e turrito, la residenza ereditata involontariamente dalla sua famiglia scomparsa, situata al centro del villaggio, lo accudivano e lo proteggevano come fosse un loro figlio.

    Mangiava con loro, beveva il latte di capra del fedele Luphu e si istruiva diligentemente con il suo precettore, un veiro, cioè un uomo libero non appartenente all’autorità del Ner.

    Era un uomo molto vecchio dai capelli bianchissimi e lunghi, fin sopra le spalle.

    Pur non appartenendo al Trifu di Vophion, abitava là da moltissimi anni, dai tempi di suo nonno che lo aveva conosciuto nelle rumorose vie di Reat e lo aveva scelto come magister per la sua prole e per tutti i giovani del villaggio.

    Parlava l’incomprensibile lingua dei Tuscer e conosceva il dialetto degli Ombrikos, situati a nord.

    Sapeva anche scrivere utilizzando un alfabeto particolare, ideato molti anni prima da un sacerdote safino della valle e, avvalendosi dei sassolini di fiume chiamati calx, utilizzati come fossero cifre numeriche, sapeva fare conti molto difficili.

    Tutto questo lo aveva insegnato al giovane nobile orfano Vophion. Morì che il ragazzo aveva quindici anni; lui aveva superato gli ottanta – una rarità per l’epoca, considerando che la vita media era di circa quaranta-cinquant’anni.

    Il nobile Ner crebbe sano e forte; aveva molte doti, ma più delle altre spiccavano l’intelligenza e la bontà d’animo.

    I suoi occhi verdi emanavano una luce particolare; erano occhi furbi e calcolatori ma anche caldi e radiosi.

    Aveva i capelli castani chiari, quasi biondi, lunghi fin sulle spalle e mossi con ciuffi ribelli che gli cadevano sul viso regolare e pulito.

    La pelle era scura, abbronzata dalle lunghe permanenze all’aperto e dal clima secco presente negli altipiani appenninici.

    A quindici-sedici anni cominciò a sviluppare la sua muscolatura: spalle larghe, vita stretta e gambe forti caratterizzavano il suo portamento piazzato e marziale.

    Era un vero Adone, aveva cosce dure e nerborute ben proporzionate, braccia vigorose e bicipiti possenti, pettorali molto sporgenti e ben formati.

    Era il sogno proibito di tutte le ragazze del villaggio e oltre. Una volta, quando aveva una venticinquina d’anni, fece perdere la testa alla stessa moglie dell’Uhtur di Reat, il quale, avendo scoperto il fattaccio, lo fece imprigionare.

    L’infedele moglie venne esiliata; nulla più si seppe di lei, mentre lui, accertata la sua innocenza, venne perdonato e liberato.

    Fu addestrato nell’arte della guerra direttamente dal Gran maestro d’arme del Battaglione Sacro della città", e fin dal principio mostrò notevoli doti di guerriero indomito.

    Maneggiava il Kladiu, la tipica spada italica a margini rialzati, con destrezza e determinazione.

    Aveva la rapidità di un felino nell’assestare colpi tremendi e mortali, non dava scampo all’avversario: le sue stoccate erano imparabili.

    Con il suo saunion, il giavellotto alato di origine samnites, era preciso e letale e non da meno si comportava con la lancia, chiamata in lingua safina Teretes Aclydes, per un’appendice lungo l’asta di cui tutt’ora si ignora la reale funzionalità.

    Il suo fisico atletico lo avvantaggiava anche nel corpo a corpo e nei combattimenti stretti, dove si usava il matreu, un coltellaccio italico a lama ricurva simile alla sica di epoca romana.

    Era un vero Achille italico.

    Dopo aver salutato Luphu il pastore, si diresse con tutta fretta verso casa, dove lo attendevano un bel bagno caldo, una cena a base di agnello, miele e noci e un bel massaggio rilassante e tonificante che solo la sua serva prediletta Sephra sapeva fargli.

    Arrivò sul ponticello retrattile di legno, salutò la sentinella con un cenno della mano e finalmente entrò nella sua dimora.

    Due servi lo aiutarono a togliersi la spongia, l’armatura trilobata di bronzo tipica dei Neres safini, dopodiché gli sfilarono la Mitria, un protezione di cuoio per l’addome e infine gli schinieri.

    L’elmo crestato non lo aveva: per fare esercitazioni non serviva, lo portava con sé solo durante le battaglie. In verità non amava molto indossarlo, gli limitava la visuale e, anche se poteva salvargli la vita, cercava sempre di farne a meno.

    Entrò nella sala da bagno dove altre due ancelle lo attendevano per lavarlo e asciugarlo ai bordi di una

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