La vendetta paterna (Romanzo)
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La vendetta paterna (Romanzo) - Francesco Domenico Guerrazzi
INDICE
LA VENDETTA PATERNA
F. D. Guerrazzi
Opere
PREFAZIONE DI G. STIAVELLI
LA VENDETTA PATERNA
§ I. Orazio, come tutti i personaggi di romanzo, prima ricusa a raccontare, e poi racconta; però che diversamente non si stamperebbe la storia.
§ II. Le Terzettate.
§ III. La Maledizione.
§ IV. Don Marcantonio Massimi.
§ V. Don Luca Massimi.
§ VI. Don Mario Massimi.
§ VII. Don Severo Massimi.
LETTERE INEDITE.
A Ferdinando Bertelli
A Ersilia Bertelli, sposa
A Teresa Bertelli nata Guerrazzi
A Ersilia Bertelli
A Teresa Bertelli nata Guerrazzi
Ad Ersilia Bertelli
A Ferdinando Bertelli
A Emilia Bertelli
A Ersilia Bertelli
A Ferdinando Bertelli
A Ersilia Bertelli
A Teresa Bertelli nata Guerrazzi
A Ersilia Bertelli
A Ferdinando Bertelli
A Teresa Bertelli nata Guerrazzi
A Ersilia Bertelli
A Teresa Bertelli nata Guerrazzi
A Ferdinando Bertelli
A Ersilia Bertelli
A Ferdinando Bertelli
A Ersilia Bertelli
A Emilia Bertelli
A Ferdinando Bertelli
A Ersilia Bertelli[17]
A Ferdinando Bertelli
Al cav. Cesare Stiavelli
PREDICA PER IL VENERDÌ SANTO COMPOSTA NELLE CARCERI DEL FALCONE IN PORTOFERRAIO IL 19 MARZO 1848.
PREFAZIONE
PREDICA PEL VENERDÌ SANTO
NOTE
INDICE
LA VENDETTA PATERNA
LETTERE INEDITE
PREDICA DEL VENERDÌ SANTO
CON PREFAZIONE DI G. STIAVELLI
1888
Il presente ebook è composto di testi di pubblico dominio.
L’ebook in sé, però, in quanto oggetto digitale
specifico,
dotato di una propria impaginazione, formattazione, copertina
ed eventuali contenuti aggiuntivi peculiari
(come note e testi introduttivi),
è soggetto a copyright.
Edizione di riferimento : La vendetta paterna / Francesco Domenico Guerrazzi.
ROMA, Edoardo Perino, Tipografo Editore
Via del Lavatore 88, 1888
Immagine di copertina:
https://pixabay.com/it/illustrations/sfondo-scrapbooking-carta-texture-2008675
Elaborazione grafica: GDM, 2019.
F. D. Guerrazzi
Francesco Domenico Guerrazzi (Livorno, 12 agosto 1804 – Cecina, 23 settembre 1873) è stato un politico e scrittore italiano.
Fu un intellettuale organico della media borghesia produttiva e democratica del primo Ottocento di cui, muovendo dal particolare angolo visuale dell’ambiente livornese, interpretò le esigenze e le aspirazioni nel campo politico–economico come in quello culturale. Svolse l’attività di politico e scrittore nel movimento risorgimentale.
Solitamente i manuali di storia letteraria dedicano soltanto poche righe a Francesco Domenico Guerrazzi e riprendono solo i giudizi negativi, soprattutto sul suo atteggiamento umano. Considerando il periodo storico in cui egli si trovò a scrivere, e al pubblico a cui intendeva rivolgersi coi suoi romanzi, il Guerrazzi è invece una figura per molti versi esemplare per individuare gli umori e le ansie della classe sociale di quell’epoca storica.
Nel corso dell’Ottocento i romanzi guerrazziani infatti godettero di un vasto e non interrotto successo di pubblico che fece di lui uno degli scrittori più letti del periodo. Lo testimoniano chiaramente le numerose ristampe che furono fatte dei suoi due più famosi romanzi, La battaglia di Benevento e L’assedio di Firenze: del primo furono preparate, dal 1827, data della sua pubblicazione, fino al 1920 ben 58 edizioni, con una media di più di una ogni due anni; del secondo una cinquantina di edizioni fra il 1836 e il 1916.
Il successo clamoroso che fu travolgente nella prima metà del secolo quando i romanzi guerrazziani, e soprattutto L’assedio di Firenze, attraversarono tutta la penisola, letti da chi condivideva le ansie patriottiche dell’autore: i suoi libri venivano comprati anche ad altissimo prezzo e passati di mano in mano, data la difficoltà di riuscire a trovare qualche copia in circolazione che fosse sfuggita al controllo della polizia (bastava infatti essere scoperti con un libro del Guerrazzi in casa per essere arrestati e condannati al carcere).
Il De Sanctis scrisse che a Napoli «L’assedio di Firenze si vendeva a peso d’oro e felice chi poteva leggerlo!». Anche i giudizi della critica dell’epoca erano positivi e i suoi romanzi venivano esaltati per la passione negli ideali risorgimentali rappresentata al loro interno. Non mancavano però anche a quel tempo le critiche negative sulla narrativa guerrazziana, come la sua visione sulla società, giudicata troppo pessimistica.
Nella seconda metà dell’Ottocento però si attenuò lo straordinario successo di pubblico, in conseguenza del mutamento delle condizioni storico-sociali. Le opere del Guerrazzi persero quindi di interesse nei confronti degli uomini di cultura, anche per colpa dell’affermazione di nuove tendenze letterarie più realistiche e concrete. Infatti ormai si era arrivati nell’età del positivismo, nell’esaltazione della scienza, che ripudiava le astrattezze dell’idealismo del primo Ottocento, e che non poteva certo comprendere lo spirito romantico dello scrittore livornese. Lo stesso De Sanctis, dopo la pubblicazione di Beatrice Cenci, espresse sul Guerrazzi un giudizio rimasto famoso: « Ci sentiamo […] tentati a crederlo fuori di cervello e fuggito dall’ospedale de’ pazzi».
Uno dei pochi ammiratori di Guerrazzi fu Giosuè Carducci, che lo considerava uno dei più significati esponenti della letteratura Toscana; apprezzava molto il Buco nel Muro, dove coglieva i caratteri di un romanzo di costume, ma soprattutto era affascinato dalla personalità dello scrittore, dalla sua ostinata difesa della tradizione linguistica italiana, dalla sua formazione classicistica giovanile, dall’avversione al moderatismo, e dall’insistente necessità di un’azione politica decisa. Recensendo Il buco nel muro, Carducci scriveva che Guerrazzi « formò con l’ingegno potente molta vita intellettuale della generazione a cui egli appartiene », «ultimo superstite degli illustri toscani, che nella prima metà di questo secolo resero onore e diedero impronta propria e rilevantissima alla letteratura che oso ancora chiamare toscana». Carducci, dietro invito dello stesso Guerrazzi curò anche l’edizione dei primi due volumi dell’epistolario guerrazziano.
Gli altri intellettuali italiani della seconda metà dell’Ottocento non dimostrarono molto interesse per la produzione letteraria del Guerrazzi, troppo legata al risorgimento e difficile da recuperare in chiave positivistica, o dovuto forse alle direttive culturali della classe dominante in Italia dopo l’unificazione, con una impostazione moderata che non poteva che stroncare il successo dei romanzi del radicale Guerrazzi, che venne quindi messo da parte.
Il pubblico però continuava a leggere i romanzi del Guerrazzi, soprattutto le nuove opere che apparivano in quegli anni, quali il Pasquale Paoli del 1860, Il buco nel murodel 1862, L’assedio di Roma del 1863 e il Paolo Pelliccioni del 1864. Queste presentavano tematiche nuove ma fondamentalmente lo stesso spirito pessimistico e polemico verso la società contemporanea, che adesso stava vivendo un nuovo senso di malessere e sfiducia con l’avvento della Sinistra al potere col suo spirito anticlericale contro il Vaticano e le sue costanti ambizioni di dominio.
La fortuna guerrazziana continuò quindi per un altro decennio prima di esaurirsi quasi del tutto nei primi anni del nuovo secolo.
Opere
La battaglia di Benevento, Firenze, Le Monnier, 1827.
Isabella Orsini, duchessa di Bracciano, Firenze, Le Monnier, 1844.
Discorso al Principe e al Popolo, Livorno, tipografia La Calliope, 1847.
Apologia, Firenze, Le Monnier, 1851.
Il Marchese di Santa Prassede, ovvero la Vendetta paterna, Pisa, Pucci, 1853.
Beatrice Cenci, Tip. Vannucchi, Pisa, 1854.
La torre di Nonza, Milano, Sonzogno 1857.
Pasquale Sottocorno. Memoria, Torino, Tipografia Economica, 1857.
L’asino: sogno, Torino, 1858. (
Pasquale Paoli ossia la Rotta di Pontenuovo. Racconto Corso del Secolo XVIII, Milano e Torino, M. Guigoni, 1860.
Alla mia Patria, Milano, M. Guigoni, 1860.
L’assedio di Firenze, Milano, M. Guigoni, 1863.
Messere Arlotto Mainardi piovano di S. Cresci a Maciuoli (e altri scritti), Livorno, G. B. Rossi, 1863.
Lo assedio di Roma, Livorno, Tip. A. B. Zecchini, 1864.
Paolo Pelliccioni, Milano, M. Guigoni, 1864.
Il buco nel muro - Storia che precede il secolo che muore, Livorno, Tip. A. B. Zecchini, 1875; con commento, bibliografia, annotazioni a cura di Daniela Mangione, Bologna, Millennium, 2006
Il secolo che muore, Roma, Verdesi, 1885.
Isabella Orsini, duchessa di Bracciano, Firenze, Le Monnier, 1888.
PREFAZIONE DI G. STIAVELLI
FRANCESCO DOMENICO GUERRAZZI
Pochi, in verità, diedero sè stessi alla patria quanto Francesco Domenico Guerrazzi. Pochi ebbero la sua fede in un avvenire di libertà e di civiltà, la sua tenacia nei propositi, il suo carattere, il suo ingegno. Pochi lavorarono come lui alla effettuazione di un ideale.
E l’ideale di F. D. Guerrazzi fu una Italia democratica, veramente libera, senza padroni e senza servi, senza moderati e senza preti, una Italia conscia di sè, senza tutori e senza pupilli, una Italia infine che non avesse paure, che non commettesse vigliaccherie. A questo ideale bellissimo, che fu pure quello di Giuseppe Mazzini e di Giuseppe Garibaldi, consacrò egli la giovinezza, la virilità, la vecchiaia.
L’ideale di Mazzini, di Garibaldi, di Guerrazzi e tanti e tanti altri e pensatori, e soldati, e martiri, non si è per anche tradotto in fatto. Ma non disperiamo dei destini della patria. Ma lavorino i giovani, ma non si addormenti il popolo, e l’Italia vagheggiata da quei pensatori, da quei soldati, da quei martiri, sarà.
In alto i cuori, o gioventù d’Italia! Fede e ardire, o popolo italiano! e l’alba dei giorni promessi, dei giorni tanto aspettati, arriderà alla patria, veramente a libera vita risorta.
Ma questo non avverrà fino a che «l’odio per qualunque servitù e l’odio per qualunque tirannia» non avrà messo ben salde radici nei petti, come per tempo le mise in quello fortissimo di F. D. Guerrazzi.
Nato a Livorno il 12 agosto del 1805, da gente antica, dedita un tempo all’agricoltura e alla guerra, il Guerrazzi ebbe educazione «popolana e severa», come egli stesso ci dice nelle sue auree Memorie. Il padre, che era lettore fervidissimo della storia di Roma antica, gl’inculcò primo nell’anima l’amore alla libertà e l’odio verso ogni tirannide. Un giorno che il piccolo Francesco Domenico si mostrava meravigliato delle geste di Pompeo e di Catone, il padre gli disse: «Eppure uomini erano e mortali come te!…», facendogli in questo modo capire che egli pure, quando gli fosse bastato l’animo, li avrebbe potuto emulare. E certamente una grande impressione fece sul giovinetto questa sentenza che il padre gli andava spesso ripetendo: «Meglio vale vivere un giorno come un leone, che venti anni come una pecora»; sentenza che Tippoo-Saib volle incisa sui gradini del suo trono.
Per la libertà e per la patria, suoi santissimi amori, incominciò presto il Guerrazzi a fare, a soffrire.
Sedicenne, mentre studiava legge a Pisa, venne per un anno bandito dalla università, reo di aver letto e commentato ai compagni i giornali che recarono le novelle di Napoli tumultuante. Gli parve quell’atto, come era, un abuso di potere, e, adiratissimo, andò a Firenze per chiedere giustizia al presidente del così detto buon governo, Aurelio Pilotini. — Questi gli disse di non potere far nulla in suo favore. Egli allora gli rispose, spartanamente: «Io ti compiango, signore, se occupando un posto, dove, anche senza volere, fate del male, e al malfatto non potete riparare, neanche volendo, la vostra coscienza vi consente di rimanere.» — Sono parole che ci dicono quanta fierezza, nella quasi universale paura, albergava nell’anima del giovinetto Guerrazzi; parole che pochi, anche oggi, in tanto strombazzamento di libertà, avrebbero il coraggio di pronunziare dinanzi all’ultimo rappresentante del potere costituito.
Laureatosi poi in legge, e ritornato a Livorno, nel 1831 ebbe una condanna di sei mesi di confino a Montepulciano, apparentemente per avere espresso idee troppo ardite in un elogio di Cosimo Del Fante, vecchio soldato delle guerre napoleoniche, elogio che egli lesse nell’Accademia labronica, ma in realtà perchè caduto in sospetto di avere aiutata l’Umbria ad insorgere.
A Montepulciano fu a visitarlo Giuseppe Mazzini. Quelle due grandi anime s’intesero, e suggellarono in un bacio fraterno la loro fede all’Italia. Noi non sappiamo le parole che il Mazzini e il Guerrazzi si scambiarono; ma certamente dovettero essere parole di fuoco.
Dopo i sei mesi di confino, il Guerrazzi andò a Firenze, smaniosissimo di fare. Colà strinse amicizia con Pietro Colletta, con Gabriele Pepe, col Giordani, col Leopardi, col Capponi, col Ranieri, con quanti erano a Firenze e letterati e patriotti, ma non trovò in tutti lo ardimento che lo animava. I più credevano immaturi i tempi ed erano di avviso che si dovesse ancora aspettare. Egli no; e, d’accordo con pochi, fece. Cercò di rovesciare il governo granducale e di dare così alle cose di Toscana un più libero assetto. Ma, scoperto, fu rimandato a Livorno «con ordine di non uscire dalle porte e ritirarsi a casa alle ore ventiquattro», com’egli ci narra. Oggi si direbbe: fu ammonito. Ciò non per tanto, continuò in Livorno a darsi da fare; e fu largo di aiuti di ogni sorta coi perseguitati dal governo papale che, fuggiti di Romagna, erano di passaggio per la Toscana.
Stretto in dimestichezza con Giuseppe Mazzini, il profeta dell’Italia, del popolo, fondò con lui e con Carlo Bini, candidissima anima, lo Indicatore Livornese, un foglio che, con la scusa di propugnare il romanticismo, propugnava la rivoluzione.
Accusato poi di avere aiutata la impresa di Savoja, fu arrestato di notte tempo, messo in prigione «fra, omicidi, donne di mala fama e facinorosi di ogni maniera», e rinchiuso indi a poco nel forte Stella di Portoferrajo, tra i prigionieri di Stato. Colà dentro, nel 1834, in mezzo a patimenti di ogni fatta, scrisse l’Assedio di Firenze, il suo capolavoro, il libro che non morrà. Già il Guerrazzi aveva scritto una tragedia intitolata da Priamo, i Bianchi e i Neri, che furono rappresentati al Teatro Carlo Lodovico di Livorno, tra un uragano di fischi, e la Battaglia di Benevento. Ma dello scrittore diremo poi.
Nel 1847, ai primi fremiti di libertà che novellamente corsero l’Italia, lanciò fuori la rovente sua lettera al Mazzini, una lettera che quei fremiti aumentava, una lettera che era una scossa elettrica. In essa diceva al grande agitatore genovese: «Vieni, prima che la mia vita cessi, come rivo tra i sassi, nei giorni del sole. Io per aspettarti mi soffermo sopra il limitare della morte, che invoco. Impotente a stringere la spada come il Bardo normanno, mi ti porrò al fianco nel giorno della battaglia vicina; m’avanza qualche immagine di poeta nella testa, qualche affetto nel cuore da potere inalzare un ultimo canto — o la requie — o il trionfo dei valorosi.»
Corso a Firenze, dove Leopoldo II ondeggiava tra gli