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Il mondo di sirian: L'ombra dell'artiglio
Il mondo di sirian: L'ombra dell'artiglio
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E-book594 pagine9 ore

Il mondo di sirian: L'ombra dell'artiglio

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Info su questo ebook

Mondo di Sirian. Il regno di Chombrun è senza un sovrano, l’aristocrazia litiga per il potere mentre sotto i monti della Dardania gli orchi sono pronti a scaricare la loro furia devastatrice sul mondo degli uomini.

Araklamn, l’Artiglio Nero, il signore del regno di Reyvenghar, ha messo i suoi occhi sui territori del nord ed è pronto a conquistarli. Il fato decide l’incontro di un gruppo di giovani trasportati come zattere alla deriva dal grande mare del tempo, ma destinati a segnare inconsapevolmente le vicende di un’intera era: Slayn, un misterioso mago, viaggia alla ricerca di un potere in grado di restituirgli le redini del suo destino, per sfuggire alla pesante eredità che gli è stata imposta attraverso la runa della fiamma bianca; Kairon, cavaliere e secondogenito della casata del lupo grigio, abbandona i titoli nobiliari per ritrovare la sorella scomparsa e lasciare dietro di sé l’ingombrante ombra del defunto padre per diventare finalmente uomo; Draco, amico di Kairon, decide di seguirlo scegliendo la via delle armi e non quella tracciatagli dal genitore; Nightwolf, un elfo selvaggio dal triste passato, vaga per il Berenial come un reietto, accettando lavori come sicario, attendendo un’occasione o forse l’ultimo attimo in cui potrà finalmente espiare la sua colpa.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2013
ISBN9788867821358
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    Anteprima del libro

    Il mondo di sirian - NICOLA ZANNOL

    Nicola Zannol

    Il mondo di Sirian

    L’ombra dell’Artiglio

    EDITRICE GDS

    Nicola Zannol

    Il mondo di Sirian - L’ombra dell’artiglio

    ©EDITRICE GDS

    di Iolanda Massa

    Via G. Matteotti, 23

    20069 Vaprio d’Adda (MI)

    tel.  02  9094203

    e-mail: edizionigds@hotmail.it

    Collana ©AKTORIS

    Tutti i diritti riservati.

    A Giulia, che illumina ogni giorno della mia vita.

    PROLOGO

    La stagione del vento glaciale pareva ormai alle spalle, ma un gelido temporale avvolgeva quella notte tutto il regno di Chombrun. Una densa coltre di nubi copriva i raggi lunari, tanto che nessuna luce riusciva a lambire il suolo. Nella palude delle Querce Morenti, la bruma proveniente dal vicino lago Beren rendeva il paesaggio ancora più inquietante, facendolo apparire incolore e senza vita a qualsiasi occhio umano. Una nebbia grigia che sembrava giungere dall’oltretomba sovrastava l’erba alta nel bosco attorno a Greyamh, un piccolo villaggio situato a sud della capitale, e del suolo impregnato d’acqua a causa delle ultime incessanti precipitazioni non rimaneva altro che fanghiglia. La via principale che collegava il regno di Chombrun ai boschi del Berenial e ad Harcourt rimaneva da tempo inutilizzata. Poche erano le creature che si addentravano tra quegli alberi, mentre la strada veniva pian piano cancellata dai rovi e dalla selva in continua espansione.

    Un uomo, avvolto da un oscuro mantello, camminava sul sentiero abbassandosi di tanto in tanto il cappuccio fino al naso per ripararsi come meglio poteva dalla pioggia e dalla luce quasi accecante dei lampi che precedevano il rombo del tuono. Nel mezzo della furiosa tempesta l’uomo avanzava facendosi largo tra vecchi sentieri poco battuti e inghiottiti dal tempo, mentre gelide sferzate di vento e d’acqua risuonavano nell’aria come fruste ostinate contro le fronde degli alberi. Il viandante camminava al centro di un viottolo costeggiato da vecchi faggi e abeti bianchi, spostando di tanto in tanto con il proprio bastone alcuni rami nodosi che pendevano verso il basso simili a lunghe dita bramose di afferrare il suolo.

    Improvvisamente però l’avanzare del viandante fu interrotto.

    Muovendo il capo alla sua destra, l’uomo spostò la propria attenzione verso una lieve pendice erbosa dove si ergevano degli antichi faggi con delle imponenti radici scoperte. Delle ombre furtive si erano mosse in quella direzione, nate dalla momentanea comparsa di una folgore tra i nembi, e tale movimento non era sfuggito alla vista del giovane straniero. Forse era solo lo spostamento di un piccolo animale selvatico, oppure il semplice frutto della sua immaginazione, ma lo stregone si accorse ben presto che più di un’ombra stava convergendo verso il punto in cui si trovava. Due di loro erano rannicchiate ai fianchi del sentiero e attendevano che anche un terzo compagno si mettesse in un punto più arretrato della pista, ben nascosto dalla folta chioma degli alberi per ghermire di sorpresa la preda.

    Il mago abbozzò un sorriso divertito. Goblin che fanno un’imboscata, pensò sollevando il cappuccio e scostando con una mano i lunghi ciuffi di capelli corvini che gli ricadevano sulla fronte bagnata.

    I goblin erano piccoli bipedi alti poco più di un metro, con la faccia appiattita, naso largo e orecchie a punta; creature malefiche e al tempo stesso codarde che attaccavano in gruppo trovando sostentamento esclusivamente grazie alle loro razzie, esseri incapaci di produrre qualsiasi cosa che non fosse per natura malvagia.

    Il volto dell’uomo era disteso mentre si guardava intorno per capire quale tra quelle creature lo avrebbe attaccato per primo. In un istante la sua espressione cambiò mentre richiamava a sé i propri poteri, e i suoi occhi scuri, prima calmi e impassibili, si aprirono di colpo svelando una furia insospettabile.

    Un silenzio irreale ricopriva il boschetto e anche il temporale cominciò ad acquietarsi, mentre le nubi vorticavano sopra la regione del Berenial facendo filtrare per qualche secondo attraverso le foglie il mite chiarore di Lhandriel, la solitaria luna di Sirian. 

    I tre goblin si portarono allo scoperto. Indossavano una consunta corazza di cuoio, la loro pelle era di un colorito giallastro e avevano i piccoli occhi iniettati di sangue che brillavano nel buio. Senza indugiare oltre caricarono con delle spade corte in mano, urlando selvaggiamente e ringhiando la loro sfida.

    Con uno scatto fulmineo l’uomo distese il braccio davanti a sé pronunciando a voce alta alcune sillabe misteriose, e dalla propria mano scaturirono due frecce magiche che improvvise saettarono verso il petto dei bersagli. I due goblin non fecero nemmeno in tempo a compiere qualche passo che finirono a terra agonizzanti.

    Lamenti e imprecazioni si levavano dai due corpi, uno di loro era ancora vivo, ma la morte non avrebbe tardato molto a riscuotere il proprio credito. Il terzo goblin, invece, aveva interrotto la sua corsa verso l’uomo e guardava inerme i propri compagni, ma soprattutto e con orrore il loro carnefice. La situazione si era di colpo invertita, il piccolo razziatore preso dal panico buttò a terra l’arma e giratosi di scatto dalla parte opposta cominciò a correre con quanto più fiato avesse in corpo, risalendo il terreno scosceso. Doveva chiamare rinforzi, ma più d’ogni altra cosa desiderava mettersi in salvo.

    La tana non era poi così distante dal sentiero e per raggiungerla il goblin si vedeva costretto a inerpicarsi sopra un basso colle erboso, ma il terreno reso viscido dalla pioggia non aiutava la piccola creatura che ansimante per la fatica si sentiva accompagnata dalla morte a ogni  passo. Il cuore del goblin palpitava sempre più forte, il sudore gli colava dalla fronte sporgente e il terrore era pressoché scolpito nei suoi minuscoli occhi. L’essere ripugnante era giunto a metà del versante quando si fermò per guardare dietro di sé. Non c’era alcuna traccia del suo inseguitore. La turpe creatura fece per riprendere il proprio cammino sospirando sollevata, quando sopra una piccola sporgenza rocciosa che faceva capolino tra gli arbusti, vide l'uomo: le braccia conserte, il cappuccio chino sul mantello dietro la schiena, e un giovane viso con lo sguardo immobile sul cacciatore trasformato in preda.

    Il goblin emise un grido di sorpresa quanto di sgomento che fece sogghignare lo stregone. Il volto dell’umano si era trasformato nel naturale ritratto della crudeltà.

    Il mostriciattolo fece allora un disperato cambio di direzione preparandosi a correre anche all’infinito se fosse stato necessario, ma in quel preciso istante una mano troppo forte lo agguantò alla testa, alzandolo da terra e lasciandolo agitare inutilmente per qualche attimo prima di sussurrargli all’orecchio parole simili a una condanna.

    «Porgi i miei saluti agli spiriti dell’aldilà», affermò con voce sepolcrale il mago, prima di conficcare un pugnale fino all'elsa nel fianco del goblin, allentando contemporaneamente la presa con la mano che lo sollevava.       

    Il goblin cadde a terra con il viso tirato dal dolore e la bocca spalancata nel vano tentativo di pronunciare la sua ultima maledizione, poi fu il buio perenne attorno a lui. Lo stregone ripulì frettolosamente il pugnale e perquisì il cadavere rimediando quattro monete d’argento.

    Quel che basta per un buon letto caldo, pensò mettendo le monete in saccoccia.

    Erano passate tre primavere da quando conduceva quella vita, era giunto nel nord senza una meta precisa, aveva attraversato buona parte del continente settentrionale di Natria viaggiando attraverso Tarakan, la città dei mercanti, e Harcourt, la culla dei bardi, studiando tutto il sapere sull’unico oggetto capace di legarlo al proprio passato: un libro antico finemente rilegato in pelle che presentava simboli arcani sotto forma di incisioni ramate.

    Aveva imparato quasi tutto ciò che vi era scritto all’interno, ma nonostante questo la sete di conoscenza del giovane stregone non si era ancora assopita, anzi, dopo aver immagazzinato nella propria mente ogni pagina dell’antico volume, il ragazzo sentiva crescere giorno dopo giorno dentro di sé un primitivo desiderio di potere, come una fiamma che necessita di una tiepida brezza per continuare la propria esistenza. Tutto questo rimaneva per lui l’unico scopo che lo facesse rimanere in vita, ciò che gli permetteva di proseguire il proprio cammino e di respirare ancora l’aria di quelle terre.

    Lo stregone aprì il palmo della sua mano destra osservandolo con orrore. Ogni volta che esaminava quel marchio, aveva l’impressione che all’interno di quel simbolo si specchiasse il suo lato più oscuro, la parte di sé del tutto celata a occhio nudo, nonché un potere ancora ignoto che voleva forzatamente imparare a controllare.

    Un silenzio irreale ricopriva il bosco di Greyhamh e l’atmosfera era permeata da un forte profumo di muschio misto all’odore del sangue.

    Il tempo della caccia era finalmente giunto.

    1.

    LO STREGONE SENZA PASSATO

    I grossi nuvoloni neri si erano dissolti nel nulla e il sole splendeva alto nel cielo, riscaldando l’aria e gli animi dei cittadini di Greyhamh. La giornata si annunciava calda e distesa, tanto che le guardie all’entrata del villaggio potevano permettersi un tranquillo riposo, adagiate com’erano ai due pali che sostenevano il cartello con inciso il nome del villaggio. In quel vecchio tavolo di legno, che un tempo era servito da bancone a qualche osteria, viste le impronte ancora visibili dei boccali di vetro, c'era scritto: Benvenuti a Greyhamh, lasciatevi i dilemmi alle spalle. Questo faceva capire la natura tranquilla dell'abitato, noto in tutta la parte settentrionale di Natria per la sua ottima birra scura, chiamata anche Sangue di Drago.

    Era il principio di una nuova pacifica giornata. Il vecchio Tabiam, la vedetta, seduto sul tetto della prima casa, si apprestava a concedersi una lunga e riposante dormita. Provato dalla sbronza della sera precedente, Tabiam si sdraiò sulle pesanti assi di legno, ma poco prima di cadere nel sonno intravide in lontananza un uomo avvolto da un mantello nero avanzare con passo deciso verso il villaggio, percorrendo il sentiero che tagliava il bosco. Lo straniero si avvicinava rapidamente e a ogni passo rivelava sempre più chiaramente all’insonnolita vedetta il proprio aspetto: due occhi dallo sguardo penetrante rilucevano sul volto abbronzato; avanzava veloce appoggiandosi a un lungo bastone levigato, con sicurezza, quasi sfiorando il terreno con quei suoi stivali finemente conciati di cuoio chiaro. Camminando, il giovane scostò il mantello con un gesto delicato lasciando intravedere la corazza di maglia di ottima fattura, sopra la quale indossava una sopravveste di colore blu orlata di nero; il manto era fissato alla veste attraverso due spilloni d’argento a forma di foglia all’altezza delle spalle. La leggera corazza di maglia era ben visibile fino ai gomiti, sotto a questa l'uomo indossava una camicia blu scuro, mentre dei bracciali in cuoio proteggevano gli avambracci arrivando fino ai polsi.

    L’uomo dimostrava una ventina d’anni, forse meno, lunghe ciocche di capelli neri gli ricadevano oltre la schiena mentre alcuni ciuffi ribelli tamburellavano sulla sua fronte ad ogni passo. Le sue labbra, serrate in un’espressione solenne, non facevano trapelare alcuna emozione.

    Il vecchio fischiò alle guardie addormentate che si destarono appena in tempo per sentire fissi su di loro due occhi scuri come la tenebra. I due guardiani erano uomini di mezza età, entrambi muniti di lance, non portavano però alcun tipo di protezione, ma vestivano con delle spesse camicie in tinta terra e delle comuni brache.

    «E’ permessa l’entrata a un viaggiatore in cerca di riposo?», chiese il giovane con discrezione, accennando un sorriso di saluto alle due sentinelle prese alla sprovvista. Il suono della sua voce, pacato e discreto, tranquillizzò le guardie che risposero al sorriso cordiale, anche se rimasero ancora piuttosto sospettose.

    «La strada è libera straniero, ma se cerchi guai, questo non è il posto adatto», rispose uno dei due guardiani.

    «Non vi preoccupate, sono in viaggio verso est e vorrei approfittarne per assaggiare la vostra birra scura». 

    «Non pensiamo che la tempesta ti porti fino a questo villaggio solo per ubriacarti in qualche osteria, quali affari ti hanno trascinato fino a Greyhamh?» domandò la seconda guardia, avvicinandosi allo straniero per osservarlo meglio da vicino.

    «Non ho merci con me, non sono un mercante, sono solo un semplice viandante di passaggio. Ho intenzione di fermarmi qualche giorno prima di riprendere il cammino verso la Lohrmannia», rispose il giovane sostenendo le occhiatacce del guardiano senza battere ciglio e allargando le braccia per fare intendere che non aveva altro da aggiungere.

    Il suo fare schietto e gentile sembrò convincere le guardie, che lo lasciarono passare mormorando svogliate delle frasi di benvenuto.

    Gli avventurieri erano di solito personaggi stravaganti in cerca di guai, e non erano ben accolti nel villaggio. I cittadini di Greyhamh erano per lo più brava gente che si guadagnava da vivere coltivando la terra che possedeva o portando avanti piccole botteghe artigiane. Erano lontani i tempi in cui quella contrada era stata centro di fiorenti commerci, resa ricca dal suo legno pregiato ricercato in tutto il paese. Solo una ventina d’anni prima, Greyhamh era stato uno dei più popolosi villaggi del nord, teatro dell’incontro di genti più disparate, non solo Natriani, ma anche Zilianim, i figli delle terre dei laghi, e persino qualche commerciante proveniente dal deserto di Buch, nell’estremo sud.

    Guardandosi attorno, lo straniero non poté fare a meno di notare lo stato di abbandono in cui era caduta la cittadina. Circondato dal fitto bosco e protetto da una rozza palizzata, il villaggio contava qualche centinaio di casupole, la maggior parte delle quali molto simili a baracche dai tetti instabili coperti di paglia, resi ancora più precari dalla tempesta che si era appena abbattuta sulla contrada. Greyhamh era composta da non più cinquecento abitanti, abituati a conoscersi l’un l’altro come accade spesso nei piccoli paesi isolati dal mondo, e ogni sconosciuto che attraversava la via principale del borgo veniva osservato con sospetto, costantemente seguito da occhi dubbiosi, spesso ingenui ma allo stesso tempo colmi di pregiudizi.

    Il forestiero si fece strada tra quelli sguardi incuriositi attraverso la via maestra che tagliava in due il villaggio, arrivando infine alla locanda del grosso cinghiale, un luogo cordiale per i viaggiatori che sostavano a Greyhamh per far tappa successivamente a Chombrun, la capitale del regno, anche se non erano poi molti gli avventurieri che si fermavano nel paese ultimamente. Un piacevole aroma di maiale arrosto si spandeva nelle vicinanze, e lo straniero affamato sorrise al pensiero di un pasto ristoratore dopo una notte in preda alle intemperie.

    Giunto sulla soglia dell’ostello il viaggiatore appoggiò il proprio bastone a terra, producendo un rumore secco che attirò l'attenzione dei presenti verso l’entrata. Il giovane osservò il luminoso edificio. Era rischiarato dalla luce mattutina che penetrava da due ampie finestre sul lato est della taverna e da numerose fiaccole appese alle travi che sorreggevano il secondo piano, da cui si giungeva attraverso delle scale poste nell’angolo nord ovest della locanda. Gli avventori, per lo più vecchi alcolizzati e giovani perdigiorno, fissarono con curiosità mista a fastidio il nuovo arrivato. L’improvviso arrivo dello straniero affievolì il chiacchierio all’interno della sala, che però riprese qualche istante più tardi e con più fervore di prima, accompagnato da risa e qualche aspro rumore prodotto dalle caraffe che sbattevano con forza sui tavoli di cedro.

    Il viandante salutò tutti con un semplice cenno del capo, ma notando che questo non bastava a far sparire quelle occhiate poco amichevoli, prese a camminare in direzione del bancone in prossimità dell’entrata sul lato ovest del salone, dove una cameriera stava scherzando con un avventore. La donna aveva una trentina d’anni e i capelli biondi raccolti all’indietro in una lunga treccia, ma anche se era forse un po' grassottella, il suo sorriso era una delle cause per le quali i giovani accorrevano spesso e volentieri alla locanda.

    «Ditemi signore, cosa desiderate?», chiese cortesemente una volta accortasi della presenza di quel cliente a lei ignoto.

    «Quello stinco di maiale arrosto sul focolare mi attira, specie dopo giorni di cammino, signora, e gradirei assaggiare anche un boccale della vostra celebre birra, accompagnata da del pane», rispose il nuovo arrivato alla cameriera, la quale si mise subito all’opera.

    Mentre aspettava, lo straniero ebbe la possibilità di guardarsi meglio attorno. Tutti i clienti, che sembravano persone del luogo, avevano repentinamente smesso di fissarlo trovando qualcosa di meglio da fare, il che consisteva nell’osservare un altro forestiero appena giunto all’entrata.  L’uomo era un giovane con i capelli scuri leggermente mossi e tagliati corti; una barba e dei baffi ben curati conferivano al suo viso un' espressione altera. Entrò tacitamente nella locanda, salutando con un cenno della mano la cameriera senza degnare gli avventori di alcuna attenzione; era vestito con un’armatura a piastre che ricopriva interamente anche braccia e gambe, sopra la corazza portava una sopravveste grigio chiaro, impreziosita all’altezza del petto con il simbolo dorato del sole, il che faceva presumere che l’uomo fosse un discepolo di Nyriuth. Un mantello bianco ricamato d’oro era annodato intorno alle spalle e su di esso erano fissati due spallacci a tre piastre, anch’essi raffiguranti simboli sacri al dio del sole. L’uomo attraversò il salone e andò a sedersi al tavolo più lontano dal banco, posto nell’angolo a nord est, nel punto più silenzioso di tutto il locale. In sordina il chierico estrasse da una borsa posta sulla cintura delle pergamene, le srotolò con cura e cominciò a scrutarle, senza badare troppo al vociare che lo circondava.

    Nel frattempo erano arrivati cibo e bevande, e anche a causa di qualche sorso di troppo, alcune discussioni cominciavano a prendere il via tra i clienti. Gli avventori, senza badare troppo agli sconosciuti, urlavano e imprecavano per far valere le loro opinioni, mentre altri si premuravano di narrare gli ultimi pettegolezzi giunti recentemente nel paese.

    Sulle prime l’ospite al banco aveva mangiato e bevuto senza fare troppo caso a quei tipici dibattiti da osteria, finché qualcosa non attirò la sua attenzione, rendendolo accorto.

    «Avete sentito cosa sta succedendo», sussurrò uno dei clienti, «sembra proprio che nella capitale non vogliano sistemare questa situazione, anzi, io dico che non gliene frega niente a quei maledetti!», disse infine sbattendo il pugno sul tavolo per dar maggior peso alle sue affermazioni.

    «Quegli spocchiosi damerini! Non capiscono che così perderemo tutte le merci provenienti dal sud di Natria, anche se visti i tempi che corrono penso che le abbiamo già perse», mugugnò un altro mentre si grattava distrattamente l’ispida barba.

    «É normale che a  Lohrmann vogliano persino l'indipendenza», affermò il più giovane tra loro, «il regno è minacciato dagli orchi e i sentieri del Berenial non sono più sicuri come una volta».

    Lo straniero si alzò dallo sgabello dopo aver finito di pranzare e si avvicinò interessato ai tre uomini, entrambi seduti a un piccolo tavolo vicino all’entrata. «Ho sentito che ci sono problemi con le vie che collegano il regno a sud e a est - cominciò senza neppure presentarsi - vorrei saperne di più», disse occupando l’unico seggiolino rimasto libero a quel tavolo.

    «A sud, nel bosco ci sono i goblin nascosti in qualche dannata collina», sostenne il più irsuto e corpulento del trio, «dicono che con loro ci sia un elfo selvaggio capace di usare qualche diavoleria, una specie di stregone. Elfi, maghi, che l’abisso se li inghiotta tutti! L’ho sentito dire dagli ultimi forestieri che sono passati di qui, sono partiti un mese fa da Harcourt in quindici ma cinque di loro sono caduti in un’imboscata lungo la via», assicurò, chiedendo conferma anche ai suoi due compagni.

    «Negli ultimi tempi si sente parlare di attacchi degli orchi nella valle dello scudo spezzato, e sappiamo tutti che nei monti ghiacciati ce ne sono talmente tanti da mettere in ginocchio anche tutta Chombrun!», borbottò, «quanto alle vie verso il principato, non scordiamoci della palude delle Querce Morenti, nemmeno un matto potrebbe provare a sfiorare quella terra maledetta correndo il rischio di svegliare ciò che dorme al suo interno».

    Al solo nominare quel luogo, molti clienti si strinsero nelle loro seggiole, come se un’ombra cupa fosse uscita inaspettatamente dal fondo della palude e fosse calata all'improvviso nella sala, gettando lo sconforto nell’animo di tutti i presenti.

    «Una decina d’anni fa», s’intromise il più giovane del gruppo allentando la tensione, «quando il regno aveva un re e un esercito, ci fu una spedizione contro gli orchi che avevano invaso il Berenial arrivando a poche miglia di distanza dal paese. Quelle bestie furono ricacciate indietro, ma poi andò tutto in malora».

    «Capisco», assentì il forestiero fissandoli, mentre un bagliore accendeva i suoi occhi neri, una luce che intravidero anche i tre abitanti del villaggio.

    «Di un po’», domandò uno di loro, «ma per quale motivo t’interessa tanto la nostra situazione? Non sei di qui e non credo tu provenga nemmeno da Tarakan, non mi sembri un mercante», sussurrò rivolgendosi allo sconosciuto.

    «Non nutro grande interesse per le vostre chiacchiere, ma sono incuriosito dai goblin, e in particolar modo dal mago. Non m’interessano i commerci e nemmeno le vostre puerili paure, tuttavia posso liberarvi di loro - disse alzando la voce per farsi sentire da tutti - a un prezzo ragionevole. Una moneta d’argento per ogni goblin ucciso. Mi sembra una tariffa onesta, sono convinto che attraverso una colletta possiate raggiungere una buona somma, sempre che non vogliate continuare a investire il vostro denaro assieme al vostro tempo ubriacandovi in questo luogo. Ma d’altronde vi capisco, bevendo potete affogare la vostra incapacità nel non riuscire  nemmeno liberarvi di una banda di goblin», aggiunse infine pieno di sdegno.

    Le parole del forestiero fluirono fuori dalle sue labbra quasi senza che se ne accorgesse. Non provava livore verso quella gente semplice, ma sapere che non erano in grado di affrontare poche meschine creature aveva su di lui l’effetto di scatenare un’ira contenuta a stento. In quelle persone vedeva in quell’istante solo un’accozzaglia di uomini in balia degli eventi, del tutto incapaci di afferrare per mano le redini della loro esistenza.

    «Chi credi di essere per fare il gradasso?», scattò in avanti il giovane con la faccia rossa dall’ira, cercando nel frattempo di tirare fuori un coltello dal cinturone. Non fece nemmeno in tempo a poggiare la mano sull’impugnatura che si trovò un bastone puntato alla gola. Lo straniero teneva saldamente e con una sola mano il bastone dritto davanti a sé sopra il tavolo, e le placche di metallo che rinforzavano le due estremità dell'arma rilucevano nel chiarore delle fiaccole.

    «Ehi, cosa vuoi fare?», chiese con voce rotta il più anziano dei tre compari alzandosi dalla sedia mentre qualche traccia di nervosismo cominciava ad affiorargli sul viso.

    «Non siete nella posizione per fare domande», sibilò il forestiero premendo più a fondo sulla gola del malcapitato «ne ho posta prima una io. Ve lo chiederò per l’ultima volta, siete interessati alla mia proposta?».

    «C-certamene», balbettò il ragazzo in tono conciliante, continuando a guardare il bastone che aveva puntato sotto il mento, «metti via questa cosa, qui sei tra amici, non c’è bisogno di arrivare a tanto».

    Lo sconosciuto allora sorrise, ritirando la propria arma e poggiandola al suolo, provocando un soffocato sospiro di sollievo negli avventori. La cameriera osservava protetta dal bancone la scena. Atterrita, aveva meditato di chiamare aiuto, ma gli occhi da rapace neri e penetranti del forestiero l’avevano spaventata a tal punto da impedirle qualunque movimento; la donna si chiedeva come fosse possibile che quella violenza provenisse dalla stessa persona che qualche secondo prima le si era rivolta con gentilezza.

    L’uomo con la barba, posto di fianco allo straniero, aveva aspettato che l’impudente gettasse a terra l’asta per levare di nascosto e sotto il tavolo la propria spada. In pochi istanti riuscì a estrarre la lama dal fodero e con il braccio destro eseguì un discreto affondo dirigendolo verso il petto dell’uomo, il quale non fece nulla per scansare il colpo, ma una volta che l’arma si trovò a poche spanne da lui, alzò di scatto il braccio destro raggiungendo con due estremità delle dita la spada.

    La lama, al contatto con la mano dello sconosciuto, sfrigolò emettendo un suono stridulo, e una scarica elettrica attraversò l’acciaio dell’arma giungendo così all’impugnatura dell’uomo. Il barbuto fu colto da un profondo dolore al quale non seppe resistere, lasciò cadere la spada e cominciò a rotolare a terra sgolandosi e urtando gli sgabelli che gli ricadevano penosamente addosso.

    «La mia mano, cosa hai fatto alla mia povera mano?», piagnucolò stringendosi con il braccio sano il polso dell’arto scosso da tremiti.

    «Niente di grave, se sarai fortunato tra qualche giorno non sentirai più nulla», rispose il mago non senza soddisfazione.

    «Tu sei uno stregone», sussurrò il giovane spaventato, «perché non l’hai detto prima? Non avremmo mai osato offenderti o minacciarti», disse infine per paura di essere punito.

    «Non me l’avete chiesto», dichiarò semplicemente il mago, «inoltre, temo di non dovervi alcuna spiegazione. Ma ora che lo sapete, potreste anche rivolgervi a me come si conviene, sempre che non abbiate scordato le buone maniere», assentì infine, squadrando il trio con espressione derisoria.

    «Scusatelo, mio signore, è ancora un ragazzo», lo interruppe un altro avventore di mezza età che aveva ascoltato con interesse la disputa, «comunque la vostra proposta potrebbe realmente toglierci dai guai liberando la strada a sud ovest e permettendoci di riallacciare gli scambi con i paesi del Berenial. Parlerò personalmente con Osborn, il borgomastro, e se riuscirete a eliminare tutti i goblin che bloccano il passaggio a sud, sarete pagato con trenta pezzi d’argento, è il massimo che la gente di questo villaggio può offrire, ve lo garantisco».

    «Sì, mi sembra ragionevole», ammiccò lo stregone, dopo di che posò tre monete d’argento sul banco complimentandosi con la cameriera per l’ottimo servizio e si diresse silenziosamente verso l’uscita. 

    «Signore, possiamo almeno sapere qual è il suo nome?», domandò l’uomo dalla mano ancora dolente, «vorrei almeno conoscere meglio la persona che eliminerà quei dannati mostri», aggiunse alla fine per non sembrare troppo invadente.

    «Mi chiamo Slayn Alphard», dichiarò senza voltarsi, «ma se entro quattro giorni non sarò di ritorno puoi benissimo scordare il mio nome».

    Detto questo lo stregone sparì dalla locanda, lasciando alle sue spalle insulti proferiti a bassa voce, forti perplessità sulla riuscita della sua impresa e molto malumore. L’unico uomo che non aveva alcun dubbio sull’esito della missione era seduto al tavolino più lontano dalla luce, una persona che lo stregone non conosceva e che durante tutta la discussione se n’era rimasta in disparte con una smorfia di approvazione dipinta sul volto. 

    2.

    IL LUPO GRIGIO

    Chombrun, la capitale del regno da cui prendeva il nome, era da anni caduta in disgrazia. Sembrava passata un'era da quando re Gustanh cavalcava assieme ai suoi cavalieri nella strada principale della città, sollevando polvere al grido dei popolani che salutavano festosi il ritorno del sovrano dalla sua ultima vittoriosa battaglia.

    La cittadella era stata fondata dal leggendario eroe elfico Hyriziel negli ultimi secoli dell’era della spada, ma secondo alcuni storici pare che un primitivo insediamento ai piedi dei monti Rhea Saliger esistesse già ai tempi dell’impero di Natrium, più di quattro millenni or sono. La capitale, costruita a ridosso di un crinale montano, si ergeva su due cinte di mura entrambe alte poco più di una trentina di piedi; il bastione esterno aveva un largo parapetto merlato ed era fortificato ulteriormente per mezzo di torri poste a intervalli regolari. La barriera ricopriva il perimetro della città difendendola a sud e a est, mentre a nord e a ovest la cinta muraria era composta da un fianco delle montagne, che costituivano una barriera naturale invalicabile per ogni nemico; la seconda cinta di mura era invece posta attorno al colle Dareln, erigendosi a difesa del palazzo reale.

    La città era divisa in due contrade, la più piccola e ricca era quella dei nobili, che spaziava dai giardini reali fino alla grande piazza del mercato, un ampio spazio circolare con un diametro di una sessantina di iarde attorno alla quale sorgevano le abitazioni dei mercanti e degli artigiani. Le abitazioni di questo quartiere erano sfarzose, dei veri e propri palazzi costruiti in pietra ricavata dai monti circostanti, e attorno agli edifici erano sempre presenti gendarmi alle dipendenze delle casate nobiliari. Il secondo quartiere, occupante invece tutta la zona centro-sud della cittadella, era quello destinato alla plebe, riconoscibile dalle piccole casupole di legno che sorgevano ai lati degli stretti vicoli di Chombrun. A nord del piazzale mercantile c’era il colle Dareln, sopra il quale si ergeva il castello, l’intero complesso dei giardini e la tenuta reale, comprendente anche i due templi dedicati ai patroni della città. Sul lato destro della via lastricata, che partiva dal cancello sud e giungeva fino al palazzo reale, sorgeva il tempio di Nyriuth, mentre sul lato opposto ed equidistante dalla strada maestra era stato costruito il tempio di Amir. Il castello era composto da un maschio centrale di forma quadrata - sopra il quale svettava una torre di vedetta conica - e si estendeva successivamente in larghezza su due lunghe ali merlate fino a raggiungere i due massicci torrioni laterali, da cui partiva il muro di cinta collegato alle torri di guardia.

    Due larghe strade s’intersecavano all’interno dell’abitato formando una croce e unendo i grandi portali che prendevano direttamente il nome dagli stemmi delle quattro famiglie protettrici della capitale. La via più lunga, la strada maestra, collegava il portale dell’orso - il cancello sud - posto sulle mura meridionali con la piazza del mercato, arrivando fino alla porta del lupo grigio, unica entrata esistente capace di giungere ai giardini regi proseguendo sino al ponte levatoio della dimora reale. La seconda via s’intersecava perpendicolarmente alla prima in prossimità della piazza mercantile, e collegava la porta del serpente - a oriente - al cancello della stella nera scavato all’interno del dorsale montano a occidente.

    La fortezza reale, chiamata anche palazzo Iceblade, era stata fino a due decenni prima il fulcro della vita serale della città, dove in certe occasioni tutto il popolo era invitato a partecipare alle feste e ai ricevimenti negli splendidi parchi. Luci e colori si mescolavano alla purezza delle fontane scolpite dagli elfi e il buon vino non mancava mai di accompagnare le storie narrate dai bardi provenienti da remote regioni. Chombrun era allora ricca di vita, città piena di gioia e speranza per gli avventurosi, luogo di pace e serenità per i propri abitanti.

    Talvolta però, il fato è crudele, e tutto il regno in poco più di un decennio divenne l’ombra di ciò che era un tempo. Tutto cominciò con l’attacco degli orchi al Berenial, che rappresentavano l’unica piaga rimasta a deturpare quel reame idilliaco. La spedizione fu affidata alla compagnia di cavalieri più forti e devoti di tutta la regione settentrionale, la celebre confraternita dei lupi grigi, nella quale militavano molti paladini di Amir il dio della giustizia e dell’onore, e di Nyriuth il dio del sole, entrambi principali patroni del regno. Uno degli ufficiali di più alto grado era il figlio del re, il giovane Etherald Iceblade, unico erede al trono del regno di Chombrun e valoroso guerriero. L’impresa militare fu preparata nei minimi dettagli dal capo della confraternita, Ioldem Ishtan Navar, il più valente cavaliere del regno, e nessuno avrebbe mai sospettato quale atroce tragedia si sarebbe compiuta quel primo mese della Rinascita.

    Gli orchi furono ricacciati sulle montagne della Dardania, ma l'unico cavaliere della confraternita a tornare dalla spedizione fu Glard Eltanin, che senza un braccio e pieno di ferite dovette raccontare la disfatta e la morte di tutti gli uomini del re, tra i quali il suo unico erede.

    La regina Ysildia morì di crepacuore pochi giorni dopo la notizia, mentre re Gustanh cominciò a invecchiare sotto il peso della sofferenza, finendo per non uscire più dalla sua dimora sino alla malattia e alla successiva morte che accolse come una liberazione. Non c’era più un sovrano e i nobili bisticciavano fra loro per il potere. Il reame nel frattempo era in perpetua decadenza, nessuna via era più sicura come in passato, e a Lohrmann l’ambizioso duca Torik Redthrone progettava l'indipendenza del principato.

    Ora le due grandi torri poste ai lati dell’edificio reale sembravano piegate, affrante, come schiacciate dal peso di un cielo ostile. Ai piedi delle possenti mura di pietra vi erano pozze d’acqua stagnante, alimentate dal continuo maltempo e dalle lacrime amare degli abitanti in preda allo sconforto. Il castello era divenuto un luogo freddo e funebre, i giardini di palazzo Iceblade si erano trasformati in dei cimiteri custoditi da spettri di cui nessuno conosceva i nomi. La pioggia che cadeva su Chombrun era sempre malinconica, quasi muta. La città stava morendo lentamente.

    Un uomo camminava eretto attraverso l’acquitrino esterno alla tenuta reale. Aveva lunghi capelli cinerei mossi dal vento e i suoi occhi blu, quasi glaciali facevano trasparire un animo colmo di ardore. Era un giovane di media statura, portava su una tunica marrone e dei calzoni grigio scuro una cotta di maglia fino alle ginocchia e un’armatura argentata. Sugli schinieri, spallacci e bracciali erano applicati dei simboli e degli elementi decorativi come le lame auree incrociate, simbolo del dio della giustizia, mentre sul pettorale era impresso un emblema conosciuto e rispettato in tutta la capitale, quello del lupo grigio.

    Il suo nome era Kairon, figlio del comandante della confraternita, la stessa compagnia caduta sul campo di battaglia quel tragico giorno in cui le sorti del reame cambiarono inesorabilmente. Kairon aveva da poco compiuto la maggiore età ma segni di preoccupazione gli tracciavano la fronte dandogli un aspetto più vissuto di quanto in realtà non fosse. Allevato secondo i principi di Amir, il giovane intraprese la stessa strada del defunto padre da cui aveva ereditato oltre allo scudo una sacra spada che portava con fierezza sempre con sé. Avvolto da un mantello rosso acceso, si faceva largo tra i mendicanti, guardandoli con pietà, ma rabbioso nell’animo verso i nobili che lasciavano morire i propri concittadini come cani ai bordi delle strade. Assieme a lui c'era il suo migliore amico, Rastaban, un possente lupo grigio con il quale era cresciuto sin dall'infanzia e di cui si fidava ciecamente.

    Giunto in prossimità del cimitero, il cavaliere si girò verso il palazzo dove si era appena congedato dal consiglio reale di Chombrun, «Siete più morti voi di coloro che sono passati a un'altra vita», disse con rabbia, attraversando l’arco in pietra che faceva da entrata al camposanto. A poche iarde dall’ingresso si fermò davanti a una recente tomba, che presentava nella parte superiore due piccoli steli di bronzo adornati da rose scolpite nel metallo. Quella era l’ultima dimora di sua madre defunta da pochi giorni e Kairon abbassò il capo rispettosamente verso la lastra di roccia che ricopriva il tumulo.

    «Che Amir si prenda cura di te nobile madre», disse il giovane mentre una lacrima scendeva dal suo viso mischiandosi alla pioggia incessante. Anche Rastaban salutò con un ululato la sua padrona, prima che il cavaliere pronunciasse lo stesso giuramento fatto alla donna sul letto di morte: «Riporterò Aphrelia a casa, te lo prometto. Non smetterò di cercarla finché il mio cuore cesserà di battere».

    Kairon se ne andò con determinazione dal cimitero seguito come sempre dal suo fedele amico, e mentre ripensava alla promessa materna stringeva con vigore l’elsa della spada per darsi coraggio nel lungo cammino che lo attendeva. Non sapeva da dove avrebbe cominciato le ricerche, ma era disposto a setacciare ogni angolo di Natria per mantenere fede al giuramento.

    Oltrepassò senza alcun indugio tutta la parte alta della città, quella dove risiedevano le famiglie più benestanti, sino ad arrivare nella sua abitazione. La casa della famiglia Navar era un imponente edificio posto al confine tra la zona ricca della cittadella e la piazza del mercato, che era il fulcro delle attività commerciali di Chombrun durante il periodo in cui la città prosperava. La costruzione, contornata da un esteso cortile in porfido, era completamente in pietra, presentandosi maestosa ai visitatori, sui tre piani sorretti da pilastri posti a intermezzi regolari nella parete. Kairon entrò dal lato sud, attraversando il patio e dirigendosi verso i portici. Una scala esterna collegava il piano più basso alla terrazza situata al primo piano, all’interno della quale erano collocati gli alloggi di famiglia. Un tempo quel balcone profumava delle rose che Silem, la madre del paladino, curava amorevolmente, ora invece il luogo appariva gelido come l’anima della capitale.

    Kairon entrò nell’edificio, facendo cigolare il portone e rompendo il silenzio che regnava all’interno dell’abitazione. Non c'era più nessun servitore, erano stati tutti congedati pochi giorni prima con un ingente somma di denaro per gratitudine ai servizi svolti con diligenza nel corso degli anni. Un tappeto rosso e pregiato attraversava un corridoio di forma rettangolare fermandosi davanti a delle scale in pietra che conducevano al primo piano. Sul lato sinistro c'erano due porte in legno di noce e tra le due aperture c’era un piccolo tavolino di marmo rosa, dove poggiavano dei vasi di fattura orientale. Il lato destro, invece, era completamente rivestito da due enormi quadri raffiguranti un esercito che marciava al tramonto su un paesaggio campestre e un lupo che ululava a Lhandriel, la bianca luna che illumina le notti di Sirian. Due statue di pietra bianca, poco più alte di un uomo, si affiancavano lateralmente alla rampa di scale sfiorando quasi il corrimano. Erano le statue dei patroni di Chombrun. Amir era raffigurato come un vecchio cavaliere dai folti capelli e una lunga barba, alzava una spada lunga con la mano destra in segno di vittoria e portava sull’altro braccio uno scudo triangolare, mentre il dio del sole era scolpito come un avvenente uomo dai capelli corti coperto da una tunica, sopra la quale portava una corazza completa; al collo indossava un medaglione e le sue mani erano strette su un martello da guerra che poggiava con la testa sul pavimento.

    Il cavaliere si diresse dietro la statua del dio della giustizia, dove aprì una piccola porta che dava nel sottoscala, giungendo in uno stanzino di dimensioni ridotte e senza finestre, con un baule sul lato destro e un altarino con sopra un cero in fondo alla parete. Quello era il luogo dove Kairon pregava il suo dio, poiché non amava andare al tempio del palazzo reale, ritenendo che anche il clero di Amir fosse diventato pingue e vizioso quanto la nobile classe cittadina.

    Kairon accese la candela sopra l’altare, s’inginocchiò cominciando a recitare un’antica preghiera al suo dio. La sua vista ricadde su una tavola in pietra appesa alla parete, dove gli insegnamenti del suo protettore erano stati incisi nella lingua Miglanir, il linguaggio parlato dai popoli delle Terre Centrali dove quel culto era nato nei tempi antichi.

    «Sii fedele all’Antico Codice in ogni situazione, il tuo onore poggia su di esso», cominciò a recitare a bassa voce il giovane. «Conserva nel cuore la tua terra, il tuo credo, la tua famiglia, e difendi sempre ciò che ti è caro. Obbedisci sempre al tuo legittimo sovrano, la tua spada serve il regno. Sii giusto e benevolo, umile e coraggioso. Un cavaliere non conosce menzogna, la sua parola è come una lama lucente. Sii generoso con i bisognosi e non esigere compensi per i tuoi servigi. Soccorri sempre i deboli e gli indifesi dai soprusi dei malvagi, un protettore del regno è scudo degli inermi.  Rispetta le donne e difendi in ogni situazione l’onorabilità della tua dama. Mantieni puro il tuo animo, non coltivare vanità, invidia e odio, poiché offuscano la mente e fanno tremare il braccio. In battaglia combatti sempre con onore. Un cavaliere non attacca mai un nemico disarmato, né carica un avversario senza cavallo. La spada di un protettore del regno non colpisce mai alle spalle. Solo le gesta di un cavaliere narrano le sue imprese». Mentre recitava il codice, Kairon stringeva con forza l’elsa della lama sacra. La guardia dell’arma era dorata e il pomolo raffigurava la testa di un lupo dagli occhi di rubino. Quella spada magica era da molti anni un motivo di vanto per la sua famiglia, ma per lui il significato di quell’arma andava ben oltre tutto questo, era un simbolo di continuità, l’emblema della pesante eredità paterna, e il paladino dagli occhi di ghiaccio non sapeva se le sue sole forze sarebbero bastate a coglierla in pieno.

    Padre, pensava l’ultimo lupo grigio, sei riuscito a farmi pervenire questa lama anche nell’ora della tua morte. Vorrei tanto essere all'altezza di questo lascito. Il popolo nutre molte aspettative in me, ma io non mi sento ancora pronto. Adesso che anche la mamma ti ha raggiunto non c’è più nulla che io possa fare in questa città. Il seggio del consiglio non fa per me, prima voglio realizzare l’ultima richiesta della mia adorata madre, ma la mia non è una diserzione. Amo Chombrun e quando sarò finalmente degno di te, tornerò per farla diventare ciò che era quando ancora guardavo la cittadella con lo stupore di un bambino e tu eri il mio eroe. Ti chiedo di vegliare sul mio cammino padre e di comprendere le mie ragioni.

    Dopo alcuni minuti il cavaliere respirò profondamente, prima di alzarsi e aprire il massiccio baule per prendere con sé viveri e denaro per un lungo percorso privo di meta. Senza troppi convenevoli raccolse due bisacce e lasciò l’edificio che lo aveva visto crescere per diciotto inverni. Un bianco destriero lo attendeva fuori dal cortile di casa Navar. Kairon montò a cavallo e assieme a Rastaban si diresse a sud, verso le mura della città, attraversando il viale degli artigiani, fino a giungere nella parte bassa di Chombrun, dove dei piccoli rigagnoli si erano formati ai bordi della strada. Qui viveva la povera gente, persone che Kairon conosceva bene e che aveva difeso per lungo tempo durante le riunioni del consiglio che governava la città. A nulla erano valse le sue proteste per fare riaprire le vie a sud e riavviare il commercio verso est, così come osteggiata dalla classe nobiliare e dal clero di Amir era stata la proposta di ripulire il bosco di Greyamh dalle creature che ne impedivano il passaggio. Con sommo disappunto, il paladino notò che il consiglio, formato dalle dieci casate nobiliari del regno e dai maggiori esponenti del clero appartenenti ai due patroni cittadini, continuava a sfruttare le miniere situate nei monti a nord della capitale e si preoccupava principalmente di mantenere i propri privilegi senza prendere decisioni che interessassero tutta la popolazione. Ora questi problemi non lo riguardavano più, si era dimesso dal consiglio e aveva deciso di lasciare la sua casa. Dopo la morte della madre non c’era più nulla che lo legasse a quel luogo. Tuttavia, mentre cavalcava nei viottoli della cittadella, il cavaliere provò un senso di colpa nel lasciare così la sua gente, senza poter fare abbastanza per il popolo che avrebbe voluto servire.

    D’un tratto Kairon fermò il cavallo e si guardò attorno. Il cielo aveva cominciato a rischiarare e nel quartiere c’era troppa calma.  La fucina del fabbro sembrava muta e non c’era alcuna traccia di vita in quei vicoli che solitamente brulicavano di gente e di odori.

    Quando Kairon giunse di fronte alle scuderie cittadine un rullo di tamburi infranse la quiete della contrada e tutte le finestre del rione si spalancarono di colpo, mentre dalle stalle cominciarono a uscire decine di persone cariche di bisacce e omaggi. A capo di tutta quella gente c’era Ilya, la bionda stalliera, vestita con una camicia di cuoio scuro e dei lunghi calzoni. Proprio lei gli si avvicinò mettendosi davanti alla carreggiata sterrata che conduceva al cancello dell’orso.

    «Pensi di potertene andare senza avermi salutato come si deve, cavaliere di Amir?», disse la donna fingendosi imbronciata.

    «Qualcuno deve aver sparso in giro la voce della mia partenza, tu ne sai qualcosa Ilya?», chiese Kairon scendendo da cavallo.

    «Prova a chiedere a Rastaban», replicò la donna additando al grosso lupo che affiancava sempre il cavaliere, «non tiene mai la bocca chiusa!».

    Il giovane sorrise e andò ad abbracciare la sua cara amica. Ilya era di qualche anno più vecchia di lui, aveva un fisico longilineo e dei folti riccioli biondi le ricadevano sulle spalle, mentre il suo sorriso radioso e i suoi occhi scuri ma luminosi avevano incantato per lungo tempo sia il cuore di Kairon che quello del suo amico Draco.

    La folla cominciò a circondare il paladino, c’erano proprio tutti: Gregor il calvo, il fabbro che gli aveva costruito la sua prima armatura, Brilem, il falegname che quando era piccolo gli aveva regalato una spada di legno, Josh il fornaio, che ogni mattina teneva da parte per lui del pane appena sfornato, e per finire Ilya, la ragazza che gli aveva insegnato a cavalcare. Tutti erano prodighi di consigli, pacche sulla schiena, sorrisi e soprattutto doni, che il cavaliere accettò un po’ imbarazzato.

    Kairon godeva di grande stima nella zona bassa della capitale, dove invece la maggior parte dei cavalieri e dei nobili rischiava di essere bersaglio d’insulti e di oggetti scagliati con violenza dal popolo sempre più oppresso dal bisogno. Il giovane malgrado ciò pensava di non meritare tutto questo, e di fronte a tale manifestazione d’affetto rischiò più volte di commuoversi.

    La gente del rione chiese al cavaliere di aspettare qualche ora prima di ripartire, ma il paladino non volle prolungare la sua permanenza tra loro, temendo che poi gli sarebbe mancata la forza di volontà per andarsene.

    «Ritorna sano e salvo Kairon, e non ti dimenticare mai che in questa città c’è chi ti vuole bene», sussurrò la donna prima di dargli un bacio sulla guancia e guardarlo con occhi colmi di lacrime.

    «Non piangere per me Ilya, un giorno tornerò a Chombrun, e forse allora saprò meritarmi un’accoglienza come questa, e potrete considerarmi non solo il figlio di glorie passate» disse Kairon asciugandole il viso con dolcezza.

    «Per noi dei bassifondi tu sei già un eroe», disse la donna mentre tentava di ricomporsi, «prenditi cura di lui Rastaban, mi raccomando», concluse infine accarezzando il muso del lupo grigio, per poi congedarsi dal cavaliere con un lungo abbraccio.

    Kairon salutò tutti coloro che l’avevano visto crescere, tutta la gente di cui avrebbe portato felici ricordi con sé, e apprese che d’ora in poi anche viaggiando verso terre sconosciute avrebbe sempre custodito nell’animo l’affetto del popolo di Chombrun. Il paladino di Amir riprese a camminare verso le porte della città, ma mentre proseguiva non poteva ignorare ciò che stava lasciando alle spalle: ricordi di lui e Draco che da bambini si allenavano duellando con delle scope rubate, le lunghe cavalcate con Ilya nel Rheanial, le dure ore di esercizio fisico e di studio per diventare cavaliere, tutte queste immagini si amalgamavano alle magiche notti trascorse ad assaporare le storie narrate dai bardi del Berenial, leggende di cui sognava un giorno d'entrare a far parte. Infine, attraversò finalmente il portale sud, dove il simbolo dell’orso - l’emblema della casata Dubhe - si stagliava in pietra nel torrione sopra il cancello di legno. Giunto all’esterno Kairon scrutò il cielo. Era sereno, e per lui questo rappresentava un segno di buon auspicio. Sembrava che la città volesse congedarsi da quel suo figlio nel

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