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La storia di Milano in 100 monumenti e opere d'arte
La storia di Milano in 100 monumenti e opere d'arte
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E-book655 pagine8 ore

La storia di Milano in 100 monumenti e opere d'arte

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Le molte, affascinanti anime di una città in continuo movimento

Milano è una città ricca di monumenti e memorie storiche, che contribuiscono a definire la sua identità artistica e culturale. Qui si trova il Cenacolo di Leonardo da Vinci, una delle icone della civiltà occidentale: basterebbe da solo a richiamare turisti da tutto il mondo. Camminare in centro vuol dire attraversare strette vie medievali, dai nomi che evocano perdute vestigia romane (via Circo, via San Vittore al Teatro) per poi sfociare in ampi, trafficati slarghi e vialoni fiancheggiati da eleganti palazzi ottocenteschi. Ma Milano è anche lo skyline ultramoderno, con grattacieli progettati da architetti di fama mondiale, con strutture d’avanguardia, belle e controverse. Vie, monumenti, edifici e opere pittoriche narrano in questo libro la storia del capoluogo lombardo, facendola rivivere attraverso gli artisti che nei secoli l’hanno resa celebre in tutto il mondo. 

Dal Castello Sforzesco a Gae Aulenti

Ecco alcune delle opere presenti:

• Sant’Ambrogio
• la statua di Bernabò Visconti
• il Duomo
• il Castello Sforzesco
• il Cenacolo di Leonardo da Vinci
• il Palazzo dei giureconsulti
• il Lazzaretto
• la Biblioteca ambrosiana
• il Teatro alla Scala
• la pinacoteca di Brera
• la casa di Manzoni
• il monumento alle cinque giornate
• la galleria Vittorio Emanuele II
• il cimitero monumentale
• il Palazzo dei giornalisti
• il Piccolo teatro
• il grattacielo Pirelli
• Citylife e il Portello
• la torre Unicredit e il complesso urbanistico di Porta Nuova
Mauro Pavesi
si è laureato con una tesi sul Trattato della Pittura di Leonardo e si è specializzato in Storia del collezionismo. Ha poi conseguito il dottorato di ricerca. Si occupa principalmente di temi riguardanti il Rinascimento lombardo. Attualmente insegna Storia dell’Arte Moderna all’Università Cattolica di Milano e Brescia.
LinguaItaliano
Data di uscita23 nov 2016
ISBN9788854199736
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    Anteprima del libro

    La storia di Milano in 100 monumenti e opere d'arte - Mauro Pavesi

    Manuali e guide newton

    458

    COLOPHON

    Prima edizione ebook: dicembre 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9973-6

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di 8x8 Srl, Roma

    Stampato nel dicembre 2016 da Puntoweb s.r.l., Ariccia (Roma)

    FRONTESPIZIO

    INTRODUZIONE

    Milano è una città ricca di monumenti e memorie storiche, anche se la sua identità, nell’immaginario collettivo degli italiani, non è, di solito, associata ai concetti di arte e cultura. Milano è percepita come una città moderna, frenetica, dove si pensa solo al lavoro e dove non c’è tempo per il resto. Eppure proprio a Milano si trova il Cenacolo di Leonardo da Vinci, una delle icone – dal punto di vista artistico, storico e religioso – della civiltà occidentale: un’immagine che, senza pensarci, rivediamo sempre, anche diverse volte al giorno, in cartoline, riproduzioni, stampe; oltre che nelle innumerevoli rivisitazioni e parodie, da Buñuel ad Andy Warhol e Matt Groening.

    Basterebbe il solo Cenacolo per fare di Milano una delle città più attraenti e turistiche d’Italia; e invece le sue non facili condizioni di visitabilità, con lunghe liste d’attesa per le prenotazioni, lo rendono un’opera di cui andare orgogliosi, magari, ma che, all’atto pratico, i milanesi non sentono come propria, o che, se si vuole, non è troppo vissuta. Anche il Duomo, monumento forse più amato dalla gente, non viene mai osservato con attenzione: ci si passeggia accanto, camminando in piazza o sotto i portici, fra una vetrina e l’altra, magari guardandolo distrattamente; come distrattamente ci si entra, facendo due chiacchiere, senza mai alzare la testa. Sono esempi indicativi del rapporto che i milanesi hanno con la propria storia: ci convivono, passando tutti i giorni accanto a importanti monumenti di tutte le epoche, senza mai soffermarcisi troppo.

    Percorrendo la storia della città, si incontrano le tracce di personaggi centrali nella storia dell’Occidente, da Giulio Cesare, a Costantino, a Carlo Magno, a Carlo v, a Napoleone. Camminare nel centro di Milano vuol dire attraversare strette vie medievali, dai nomi che evocano perdute vestigia romane (via Circo, via San Vittore al Teatro) per poi sfociare in ampi, trafficati slarghi e vialoni fiancheggiati da eleganti palazzi ottocenteschi e da moderni edifici in cemento e vetro, inseriti brutalmente nel contesto urbanistico nel corso degli anni ’60 e ’70; con il cielo solcato a bassa quota dagli immancabili cavi sospesi dei filobus. Tutto l’insieme, a volte caotico, racconta comunque di una città vitale, antica, ricca di storia, ma dinamica, quasi sempre impietosa verso le tracce del passato proprio perché continuamente cresciuta su se stessa. È indicativa, del resto, la velocità con cui Milano si è ultimamente costruita uno skyline ultramoderno, con grattacieli progettati da architetti di fama mondiale a due passi dal centro storico; con strutture d’avanguardia, belle ma controverse, e costruite con modalità non prive di strascichi polemici. Guardando le cose con un certo distacco (ma non vuol dire che questa debba diventare una scusa) si potrà affermare che, del resto, così era nato – ma senza interessi speculativi alle spalle – anche lo stesso Duomo, edificato dai milanesi sacrificando due antichissime cattedrali di origine paleocristiana, una officiata in estate e l’altra d’inverno, un tempo poste ognuna in prossimità dell’altra, e ciascuna dotata di un proprio battistero. Oppure, allo stesso modo, in Santa Maria delle Grazie, il monumentale complesso architettonico di Bramante, pensato dal duca Ludovico il Moro contestualmente al Cenacolo vinciano, era stato edificato abbattendo parte di una bella chiesa gotica terminata solo un paio di decenni prima. Per non parlare delle colonne romane di San Lorenzo, uno dei più imponenti complessi antichi fuori terra dell’intera Italia padana (altro monumento mai veramente osservato dai giovani che hanno qui accanto uno dei più vivaci luoghi di ritrovo), ma, in realtà, identificabili con un riutilizzo nato dallo smantellamento di qualche sconosciuto complesso monumentale più antico; colonne che sono al loro posto attuale soltanto (si fa per dire) dal iv secolo d.C., quando Milano, per circa un secolo, era stata capitale dell’Impero romano d’Occidente (è impressionante come, per inciso, a Milano i monumenti si muovano, molto più che in ogni altra città).

    La Gra. Città di Milano è la più conosciuta e accurata pianta prospettica del Rinascimento milanese: è stata pubblicata a Roma nel 1573 dal calcografo francese Antoine Lafréry ed è rimasta a lungo un modello del genere. Dai suoi ingrandimenti sono spesso ricavate notizie sulle costruzioni monumentali o private del tempo.

    Qualche volta sventramenti e distruzioni non voluti, ma nati da cause di forza maggiore hanno lasciato tracce e vuoti sicuramente più dolorosi, ma anch’essi ormai carichi di storia, nel tessuto urbanistico di una città che ha dovuto subire le distruzioni barbariche in età tardoantica, le tragiche devastazioni del Barbarossa nel xii secolo (con la perdita di tutti i monumenti di età romana), e le ferite dei bombardamenti aerei del 1943-44. L’ultima di queste tre grandi devastazioni ha malinconicamente lasciato integro qualche frammento monumentale, come l’abside romanica dell’antichissima chiesa di San Giovanni in Conca, ormai ridotta a spartitraffico nella moderna piazza Missori. Si tratta di un curioso caso di edificio letteralmente fatto a pezzi, disperdendone l’arredo fra vari musei milanesi (Brera, Castello, Archeologico) e spostando di peso la facciata per applicarla a un moderno luogo di culto della comunità valdese, in via Francesco Sforza.

    Un’intera facciata di chiesa traslocata da un capo all’altro dell’antico centro cittadino: a Milano non è nemmeno l’unico caso, se si pensa alla fronte del bell’edificio barocco di San Giovanni alle Case Rotte, chiamato così, guarda caso, perché costruito nel xii secolo sopra le rovine dei palazzi della famiglia Torriani fatti distruggere dall’arcivescovo Ottone Visconti. Dopo il colpevole abbattimento dello splendido edificio dall’interno completamente affrescato (avvenuto nel 1906; pochi frammenti sono oggi nei depositi delle Civiche Raccolte d’Arte) per far posto alla Banca Commerciale, la bella fronte porticata, capolavoro di Francesco Maria Richino, è migrata in via Ariosto, di fianco alla neobarocca chiesa di Santa Maria Segreta, a far da ingresso a un cinema parrocchiale.

    A Milano, forse, il visitatore non troverà quindi un centro storico rispettosamente conservato come a Firenze, Venezia o a Siena, né un’urbanistica spettacolarizzata dalla secolare presenza di una corte universale, imperiale o pontificia, come a Roma. Milano è invece una città introversa, che nasconde le sue bellezze rivelandole solo a chi sa ricercarle dietro l’apparenza di un tessuto edilizio molto recente e, proprio per questo, forse, neppure percepito dai più come degno di nota (nonostante l’alta qualità dell’architettura novecentesca, da Muzio, a Portaluppi, a Gio Ponti). Una città che da un lato è frenetica, e dall’altro, paradossalmente, schiva e riservata; sempre viva comunque, carica di quattro millenni di storia spesso vissuti da protagonista e capace di farsi amare da chi riesce a osservarla con occhio acuto e analitico, guardando in profondità, e al di là delle prime impressioni.

    L’ETÀ ANTICA

    La scrofa mediolanuta, animale mitico da cui un’antica leggenda faceva derivare il nome latino di Milano: Mediolanum. Stampa da De praeclaris Mediolani aedificiis quae Aenobarbi cladem antecesserunt, 1735.

    Dagli Insubri all’Impero

    Le colonne romane davanti a San Lorenzo, alla Porta Ticinese. In un’incisione di Giovanni Ghisolfi, da Il ritratto di Milano, di Carlo Torre, 1674.

    Milano è nata verosimilmente nell’età del Bronzo, intorno al ii millennio a.C. Il suo primo sviluppo dovette essere nell’ambito della cosiddetta Cultura celtica di Golasecca, dal nome del Comune varesino in cui, nel xix secolo, furono ritrovati alcuni reperti. Intorno all’anno 390 a.C., con un’invasione di popolazioni provenienti dalla Gallia (i cosiddetti Insubri), si completò il quadro etnico della pianura Padana. Tito Livio, che scriveva parecchi secoli dopo, racconta della mitica fondazione da parte del principe gallo Belloveso, intorno al 600 a.C. In questa leggenda, che piacque ai milanesi dai tempi di Roma fino alla narrazione trecentesca di Bonvesin della Riva, si può forse trovare un fondo di verità (ammettendo un errore di qualche centinaio d’anni) immaginando un possibile riferimento alle ondate di invasori che occuparono i centri abitati della pianura Padana intorno al iv secolo. L’antica Milano era comunque parte di una compagine di città-stato indipendenti fra loro, secondo l’antica cultura insubre; la posizione geografica ne favorì la crescita e il benessere.

    Nel 222 a.C. un contingente di truppe romane aveva varcato il Po per un’importante campagna militare contro le popolazioni galliche degli Insubri e dei Boi, che avevano messo a rischio, con una serie di scorribande, i commerci dell’Etruria settentrionale. Con la battaglia di Casteggio (Clastidium), avvenuta lo stesso anno, il console Marco Claudio Marcello ebbe la strada spianata verso la valle del Po. In questo contesto Milano è citata per la prima volta da Polibio, ultima fra le città dei Galli Insubri a capitolare. A Mediolanum, che doveva comunque già essere il più importante centro urbano della zona, era nato Cecilio Stazio, condotto prigioniero dopo questa campagna e morto a Roma nel 168 dopo essere divenuto un importante commediografo.

    Nella seconda guerra punica (218-202 a.C.) gli Insubri si ribellarono al dominio romano e molti di loro militarono come mercenari nell’esercito cartaginese guidato da Annibale. La sottomissione definitiva avvenne quindi solo dopo la fine di quel conflitto. Nel 50 a.C. Cesare visitò, insieme ai principali municipia della Gallia Cisalpina, anche la stessa Mediolanum: possiamo solo immaginare il passaggio del grande generale tra ali di folla, banchetti, feste e sacrifici di animali immolati alle divinità. Dell’episodio esiste anche la testimonianza di Plutarco, il quale narrava che Cesare, invitato a pranzo, avesse assaggiato per pura cortesia degli asparagi cucinati secondo le usanze locali, che non prevedevano l’uso dell’olio ma di una strana sostanza aromatizzata che doveva essere, con ogni probabilità, una sorta di antesignano del moderno burro. Già all’epoca della Roma repubblicana, curiosamente, esisteva quindi questa distinzione culinaria tra l’Italia padana e l’Italia peninsulare.

    Ai festeggiamenti per il passaggio di Giulio Cesare dovette assistere anche un giovane letterato originario di Mantova, Publio Virgilio Marone: il futuro autore delle Bucoliche e dell’Eneide, nonché cantore dell’impero di Augusto, era qui per compiere gli studi di retorica. Già allora Mediolanum si presentava come il centro più importante della Valle Padana, luogo di attrazione per i cittadini degli altri municipia cisalpini. Sembra risalire a quest’epoca la costruzione del grande teatro a pianta semicircolare, in grado di contenere circa 8000 spettatori, conservatosi fino al xii secolo e perduto in seguito alle distruzioni di Federico Barbarossa, nel 1162. Consistenti resti delle fondazioni sono visitabili nei sotterranei dell’attuale Palazzo della Borsa; in seguito, la memoria della sua esistenza rimase nell’antica intitolazione della chiesa di San Vittore al Teatro, esistita fino al xviii secolo.

    Dopo l’assassinio di Cesare, nel 44 a.C., Milano dovette inizialmente schierarsi con i cesaricidi, contro Marco Antonio e Ottaviano. Tanto che, nel Foro, si poteva ammirare una statua bronzea di Bruto, assassino del dittatore. Lo affermano Svetonio e Plutarco; quest’ultimo narra anche che Ottaviano, sconfitti i partigiani del Senato e divenuto ormai l’imperatore Augusto, avrebbe concesso ai milanesi di conservare l’immagine del vecchio nemico rispettando la gratitudine verso colui che aveva rettamente governato la città come propretore designato dallo stesso Cesare.

    Nei primi due secoli dell’Impero, Mediolanum visse una tranquilla vita come importante centro politico e amministrativo. Plinio ne ricorda il prestigio dei praeceptores che ne facevano un’ambita sede di studi in grado di attirare giovani da molte altre città. Ricchi mosaici di alcune domus (trovate nei sotterranei di alcune abitazioni delle attuali vie Circo, Amedei, Gorani e della moderna piazza Missori) ne testimoniano il benessere. Il luogo eminente della città era il Foro, collocato in corrispondenza dell’attuale Ambrosiana, tra via Cesare Cantù, piazza San Sepolcro e piazza Pio x; di quella che doveva essere un’immensa piazza monumentale (55x160 metri), circondata da imponenti colonnati marmorei e lastricata in pietra di Verona, non resta oggi quasi nulla. Rimane un breve tratto di pavimentazione, in un locale dei sotterranei della Biblioteca Ambrosiana, mentre altre lastre dell’antico selciato sono state riconosciute nel piano di calpestio della cripta della vicina chiesa di Santo Sepolcro. Aveva sede nel Foro anche la zecca romana, la cui memoria sopravvisse nelle perdute chiese di San Mattia e San Martino alla Moneta e nel nome dell’attuale via Moneta, unico resto immateriale a pallida testimonianza dell’antico complesso. Nel i secolo d.C., come altre città della Gallia Cisalpina (Verona su tutte), anche Milano ebbe il suo anfiteatro ellittico per i combattimenti dei gladiatori: un edificio veramente grandioso (155x125 metri) di cui qualche tratto di fondazione è visibile nel poco frequentato parchetto tra le attuali via De Amicis e via Arena.

    Nel iii secolo Mediolanum subì anch’essa i problemi della grave crisi dell’Impero romano e delle sue inevitabili spinte disgregatrici; nel 268 fu teatro del tentativo di ribellione del comandante Aureolo, che, autoproclamatosi imperatore, era stato sconfitto dalle truppe di Gallieno e trucidato dai suoi stessi ufficiali.

    1. La Scrofa semilanuta. L’origine magica della città

    Tito Livio fa risalire la fondazione di Milano a un leggendario principe di stirpe gallica, Belloveso. Nipote del mitico re Ambigato, egli si sarebbe mosso dall’area del Rodano intorno al 600 a.C. per stabilirsi in Italia. Giunto in un’area al centro della pianura Padana, gli sarebbe apparso, sotto un biancospino (pianta che per i Galli era sacra alla dea Belisama) uno strano animale: una grande scrofa ricoperta di pelo solo per metà del corpo. Interpretando l’incontro come una sorta di messaggio divino, Belloveso avrebbe edificato una nuova città, chiamata, appunto, Medio-lanum, in onore della misteriosa scrofa semilanuta.

    Oggi sappiamo che questa leggenda va certamente annoverata tra i fantasiosi miti di fondazione delle città antiche; oltretutto la stessa etimologia del toponimo ha una spiegazione diversa, con il significato – molto meno fantasioso – di luogo al centro di un determinato territorio. Tuttavia, ricordando la misteriosa sacralità dell’origine cittadina, la narrazione di Tito Livio aiuta forse a mettere a fuoco un aspetto sfuggente di Milano che solitamente si percepisce in modo quasi inconscio. E cioè quel misterioso, impercettibile fondo di irrazionalità che c’è nell’indole e nel temperamento di una città solo in apparenza positiva e dedita unicamente a lavorare e a produrre; e in quell’aspetto di paradosso e irragionevolezza ben presente, anche se mai ammesso fino in fondo, nel carattere dei suoi abitanti: non soltanto efficienti, dinamici, operosi, ma anche impulsivi, passionali, sanguigni, e talvolta sconsiderati e illogici. In effetti, già ai tempi di Tito Livio, la leggenda piacque e mise radici, tanto da trasformare il mitico animale in una sorta di strano simbolo cittadino; ancora in età cristiana il vescovo Dazio ricollegava il nome di Mediolanum alla misteriosa scrofa, «sus grande […] lanigerae pellis […] tergoris in medio». Testimonianze antiche, come quella del panegirista Claudio Claudiano (398), ricordano un’immagine (o più immagini?) della scrofa a ornamento delle mura della città. Una di queste è ancora visibile (anche se non molto osservata dai passanti), in un contesto profondamente diverso, proprio a due passi dal Duomo, murata tra i conci di una delle arcate della fronte orientale del Broletto, la sede del Comune nel Medioevo. Si tratta di una raffigurazione a bassorilievo in cui il singolare animale è raffigurato di profilo, ritto sulle zampe anteriori, con lo sguardo fisso rivolto verso sinistra. Il pezzo, che, osservato, trasmette una sua rude, iconica bellezza, è abbastanza famoso, anche se, di fatto, poco studiato; si tratta probabilmente di un esemplare di arte provinciale romana (forse tardoantico?) del singolare stemma primigenio della città, esibito, a testimonianza delle sue remotissime origini, nella sede medievale del Comune. Sostituita, in età successiva, dalla più rassicurante croce rossa in campo bianco (in opposizione, ai tempi dei conflitti con il Barbarossa, dello stendardo imperiale con croce bianca in campo rosso e, forse, rimando alla vicenda delle Crociate) l’immagine continuò a sopravvivere nell’araldica cittadina; non lontano dal Broletto ne è visibile un bell’esempio cinquecentesco in uno stemma a bassorilievo su una parete esterna del palazzo Giureconsulti, inserito in una fantasiosa cornice ovale manierista.

    Ad ogni modo poco rimane oggi della fase insubre di Mediolanum. Il maggior numero di frammenti (pugnali, punte di lancia ecc.) proviene da un’area esterna al perimetro dell’antica città, più o meno nell’area dell’attuale piazzale Abbiategrasso; altri reperti sono stati rinvenuti nel sobborgo di Crescenzago e nei pressi di via Francesco Sforza; tutte aree fuori dall’antico perimetro cittadino. In centro, sotto l’area dell’attuale palazzo delle Poste, alcuni ritrovamenti ottocenteschi, databili al v secolo a.C., testimoniano l’avvenuto contatto commerciale con le popolazioni etrusche.

    In architettura le uniche tracce visibili risalgono a dopo la conquista di Roma. A parte qualche fondale sotterraneo con fori per palificazioni (sotto via Pellico e piazza Missori) e rari materiali di scavo (vasi, ciotole ecc.) la Milano delle origini rimane quindi avvolta in un’aura di mistero.

    2. Le mura romane: il primo segno distintivo di Mediolanum

    I Romani arrivarono, come detto, nel 222 a.C., con le truppe guidate da Marco Claudio Marcello. È proprio a questo personaggio (ricordato nel nome di via Console Marcello, in periferia, nell’attuale zona di Villapizzone) che si fa risalire tradizionalmente la romanizzazione della città, anche se il definitivo inserimento nel mondo latino avvenne dopo la fine della seconda guerra punica.

    Le prime tracce visibili di questa nuova era sono comunque decisamente più tarde, e si identificano nei resti della prima cerchia muraria, fatta costruire dopo il 49 a.C., quando la città aveva acquisito la cittadinanza romana con la Lex Roscia promulgata da Cesare; con essa si estendevano i pieni diritti civili (lo Ius Latii) anche alle popolazioni celtiche della Val Padana a nord del Po. L’antica città insubre diveniva così un effettivo Municipium Civium Romanorum; lo stesso Cesare ne fece un’importante postazione di retroguardia per le spedizioni in Gallia, nonché bacino collettore della celebre Legio x Equestris, la sua favorita, composta da fedelissimi di etnia celtica. Originariamente, più che nascere da una vera e propria esigenza difensiva, le mura repubblicane dovettero essere realizzate con l’intenzione di dare soprattutto lustro alla città, prima per importanza nell’area centrale della pianura Padana. Le mura avevano una lunghezza di 3 chilometri circa, e racchiudevano la sola area centrale dell’oppidum, lasciando fuori alcuni sobborghi già all’epoca intensamente abitati. Il perimetro è ricostruibile con facilità servendosi di una piantina: la struttura aveva una forma quasi rettangolare grossomodo corrispondente alle attuali vie Paolo da Cannobio, San Vito, San Giovanni sul Muro (che, appunto, prendeva il nome proprio dall’antica struttura difensiva), Marino, Filodrammatici; costeggiando, in un tratto, l’attuale piazza della Scala. La cerchia individuava, quindi, un’area ristretta, che oggi è considerata centralissima.

    Resti di questa prima compagine sono visibili negli scantinati di alcuni edifici in via San Vito, presso l’area popolarmente chiamata, fin dal Medioevo, con il toponimo di Carrobbio (corruzione del termine romano quadrivium, cioè incrocio) nei pressi dell’antica Porta Ticinese poi abbattuta; dell’antico accesso di epoca romana rimangono parti di una torre poligonale, le cui fondamenta sono visibili oggi negli ambienti sotterranei di un ristorante. Altre strutture turrite di accesso, tutte scomparse, erano situate a metà dell’attuale via Meravigli (dove, non a caso, si trova dall’alto Medioevo la chiesa di Santa Maria alla Porta), all’inizio del corso di Porta Romana, in fondo a via Dante, prima dell’odierna piazza Cairoli.

    Per diverso tempo l’importanza strategica di Mediolanum ne fece la piazzaforte principale della parte centrale della pianura Padana, con le altre città lombarde (Como, Pavia, Lodi) che assunsero un ruolo di suoi satelliti militari. La storia delle mura, tratto distintivo rispetto ai centri vicini, è un po’ la storia dell’antica città, che visse senza traumi il passaggio dalla Repubblica all’Impero ma che, dopo qualche secolo di sonnecchiante vita di provincia, si trovò improvvisamente al centro delle vicende politiche e militari romane. Dalla fine del iii secolo, infatti, le mutate condizioni dei confini orientali avevano spinto gli imperatori a risiedere a Mediolanum molto di frequente: la posizione di baluardo più settentrionale d’Italia ne faceva infatti una comoda base per gli spostamenti delle truppe, sempre più spesso chiamate in causa dai movimenti delle bellicose popolazioni barbariche provenienti da Est.

    Fu soprattutto l’imperatore Massimiano, nei suoi vent’anni di governo, a fare di Mediolanum una delle più splendide città del mondo antico. La riqualificazione urbana ebbe uno dei suoi capisaldi proprio nella parziale ricostruzione della cinta muraria, struttura cui Massimiano fece aggiungere una nuova porzione a Nord (corrispondente più o meno alle attuali via dell’Orso, via Monte di Pietà, via Montenapoleone), portando il perimetro più o meno a 4500 metri e includendo anche le murature del nuovissimo Circo, che all’occorrenza potevano essere usate in funzione difensiva. Proprio in prossimità delle strutture circensi è visibile l’unica torre conservatasi della cinta massiminianea, una struttura poligonale un tempo dotata di una massiccia merlatura, oggi perduta. Incorporata in seguito dal monastero femminile di San Maurizio (chiamato, per la sua importanza, Monastero Maggiore) fu fatta restaurare sotto l’arcivescovo Ansperto tra l’869 e l’882. È da lui che la struttura trae il nome con cui fu ricordata per secoli; della sua effettiva origine romana ci si accorse solo ai primi del Novecento. In effetti la torre si presenta in una veste medievale anche all’interno, con un’aula ornata da un bel ciclo di immagini duecentesche con santi entro semplici edicole gotiche.

    Da Diocleziano a sant’Ambrogio: al centro del mondo tardoantico

    Una svolta fondamentale nella storia milanese si ebbe con Diocleziano, sotto cui la città divenne la sede ufficiale del potere per la parte ovest dell’Impero. La scelta avvenne nel titanico sforzo del grande sovrano di origine illirica per porre rimedio alla crisi interna del mondo romano con il complicato sistema della diarchia, poi divenuta tetrarchia; con una suddivisione dell’immenso (e ingovernabile) territorio in più aree amministrate da coimperatori. La scelta segnava l’abbandono, da parte della corte, di una Roma troppo lontana dai centri nevralgici delle campagne di difesa, cui rimaneva il ruolo di grande città di rappresentanza, quasi a museo della sua passata grandezza.

    L’ideazione del complicato sistema tetrarchico, che ebbe il merito di rallentare l’ineluttabile crisi dell’Impero, nasceva dalla constatazione che sarebbe stato impossibile, per un uomo solo, reggere il peso di una compagine statale così vasta: diviso il territorio in quattro parti, Diocleziano istituì un rigido sistema di successione imperiale per adozione. I due imperatori d’Occidente e Oriente (chiamati Augusti) dovevano affidare metà del loro territorio a due luogotenenti Cesari, a loro subordinati e destinati a divenire i loro successori.

    Proprio Milano, nel 286, fu il luogo dove Diocleziano fece associare al potere il suo generale e amico Massimiano, affidandogli la parte occidentale del’impero e concedendogli il titolo di frater secondo gli accordi stabiliti; la cerimonia avvenne senza che Diocleziano fosse fisicamente presente. In un’altra occasione (siamo nel 290), il panegirista Claudio Mamertino racconta una visita milanese di Diocleziano e Massimiano, che percorsero la città tra due ali di folla festante. L’atmosfera doveva essere strana, di paura mista a speranza; con l’esibizione di potenza dei due coimperatori che voleva infondere, in una compagine statale già molto indebolita, un anacronistico senso di sicurezza.

    Il sistema tetrarchico inizialmente funzionò, grazie alla lealtà di Massimiano nei confronti del più anziano collega. Trent’anni più tardi avvenne sempre a Milano l’altrettanto straordinaria cerimonia pubblica del primo maggio 305, quando Massimiano abdicò mentre, la stessa ora dello stesso giorno, a migliaia di chilometri di distanza, a Nicomedia, in Asia Minore, Diocleziano rinunciava anch’egli al regno. Qualche tempo dopo, tuttavia, Massimiano tentò invano di riprendere il potere, venendo però sconfitto da Costantino, il quale ne decretò la damnatio memoriae, facendo distruggere tutte le sue immagini esposte in luoghi pubblici.

    Dopo Massimiano, molti imperatori continuarono a risiedere stabilmente a Mediolanum, preferendola alla stessa Roma. Vi soggiornò spesso Costantino e vi abitarono stabilmente i suoi figli Costantino ii, Costante e Costanzo ii. Pochi tra i milanesi di oggi ricordano che anche la loro città è stata per più di un secolo caput mundi; purtroppo il tempo ha cancellato quasi ogni traccia di questo momento di splendore, in cui, per citare le parole del poeta tardoantico Ausonio, la nuova sede della corte era stata dotata di «costruzioni […] una più imponente dell’altra, come se fossero tra sé rivali» (un’immagine che sembra precludere il successivo, caotico assembramento urbanistico dei monumenti milanesi dal medioevo in poi), che non sfiguravano nemmeno al confronto con le bellezze di Roma.

    Tra gli edifici che davano prestigio alla città ci furono le Terme Erculee, immensa struttura di quasi 15.000 metri quadrati fatta costruire dallo stesso Massimiano nell’area dell’attuale corso Europa. Oggi, a parte qualche tratto di fondazioni sotto terra, qualche frammento di mosaico e il torso di una colossale statua di Ercole, non ne resta quasi nulla, come quasi nulla resta degli imponenti granai (horrea) un tempo siti nell’isolato dove oggi si incrociano via Broletto e via dei Bossi.

    La presenza della corte, oltre a dare prestigio alla città, ne fece d’altro canto anche uno dei teatri principali dell’acceso dibattito religioso che vedeva contrapposte due versioni del cristianesimo, quella del teologo e monaco Ario e quella poi confermata dai dibattiti del Concilio di Nicea.

    Alcuni degli ultimi imperatori milanesi, quelli della dinastia dei Valentiniani (Valentiniano i, Graziano, Valentiniano ii) furono probabilmente sepolti nel mausoleo ottagonale presso San Vittore, resistito fino al xvi secolo e purtroppo abbattuto per costruire la chiesa attuale. Anche di quest’opera, un tempo parte di una vasta necropoli circondata da un muro turrito, sono visitabili, sottoterra, gli imponenti resti perimetrali.

    In continua dialettica con la corte imperiale ci fu uno straordinario personaggio come Aurelio Ambrogio, arcivescovo della città dal 374 al 397. Grande costruttore, egli dotò Mediolanum di una vera e propria cintura di chiese collocate nelle zone periferiche della città; di quella a lui legata (la Basilica Martyrum, dedicata poi allo stesso sant’Ambrogio) e dell’altra (la Basilica Virginum, in seguito intitolata al successore Simpliciano) si parlerà tuttavia nella sezione successiva perché, al di là della loro origine, l’atmosfera che vi si respira, più che tardoantica, è profondamente medievale. Risiedette a Milano anche il grande Teodosio i, ultimo sovrano a governare l’impero unito, che, dopo la sua morte, fu definitivamente suddiviso fra i figli Onorio e Arcadio. Fu proprio Onorio ad abbandonare Mediolanum nel 402, all’inizio dell’epoca delle invasioni dei popoli germanici, preferendo spostarsi a Ravenna, città portuale meglio difendibile e meglio collegata con l’Impero d’Oriente. Cominciarono poi i tristi momenti dei saccheggi e delle scorrerie barbariche, con Attila (441) e Uraia (538-39).

    Gli anni in cui la città fu capitale dell’Impero romano lasciarono inizialmente una profonda traccia nella memoria storica dei milanesi, poi, man mano, il ricordo, almeno nella memoria collettiva, si affievolì. Curioso è anche il rapporto con i pochi segni visibili di questo glorioso passato: con la gente che ci passa a fianco senza guardare, convivendoci, al massimo, distrattamente. È il caso dell’imponente colonnato antico presso San Lorenzo; o della curiosa statua togata detta bonariamente l’Omm de preja (uomo di pietra) o Sciur Carera (dalle prime parole dell’iscrizione moraleggiante che la accompagna da tempo imprecisato: carere debet omni vitio qui in alterum dicere paratus est, sorta di trasposizione classicheggiante della questione evangelica della pagliuzza e della trave). La scultura (che già, di per sé, è un palinsesto: il corpo è del i secolo d.C., mentre la testa è tardoantica) raffigura un personaggio ignoto, ed è esposta fin dal Medioevo contro i muri di una casa dell’antica corsia dei Servi (poi corso Vittorio Emanuele ii). Col tempo era diventato una sorta di Pasquino della poesia dialettale milanese, nonché titolo, in anni passati, di un caratteristico periodico satirico-umoristico meneghino. Oggi, dopo che la corsia dei Servi è stata ricostruita ed è diventata il Corso, la via dello shopping per antonomasia, la statua, ricoverata sotto i moderni portici anni ’50, è dimenticata da tutti; pur essendo bene in vista, tra due frequentatissime vetrine.

    3. Il Palatium imperiale. Mediolanum caput mundi

    Splendido doveva essere il Palatium imperiale, degna sede della corte che reggeva tutto l’Occidente romano. Non è chiaro se la sua origine si dovesse anch’essa a Massimiano o se si trattasse di una struttura in parte precedente. Certo è che fu negli anni in cui Mediolanum fu capitale dell’Impero che il complesso ebbe la sua fase di massimo splendore. Si trattava di un vasto insieme di corpi di fabbrica con funzioni diverse, quasi una sorta di cittadella del potere: aree residenziali, terme, aule di rappresentanza, centri amministrativi, monumentali cortili porticati. Come il palazzo imperiale dell’antica Roma, anche quello milanese si affacciava sull’immenso Circo per le corse equestri. Le strutture, ricostruibili solo parzialmente, occupavano un vasto quartiere compreso fra le aree di Porta Ticinese e Porta Vercellina, tra le attuali via Torino e via Santa Maria alla Porta.

    Proprio qui, nelle aule del Palatium, ebbe luogo un evento cruciale per l’intera storia dell’umanità. Siamo nell’anno 313, e il contesto è quello dell’incontro tra i due coimperatori Costantino e Licinio per stipulare un effimero trattato di amicizia che prevedeva le nozze del secondo con la sorella del primo. Tra le clausole c’erano anche gli accordi che prevedevano l’editto di tolleranza verso la religione cristiana: il celebre Editto di Milano.

    Lo splendore degli edifici imperiali milanesi cominciò la sua inevitabile decadenza dall’anno 402, quando Onorio spostò la capitale a Ravenna. Milano era stata risparmiata, grazie all’abilità militare del generale Stilicone, dalle violenze dei Goti di Alarico, che avrebbero poi messo a ferro e fuoco Roma nel 410, ma cominciava a non essere più sicura. Dal suo punto di vista, bisogna dire che Onorio non aveva tutti i torti: dopo pochi anni le razzie e le scorrerie delle orde dei guerrieri barbari cominciarono a colpire anche Mediolanum.

    Anche senza la presenza fisica dell’imperatore, il complesso di edifici era comunque ancora funzionante nel 441, al passaggio del terribile Attila, re degli Unni, personaggio celebre fino ad essere divenuto proverbiale. Dopo aver espugnato Aquileia e altre città dell’Italia padana (Mantova, Padova, Verona, Brescia) Attila si era impadronito di Mediolanum dopo un difficilissimo assedio; una pagina del letterato e retore Prisco ricorda (offrendo anche un pallido ricordo del passato splendore del complesso) come, entrato nel Palatium, il re degli Unni si fosse soffermato beffardamente su una preziosa immagine in cui un imperatore, assiso su un trono, calpestava i cadaveri dei barbari sconfitti; dopodiché, chiamato un artista, avrebbe ordinato di eseguire subito una sua rappresentazione, con le insegne regali, in atto di ricevere l’omaggio di due imperatori romani, prostrati rovesciando ai suoi piedi pesanti sacchi d’oro.

    Abbandonato in seguito, il complesso imperiale fu sostituito nel Medioevo da un popoloso quartiere abitativo. Della fastosa residenza degli imperatori rimase, come spesso accade nella storia milanese, una memoria nella toponomastica, nell’intitolazione della chiesa di San Giorgio al Palazzo, sull’attuale via Torino, e nel vecchio nome di via Bagnera (probabile corruzione del termine Balnearia), indicazione che si riferiva a un antico stabilimento termale legato all’edificio. Tratti murari di un padiglione del palazzo sono riemersi presso l’attuale via Brisa nel 1953, durante la demolizione di un edificio danneggiato dai bombardamenti

    della seconda guerra mondiale (nei pressi delle torri medievali dei Morigi e dei Gorani, quest’ultima recentemente restaurata e isolata). Gli scarsi resti visibili lo configurano come una struttura circolare, un tempo ornata da un colonnato rotondo interno, collegata ad aule absidate. Pochi frammenti di canaline lasciano supporre che l’edificio fosse dotato di riscaldamento e, forse, ornato da fontane. Gli antichi ornamenti di statue, affreschi, mosaici e marmi preziosi, oggi completamente perduti, possono essere solo immaginati.

    4. La cittadella religiosa: il complesso episcopale paleocristiano e il battistero di San Giovanni alle Fonti

    Un giovane, brillante intellettuale, dai trascorsi libertini, si avvicina alla vasca ottagonale dove il vescovo della città lo attende per il rito del battesimo. È il 387, e Milano e l’Occidente sono ormai parte di un Impero cristianizzato; i due sono Agostino di Ippona e Ambrogio di Treviri, poi santi e dottori della Chiesa. Il rito si svolge nell’edificio battesimale di San Giovanni alle Fonti, voluto proprio dal vescovo per la città che pochi anni prima lo aveva costretto a furor di popolo ad accettare il ministero episcopale.

    È la figura di Ambrogio, soprattutto, ad essere legata a Milano, tanto che l’aggettivo ambrosiano è ormai diventato, nell’uso comune, un sinonimo di milanese. Nato a Treviri, in Germania, da un’importante famiglia romana, quella degli Aureli, divenuto funzionario imperiale, il futuro santo fu eletto vescovo di Milano il 7 dicembre 374. Gli anni del suo episcopato (durato fino alla morte, nel 397) si inquadrarono nel periodo di soggiorno a Milano della corte imperiale (365-402), ma furono anche segnati dalla lotta tra cristiani ortodossi e ariani. I primi seguivano la dottrina promulgata nel Concilio di Nicea (325), che è quella da cui si è evoluto il cattolicesimo attuale; i secondi riconoscevano una derivazione più semplificata che professava, per la figura di Cristo, un ruolo subordinato a quello del Padre, facendone quasi una sorta di semi-dio. La convivenza tra le due fazioni non era affatto semplice: non a caso, tempo prima, l’imperatore Giuliano l’Apostata aveva affermato che «non ci sono belve più pericolose […] di quanto non siano i cristiani con i propri correligionari». Prima ancora di abbracciare la condizione ecclesiastica, Ambrogio era stato inviato a Mediolanum proprio per sedare i tumulti seguiti alla morte del vescovo Aussenzio, di dichiarate simpatie ariane. Stimato da entrambe le parti, egli aveva provato a calmare gli animi con un discorso pubblico molto conciliante, che invitava tutti alla moderazione. Dopodiché, secondo il suo biografo Paolino, un bambino, tra la folla, avrebbe gridato «Ambrogio vescovo!», dando inizio a una vera proclamazione a furor di popolo. Battezzato in tutta fretta (all’epoca era ancora catecumeno) e fattosi presbitero, nel giro di poche settimane fu pronto per esercitare il suo ministero. Calatosi nel nuovo ruolo, da conciliante funzionario super partes Ambrogio divenne un fiero oppositore della fazione ariana, che pure trovava appoggi influenti nella figura dell’imperatrice Giustina, moglie di Valentiniano i. La fortuna milanese dell’arianesimo si spiega con il suo successo presso la corte imperiale; proprio a Milano, in anni precedenti (355), l’imperatore Costanzo ii aveva addirittura indetto un concilio con cui aveva tentato di imporre il credo ariano su tutte le altre tendenze cristiane. La sconfitta dell’arianesimo, ma anche la definitiva supremazia del cristianesimo sulle religioni pagane (che costò peraltro la distruzione di un ingente numero di opere d’arte greca e romana), si devono proprio alla durezza, al rigore e all’inflessibilità di Ambrogio e al suo ascendente presso l’imperatore Teodosio. Gli anni dell’episcopato ambrosiano furono difficili, con i confini dell’Impero pressati dalle popolazioni barbariche e con un conseguente clima di insicurezza per tutto l’Occidente. Eppure per Milano fu un’età splendida: la presenza della corte imperiale e il prestigio dello stesso Ambrogio diedero un nuovo volto alla città. L’arcivescovo aveva oltretutto ideato una liturgia particolare per la sua diocesi: è il celebre rito ambrosiano, vivo ancora oggi; un sistema rituale che conserva – in particolare nel suo tradizionale, caratteristico canto – ancora qualcosa del cristianesimo antico.

    Teatro delle azioni del grande arcivescovo fu il complesso di chiese collocate nell’area dell’attuale centro della città, dove, dal xiv secolo, fu edificato il grande Duomo gotico. Nel 386, ad esempio, egli aveva frettolosamente fatto occupare le basiliche principali della città per evitare che l’imperatrice Giustina, di fede ariana, ne offrisse una ai suoi correligionari durante il periodo di interregno seguito alla morte del marito Valentiniano i. Ma è legato alla figura di Ambrogio un altro celebre avvenimento della vita episcopale milanese. Siamo nel 390 e sul trono imperiale siede un personaggio di una forza e un carisma non comuni: si tratta di Teodosio i detto il Grande, fervente cristiano, che era riuscito nell’immane impresa di riunificare e governare l’Oriente e l’Occidente. Ambrogio, venuto a sapere di una strage ordinata dall’imperatore a Tessalonica nel mese di giugno per sedare una rivolta, vietò al sovrano l’ingresso alla cattedrale fino a che non avesse fatto pubblica penitenza. Fu un gesto clamoroso; la riconciliazione non avvenne fino al Natale dello stesso anno.

    Il complesso episcopale perduto, che si estendeva sull’intera area occupata oggi dal Duomo e dall’attuale piazza, doveva essere qualcosa di veramente imponente: quattro grandi basiliche di dimensioni diverse con marmi preziosi, mosaici, colonne, due battisteri e altri edifici minori. Il monumento più antico era la cosiddetta Basilica vetus, di cui non resta praticamente nulla; ugualmente perduta è anche l’adiacente Basilica minor. Si trattava di due tra le primissime chiese della cristianità, costruite subito dopo l’editto di tolleranza promulgato, proprio a Mediolanum, da Costantino (313) e finanziate forse da una donazione dello stesso imperatore. Non è chiaro, anche se è probabile, se risalisse all’epoca tardoantica anche la chiesa di Santa Maria Maggiore, documentata con certezza solo dall’alto Medioevo e divenuta poi cattedrale iemale (invernale) abbinata alla Basilica nova-Santa Tecla e resistita fino al xiv-xv secolo, quando fu sostituita dall’attuale Duomo.

    Tra i primi esempi di battistero a pianta ottagonale (possibile ricordo del mausoleo di Massimiano), San Giovanni alle Fonti ben rappresenta, con la sua vicenda, la sovrapposizione storica dei monumenti della città, con i milanesi che spesso non si sono fatti scrupoli nell’abbattere autorevoli e antichissime testimonianze del passato per fare spazio a nuove, grandiose opere. Così, insieme agli altri edifici del complesso episcopale paleocristiano, il battistero ambrosiano fu distrutto senza troppi ripensamenti nel 1394, sostituito dal cantiere del nascente Duomo, che ne smembrò marmi e colonne. Ne rimangono le vestigia, visitabili accedendovi dall’interno della cattedrale, sotto il livello del sagrato, sul quale ne è riportato, inciso, il perimetro, in corrispondenza della facciata. Scendendo da una scala oltre una porticina collocata nella controfacciata del Duomo, ne possiamo ancora ammirare la vasca con i gradini di accesso (nei primi secoli il battesimo avveniva infatti per immersione) e le nicchie semicircolari e rettangolari che si alternano attorno ad essa; per il resto, pochi frammenti di pavimentazione in marmo. L’innovativa idea della pianta ottagonale, destinata a una diffusione notevole nell’Italia settentrionale, ha un chiaro significato simbolico: l’ottavo giorno è quello che eccede la settimana della Creazione, e rappresenta quindi l’eternità, cui il battesimo introduce il fedele; il fatto, poi, che la matrice di questa pianta sia un monumento funebre poteva suggerire l’idea del passaggio, attraverso il battesimo, a una nuova vita, lasciandosi alle spalle un passato ormai defunto; quasi che fosse la tomba dell’uomo vecchio. Alla stessa tipologia si ispira anche un altro, più antico battistero, ugualmente parte dell’antico complesso episcopale e intitolato a Santo Stefano; anche di esso – nel quale la tradizione vuole sia stato battezzato lo stesso Ambrogio, nel 374 – non ci sono giunti che pochi resti resti sotterranei (in questo caso non visitabili) del perimetro irregolare.

    Il battistero ambrosiano di San Giovanni faceva capo alla cosiddetta Basilica nova (poi chiesa di Santa Tecla), oggi perduta se non per pochi resti. Santa Tecla fu senz’altro la più imponente architettura del complesso: lunga quasi 70 metri, aveva ben cinque navate ed era ornata anch’essa con mosaici e incrostazioni marmoree. Fu distrutta nel xv secolo per ampliare la piazza della cattedrale, e la sua parte sinistra fu riutilizzata per costruire il monumentale porticato gotico noto come Coperto dei Figini, abbattuto a sua volta a fine Ottocento per la costruzione della Galleria Vittorio Emanuele ii. Ne restano, oggi, pochi frammenti sotterranei: le fondazioni dell’abside sotto il sagrato della cattedrale e alcuni brani di pavimento a mosaico sistemati in dimenticate vetrinette nella stazione Duomo della Metropolitana. Proprio gli scavi della Linea 1, condotti negli anni ’60 del secolo scorso, sono stati quelli che hanno permesso una ricostruzione esatta dell’antica struttura; purtroppo sono stati anche la causa della sua quasi totale distruzione.

    5. San Nazaro, il santuario degli Apostoli

    Sita in corso di Porta Romana, la basilica di San Nazaro è stata fondata nel 382 da sant’Ambrogio come Basilica Apostolorum, per custodirvi le reliquie dei santi Pietro e Paolo. La chiesa era parte del vasto programma edilizio dell’arcivescovo, che aveva fatto costruire, fuori dalle mura, quattro grandi basiliche ai punti cardinali della città, quasi come dei bastioni spirituali a difenderla dal paganesimo e dall’eresia. Oltre alla chiesa dedicata agli Apostoli, c’erano la Basilica Martyrum (poi divenuta Sant’Ambrogio), la Basilica Virginum (in seguito San Simpliciano) e infine la Basilica Prophetarum (poi San Dionigi; distrutta nel xvi secolo con la costruzione dei bastioni di Porta Orientale). Anche se la Basilica Apostolorum non era la maggiore come dimensioni, essa occupava la posizione forse più importante dal punto di vista logistico, collocandosi sulla strada per Roma, in un contesto all’epoca veramente monumentale, di cui non rimane nulla, salvo pochi resti nei sotterranei di piazza Missori, presso la stazione della linea 3 della Metropolitana. La chiesa si affacciava infatti (forse con la mediazione di un piccolo atrio) su una scenografica strada porticata lunga circa 600 metri, circondata da edifici con botteghe e chiusa da uno spettacolare arco trionfale, sul modello di quelli romani. Il monumentale complesso, che voleva quasi tracciare un ideale collegamento con la Città Eterna, dalla quale Mediolanum ereditava il ruolo di capitale dell’Impero, si deve probabilmente all’età di Graziano (367-383), primo imperatore che, proprio sotto l’influsso di Ambrogio, fece del cristianesimo la religione di Stato, rinunciando al tradizionale titolo di pontifex maximus, che da quel momento divenne prerogativa del vescovo di Roma. Se la via porticata fu distrutta abbastanza presto (sicuramente non esisteva più nel vi secolo), l’arco trionfale (che era collocato dove oggi è il Teatro Carcano) sopravvisse invece fino al xii secolo, quando, trasformato in una potente struttura difensiva, ebbe un ruolo strategico importantissimo nell’assedio milanese di Federico Barbarossa, nel 1158. Proprio la sua nuova importanza militare, quindi, fu la causa della sua distruzione.

    L’impianto originale della Basilica Apostolorum (primo esempio in Occidente della pianta a croce latina) era estremamente lineare, presentando un’aula a navata unica e terminazione piatta, sormontata da una copertura piana a tetto; ogni braccio del transetto si apriva in due absidi laterali anticamente decorate da mosaici, oggi perduti. Si tratta di una versione semplificata della basilica dei Santi Apostoli a Costantinopoli, luogo di sepoltura degli imperatori. Le coperture a volte e il tiburio sono esito di un rifacimento del xi secolo; un tempo l’abside principale della basilica era decorata con un mosaico raffigurante una grande croce su fondo oro (perduto, così come il ciborio medievale, che doveva un tempo ricordare quello di Sant’Ambrogio; quest’ultima struttura è stata sostituita da un fastoso altare barocco a colonne tortili). Scomparsa la preziosa ornamentazione originaria, l’interno si presenta nella spoglia e robusta veste romanica, frutto anche di un restauro che ha scrostato i successivi rifacimenti barocchi e neoclassici. L’interno si presenta quindi asciutto e sobrio come forse non era mai stato durante la sua storia; tra le opere d’arte si notano un bell’affresco duecentesco con Cristo e la Maddalena, la pala cinquecentesca con il Battesimo di Gesù, di Bernardino Lanino (1546) e due capolavori del tardo manierismo lombardo: le monumentali ante d’organo del pittore cremasco Giovanni da Monte e la bella Madonna del serpe del milanese Ambrogio Figino, qui recentemente spostata da Sant’Antonio

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