Apologia del Buddismo
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Anteprima del libro
Apologia del Buddismo - Carlo Formichi
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Intro
«Questo saggio del 1923 vuole dissipare i pregiudizi, i fraintendimenti, le calunnie che si riversavano allora sul Buddismo. Ne evidenzia l’efficacia morale, il positivo influsso che può avere sulla società, la capacità di fornire conforto agli esseri umani» ( Catia Righi). In questa edizione il testo è stato interamente controllato nella forma e prudentemente revisionato.
APOLOGIA DEL BUDDISMO
La misura del valore di una religione
Un grande poeta inglese ha detto: «Tutte le religioni sono buone le quali fanno buoni gli uomini; ed il modo in cui un individuo dovrebbe provare che il suo metodo di venerare Dio è il migliore, è di essere lui stesso migliore di tutti gli altri uomini».
Questa sentenza dello Shelley è inoppugnabile. A che valgono codici di sublimi precetti, templi sontuosi ed eletti riti, se lasciano cattivo l’uomo come lo trovano? In tanto un cristiano è superiore ad un maomettano in quanto, venuti entrambi alla resa dei conti morali, il primo può vantare di faccia al secondo, tante più opere buone, tanta più umanità e carità, maggiore sentimento del dovere e spirito d’abnegazione, e via dicendo. Per la bontà d’una religione altra pietra di paragone non c’è.
Vero è che una religione può guardarsi da vari altri aspetti. L’elemento morale è certamente il più importante, ma non è il solo. In questo doloroso passaggio transitorio che è la vita, benemerita indubbiamente quella religione che offre all’uomo una speranza, un conforto, un sostegno! Tanto più che l’uomo non sa, non può esser buono, se non vede la luce d’un faro, la promessa d’un guiderdone, una meta radiosa. Una religione pessimistica, sconsolata, non è una religione. Se non che, c’è modo e modo di far brillare le ricompense agli occhi degli uomini avidi di conforti religiosi. Nulla è più facile di promettere. La questione è che le promesse non siano fallaci, né che nel farle s’indulga alle passioni umane, si alimentino vane illusioni, si veli o si calpesti il vero, si venga in conflitto con la scienza.
E finalmente per quanto sublime, è deleterio quel credo che favorisce le tendenze antisociali, minaccia il disgregamento dello Stato, o in qualsiasi modo, lo indebolisce, ed invece di promuovere, ritarda o addirittura annulla il progresso consistente nella conquista dei maggiori elementi possibili per il benessere materiale dei popoli e delle nazioni. Non è lecito che l’uomo sacrifichi il di qua per il di là, o per lo meno, può esser lecito a lui come singolo individuo, ma giammai come rappresentante della collettività. Le esigenze della vita degli umani sulla terra impongono limitazioni anche là dove sembrerebbe che limitazioni non dovessero esserci, e solo agli dèi è concesso d’essere infinitamente buoni. Dice Shakespeare: la bontà che fa degli dèi gli dèi, è sempre la rovina degli uomini.
Saggiamo ora il Buddismo da questi quattro punti di vista per determinare:
1° la sua efficacia morale;
2° la somma di conforto religioso che offre agli uomini;
3° le sue relazioni con la scienza;
4° se e quanto è compatibile con le esigenze della società e dello Stato.
Importa, però, avvertire che quando noi si parla di Buddismo ci si vuol riferire a quell’insieme di precetti religiosi proclamati dal Budda nel sesto secolo prima dell’era nostra, tramandatici nei testi canonici in pâli e in buona parte di quelli in sanscrito, vigenti sostanzialmente ancora oggi nel mondo buddistico di Ceylon, studiati e vagliati scrupolosamente dai pâlisti e sanscritisti europei. Al pari d’ogni altra religione, il Buddismo è andato nel corso dei secoli frazionandosi in sette, trasformandosi e degenerando in modo da non essere più riconoscibile da quello delle sue pure origini. Valersi di tutti questi seriori tralignamenti per mettere in cattiva luce il Buddismo può essere effetto d’ignoranza, ma più spesso di mala fede. La discussione diventa allora impossibile, e resta solo impugnare l’arma della rappresaglia ed ai tralignamenti buddistici che altri rinfaccia, rinfacciare i tralignamenti della religione del poco equanime e provocante avversario.
L’efficacia morale del Buddismo
La gloria maggiore del Buddismo è nella persona del suo fondatore. Su questo punto il consenso è universale. Un’eccelsa, quasi divina, figura, che sfida tempo e spazio ed estorce rispetto e ammirazione anche dai più renitenti, è il giovane principe degli Çâkya del quale, non già la leggenda, ma la storia narra che nella pienezza dei godimenti sensuali e delle lusinghe del potere e della gloria, intuì il dolore mondiale, provò un palpito potente di commiserazione, arse d’amore per tutti gli esseri in guisa tale che la fiamma dette luce, il fervore del sentimento si convertì in fulgore di pensiero creando il più perfetto connubio che sia mai stato di cuore e di cervello. Lucere et ardere perfectum est ha detto San Bernardo: è quello che fece il Budda. Salvo che egli prima arse e poi splendette, sicché noi, tanto lontani da lui, ne vediamo la luce, ma non ne sentiamo il calore. Sarà perciò lecito dubitare del suo calore? Vorremo credere che le stelle non siano fuoco unicamente perché non ci riscaldano?
Che cosa riluce che prima non arda?
Siddhârtha, il giovane principe degli Çâkya, abbandonò la reggia per una cella d’eremita, fuggì via dai genitori, dalla consorte e dal figliuolo per meditare nella solitudine, prestare orecchio di docile discepolo agli insegnamenti delle più reputate scuole filosofiche dei suoi tempi, sottoporsi ai più audaci digiuni e cilizi nell’illusione che macerando la carne potesse lo spirito meglio sfavillare. Dopo esser passato per tutte le lotte del dubbio, per tutte le esperienze più esasperanti della vana ricerca del vero e della sfiducia nella capacità del proprio intelletto a squarciare il velo del mistero delle cose, finalmente la verità gli si rivelò mentre stava seduto sotto un albero, tutti i dubbi svanirono, una pace ineffabile lo pervase che mai più l’abbandonò e della quale abbiamo ancora un ricordo in quel lieve sereno sorriso che illumina quasi tutte le più belle sue effigie marmoree a noi pervenute. Il resto della sua vita fu dedicato alla predicazione, a edificare e monaci e laici coll’esempio della purezza dei pensieri delle parole e delle azioni, con la pratica della tolleranza più benevola verso tutte le opinioni, col titanico incessante conato di trasformare il proprio cervello in una polla a getto continuo di pensieri profondi ed originali. A ottant’anni chiuse gli