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Il paradiso degli inadeguati: Massime di imperfezione spirituale
Il paradiso degli inadeguati: Massime di imperfezione spirituale
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E-book199 pagine2 ore

Il paradiso degli inadeguati: Massime di imperfezione spirituale

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Info su questo ebook

Dall'introduzione di Aurelio Porfiri:
Ho sempre creduto nell'importanza degli aforismi, delle massime spirituali, delle frasi che possono aiutarci a cambiare una prospettiva sulle cose materiali e su quelle spirituali. I medievali compilavano commentari a frasi di grandi autori spirituali e non. Ho voluto fare una cosa simile, commentando non solo frasi di autori spirituali, ma anche frasi di autori che magari non sono strettamente appartenenti ad un certo mondo religioso. Questo perché credo che da tutti si può imparare se si sa come guardare a certe cose.
Perché questo sono massime di imperfezione spirituale? Sappiamo che anticamente c'erano raccolte che guidavano alla perfezione spirituale. La mia vuole essere una presa di coscienza sul nostro essere peccatori ed imperfetti e quindi guidare ad una spiritualità pur nella nostra oggettiva imperfezione. Vuole suggerire una via al paradiso per gli inadeguati, coloro che come me ancora zoppicano sulla via della perfezione. Poi saprà Dio operare per la perfezione in alcune anime che a Lui si dirigono. Una spiritualità degli imperfetti è lo scopo di questo libro, che un poco prosegue il discorso già iniziato in Uscire nel mondo, un libricino che so aver colpito più di un lettore. Spero che anche in questo libro verrà trovato qualcosa di buono.
 
LinguaItaliano
EditoreChorabooks
Data di uscita27 feb 2022
ISBN9791221303926
Il paradiso degli inadeguati: Massime di imperfezione spirituale

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    Anteprima del libro

    Il paradiso degli inadeguati - Aurelio Porfiri

    Presentazione

    Prof. Marco Vannini

    Nei giorni in cui vengono buttate giù queste poche righe di Presentazione a questo libro, la stampa informa della prossima chiusura della basilica di Superga per mancanza di religiosi, e, insieme, della pubblicazione di video oscenamente blasfemi da parte di noti canali mediatici – due sole notizie, tra le tante, che testimoniano della scristianizzazione del nostro mondo, ovvero della società cosiddetta occidentale.

    Questa constatazione, peraltro ormai ovvia, è almeno in parte bilanciata da quella sulla crescita della diffusione del cristianesimo in continenti diversi dall’Europa (e dall’ America del Nord), ma a parere di chi scrive non si tratta tanto di un problema quantitativo, ma di un problema soprattutto qualitativo. Quelle che Teilhard de Chardin chiamava le nuove Indie, ossia la Francia e l’ Occidente in generale, sono certamente minoritarie quanto a popolazione rispetto ad altre nazioni e continenti, ma non lo sono affatto per il peso scientifico, culturale, e dunque anche religioso.

    Un po’ semplificando, per brevità, si può dire che l’atteggiamento della Chiesa di fronte a questa realtà è duplice, e in certo senso opposto. Da una parte, infatti, c’è una chiusura autoreferenziale, mettendo da parte scienza, storia, filologia, come se la cultura contemporanea fosse sempre quella dei tempi di Dante (non a caso ampiamente sfruttato nell’occasione del suo centenario) e la sfera della credenza e della devozione esaurisse la realtà del cristianesimo. Questo è possibile farlo in quanto, come notava Simone Weil, la fede produce le verità in cui crede, e così trova in se stessa la propria giustificazione. In tal modo resta però confinata nel particolare, non può porsi come verità universalmente valida, e trova il suo spazio, anche di diffusione, solo nell’ambito della consolazione degli afflitti – poveri, malati, emarginati, ecc. Non a caso si propone essenzialmente come carità, solidarietà sociale, non solo locale, ma anche a livello planetario , come la difesa della natura. Tutto ciò, intendiamoci bene, è nobile e bello, solo che non ha bisogno del cristianesimo: la carità, notava giustamente Lutero, ce l’avevano anche i pagani (e, oggi, ce l’hanno anche non cristiani).

    Da un’altra parte, v’è nella Chiesa un’apertura totale alla modernità, e in particolare all’ideologia del progresso – il concetto più stupido ed insieme ateo che si possa immaginare, notava sempre Simone Weil – in nome del quale la religione va accattando l’appoggio delle sedicenti scienze umane, così come qualche decennio addietro accattava quello del marxismo. Così oggi si tenta di mettere insieme fede cristiana e psicanalisi (anni fa Freud, ora soprattutto Lacan), rendendo la prima bisognosa della seconda, cui viene affidato un ruolo ormai arcontico nella conoscenza dell’anima – anzi, pardon, della psiche. In questo ambito , la tradizione teologica è liquidata come cosa del passato, in una sostanziale secolarizzazione del cristianesimo. Anche se non viene esplicitamente detto, è ovvio che in questo ambito non ha senso parlare di peccato originale, di redenzione, di un Cristo figlio di Dio e Dio stesso: tutto ciò è visto solo come un mito. È interessante notare come il sintagma Gesù ebreo, molto diffuso dopo la pubblicazione di un libro dall’omonimo titolo, può essere inteso con due significati, profondamente dissimili l’uno dall’altro. In un caso, infatti, si tratta di un’ovvietà: è chiaro che Gesù era ebreo, e quindi anche pensava in conformità alle idee e ai costumi del suo popolo e del suo tempo; ma non è questo il significato che conta. Quello che conta è un altro, ben più rilevante, significato: infatti con il sintagma Gesù ebreo si vuol dire che egli non fu altro che uno dei tanti profeti ebraici, che parlava di un regno di Dio da costruire in terra, come società giusta , forse un po’ diverso da essi, ma neppur tanto, poi, e comunque soltanto questo. Restringerlo alla sua dimensione ebraica significa infatti negarne l’universalità e soprattutto la divinità – il che significa né più né meno che dare congedo alla religione cristiana tradizionale.

    Ora, non v’è dubbio che nella teologia contemporanea questa opinione sia largamente diffusa – anzi, a parere di chi scrive queste righe, assolutamente predominante, per quanto non espressa apertis verbis per non turbare la credenza dei semplici, dei quali v’è bisogno per la sussistenza stessa dell’istituzione ecclesiastica – e perciò predomina l’atteggiamento di accordo con la modernità, col progresso, con le scienze umane, ecc. Sottolineiamo, del resto, che è onestamente impossibile ignorare i dati che dalla cultura contemporanea provengono, anche per quanto concerne il settore specifico della storia religiosa.

    Il breve spazio di questa Presentazione non consente certo di sviluppare e neppure di argomentare quanto appena accennato - una realtà storica che ha, come ovvio, le sue ragioni per esser nata e per sostenersi. Sta di fatto, comunque, che la situazione del cristianesimo del nostro tempo, nelle nostre società, sia profondamente in crisi, stretta come è tra queste tendenze, tanto contrastanti tra di loro da generare spesso una vera e propria reciproca ostilità.

    Mi sembra perciò che questo ultimo lavoro di Aurelio Porfiri, composto di una serie di riflessioni, svolte dialogando con importanti figure religiose del passato e/o del presente, sia particolarmente apprezzabile non solo per la qualità delle singole pagine, ma anche e soprattutto per l’equilibrio tra tradizione e modernità che l’Autore cerca di mantenere, nel difficile tentativo di indicare, sia pure in tutta modestia , un futuro possibile alla cristianità contemporanea.

    Introduzione

    Ho sempre creduto nell'importanza degli aforismi, delle massime spirituali, delle frasi che possono aiutarci a cambiare una prospettiva sulle cose materiali e su quelle spirituali. I medievali compilavano commentari a frasi di grandi autori spirituali e non. Ho voluto fare una cosa simile, commentando non solo frasi di autori spirituali, ma anche frasi di autori che magari non sono strettamente appartenenti ad un certo mondo religioso. Questo perché credo che da tutti si può imparare se si sa come guardare a certe cose.

    Perché questo sono massime di imperfezione spirituale? Sappiamo che anticamente c'erano raccolte che guidavano alla perfezione spirituale. La mia vuole essere una presa di coscienza sul nostro essere peccatori ed imperfetti e quindi guidare ad una spiritualità pur nella nostra oggettiva imperfezione. Vuole suggerire una via al paradiso per gli inadeguati, coloro che come me ancora zoppicano sulla via della perfezione. Poi saprà Dio operare per la perfezione in alcune anime che a Lui si dirigono. Una spiritualità degli imperfetti è lo scopo di questo libro, che un poco prosegue il discorso già iniziato in Uscire nel mondo, un libricino che so aver colpito più di un lettore. Spero che anche in questo libro verrà trovato qualcosa di buono.

    A ciascun giorno basta la sua pena

    Lo sport preferito di questi tempi di pandemia e di chiusura forzata dentro casa è quello di prevedere cosa faremo dopo, e ci affanniamo nel cercare soluzioni per i problemi che certamente ci cadranno addosso. Ma del resto questo è un atteggiamento che noi abbiamo per tutte le cose della nostra vita, viviamo sempre nel futuro e nel passato per timore, anzi per paura di affrontare il presente. Perché c’è una differenza fra timore e paura, essendo il primo un giusto atteggiamento di fronte alla maestà divina mentre la paura a volte può sfociare in un panico continuo, che è un poco quello che possiamo osservare.

    Ecco che ci viene in soccorso una frase di Gesù, che ci dice a ciascun giorno basta la sua pena. Questa frase è nel contesto di un passaggio nel vangelo di Matteo (6, 25-34) che dice come segue: Perciò vi dico: per la vostra vita non affannatevi di quello che mangerete o berrete, e neanche per il vostro corpo, di quello che indosserete; la vita forse non vale più del cibo e il corpo più del vestito? Guardate gli uccelli del cielo: non seminano, né mietono, né ammassano nei granai; eppure il Padre vostro celeste li nutre. Non contate voi forse più di loro? E chi di voi, per quanto si dia da fare, può aggiungere un'ora sola alla sua vita? E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro. Ora se Dio veste così l'erba del campo, che oggi c'è e domani verrà gettata nel forno, non farà assai più per voi, gente di poca fede? Non affannatevi dunque dicendo: Che cosa mangeremo? Che cosa berremo? Che cosa indosseremo? Di tutte queste cose si preoccupano i pagani; il Padre vostro celeste infatti sa che ne avete bisogno. Cercate prima il regno di Dio e la sua giustizia, e tutte queste cose vi saranno date in aggiunta. Non affannatevi dunque per il domani, perché il domani avrà già le sue inquietudini. A ciascun giorno basta la sua pena. Eppure noi sappiamo come questo atteggiamento pagano sia veramente il più comune nella nostra società. Viviamo nel futuro o nel passato ma proprio non riusciamo a vivere nel momento presente.

    A ciascun giorno basta la sua pena, perché noi in realtà non sappiamo cosa ci riserva il futuro e spesso rischiamo di renderlo negativo per le aspettative negative nostre che proiettiamo. È come quella persona che è sempre convinta di stare male, che presto avrà una malattia devastante, e che con le sue paure comunque fa ammalare veramente il suo corpo, in definitiva realizzando poi la sua previsione! Cioè si è causata il problema che aveva predetto. Ma non è l’unico caso, ce ne sono molti. Questo non significa che non dobbiamo usare prudenza nel provvedere per le nostre future necessità ma dovremmo cercare prima di tutto di vivere radicati in quello che siamo ora per poi proiettarci in quello che saremo e rivederci in quello che siamo stati. Perché anche il passato deve servirci per vivere più pienamente hic et nunc, non semplicemente per ricostruire quello che è accaduto, secondo il desiderio forse irrealizzabile dello storico tedesco Leopold von Ranke.

    Don Luigi Maria Epicoco così commenta il passaggio di Matteo: Chi si pre-occupa è uno che vive sempre un passo in avanti rispetto la vita e quindi non ha tempo di gustare la vita. Chi si pre-occupa è uno che vive con l’ansia di cosa dovrà accadere e non con la gratitudine di ciò che accade. Dovremmo imparare un po' tutti a occuparci e a non a preoccuparci. Dovremmo tornare tutti un po' alla realtà e al presente. Chi si preoccupa non vede più il volto della moglie o del marito, dei figli o degli amici, del cielo azzurro o della splendente pioggia d’estate. Chi si preoccupa vede solo problemi da risolvere e non cose per cui comunque arrivare a sera grati. Chi si preoccupa non ha tempo di sorridere perché la vita è una cosa seria. E' così seria che ci sono giorni in cui uno si domanda se poi valga davvero la pena vivere così. Ha ragione allora Gesù a ricordarci una cosa semplice: Non preoccupatevi dunque del domani, perché il domani si preoccuperà di se stesso. A ciascun giorno basta la sua pena. E ogni giorno ha la sua grazia. Guardate che è difficile vivere il momento presente, è forse una delle cose più complicate e che più mostrano l’imperfezione della nostra vita spirituale. Ma la scalata alla montagna che è Dio si compie con una infinità di passi nel momento presente. Ma noi abbiamo paura di affidarci a Dio, abbiamo tutti paura di questo, io per primo. Benedetto XVI nell’udienza generale del 24 ottobre 2012 diceva: La fede è credere a questo amore di Dio che non viene meno di fronte alla malvagità dell’uomo, di fronte al male e alla morte, ma è capace di trasformare ogni forma di schiavitù, donando la possibilità della salvezza. Avere fede, allora, è incontrare questo «Tu», Dio, che mi sostiene e mi accorda la promessa di un amore indistruttibile che non solo aspira all’eternità, ma la dona; è affidarmi a Dio con l’atteggiamento del bambino, il quale sa bene che tutte le sue difficoltà, tutti i suoi problemi sono al sicuro nel «tu» della madre. E questa possibilità di salvezza attraverso la fede è un dono che Dio offre a tutti gli uomini. Penso che dovremmo meditare più spesso - nella nostra vita quotidiana, caratterizzata da problemi e situazioni a volte drammatiche –sul fatto che credere cristianamente significa questo abbandonarmi con fiducia al senso profondo che sostiene me e il mondo, quel senso che noi non siamo in grado di darci, ma solo di ricevere come dono, e che è il fondamento su cui possiamo vivere senza paura. E questa certezza liberante e rassicurante della fede dobbiamo essere capaci di annunciarla con la parola e di mostrarla con la nostra vita di cristiani". E questo dono lo continuiamo a rifiutare perché preferiamo vivere nella paura. Preferiamo essere schiavi di noi stessi.

    La verità vi farà liberi

    Viviamo in un mondo in cui mostrare una facciata di comodo è spesso l’unico modo di sopravvivere, a volte è anche necessario. Non sempre siamo nelle condizioni di poter dire esattamente quello che pensiamo, senza il timore che le nostre parole possano causare più danni di quelli che intendono risolvere. Eppure il rischio di comportamenti del genere è molto elevato, in quanto a volte cominciamo a vivere in una realtà quasi parallela, in una realtà di finzione che a noi sembra quasi reale. Quante persone vivono nella finzione, quante persone si costruiscono un mondo comodo protetti (o almeno così loro credono) da titoli accademici, prestigio mondano, autorità e potere. Eppure ci viene detto che la verità vi farà liberi. Siamo qui nel vangelo di Giovanni 8, 31-42: Gesù allora disse a quei Giudei che avevano creduto in lui: «Se rimanete fedeli alla mia parola, sarete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi». Gli risposero: «Noi siamo discendenza di Abramo e non siamo mai stati schiavi di nessuno. Come puoi tu dire: Diventerete liberi?». Gesù rispose: «In verità, in verità vi dico: chiunque commette il peccato è schiavo del peccato. Ora lo schiavo non resta per sempre nella casa, ma il figlio vi resta sempre; se dunque il Figlio vi farà liberi, sarete liberi davvero. So che siete discendenza di Abramo. Ma intanto cercate di uccidermi perché la mia parola non trova posto in voi. Io dico quello che ho visto presso il Padre; anche voi dunque fate quello che avete ascoltato dal padre vostro!». Gli risposero: «Il nostro padre è Abramo». Rispose Gesù: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo! Ora invece cercate di uccidere me, che vi ho detto la verità udita da Dio; questo, Abramo non l'ha fatto. Voi fate le opere del padre vostro». Gli risposero: «Noi non siamo nati da prostituzione, noi abbiamo un solo Padre, Dio!». Disse loro Gesù: «Se Dio fosse vostro Padre, certo mi amereste, perché da Dio sono uscito e vengo; non sono venuto da me stesso, ma lui mi ha mandato. Il dialogo fra Gesù e

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