Ladra di cuori: Harmony Collezione
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Diana Hamilton
Prolifica autrice inglese, adora la bellissima villa in stile Tudor in cui vive con il marito.
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Anteprima del libro
Ladra di cuori - Diana Hamilton
Titolo originale dell’edizione in lingua inglese:
The Italian’s Marriage Demand
Harlequin Mills & Boon Modern Romance
© 2005 Diana Hamilton
Traduzione di Anna Vassalli
Questa edizione è pubblicata per accordo con
Harlequin Books S.A.
Questa è un’opera di fantasia. Qualsiasi riferimento a fatti o
persone della vita reale è puramente casuale.
Harmony è un marchio registrato di proprietà
HarperCollins Italia S.p.A. All Rights Reserved.
© 2007 Harlequin Mondadori S.p.A., Milano
eBook ISBN 978-88-3051-845-2
1
«Grazie tante!» sibilò Sophie rivolta alle luci posteriori di un camion che l’aveva inzaccherata dalla testa ai piedi d’acqua gelida e fangosa. L’ansia che già la tormentava aumentò. Se non si fosse sbrigata ad attraversare quella dannata strada sarebbe arrivata tardi a Finsbury Circus.
La sera precedente, in seguito alla sua frenetica telefonata Tim, pur accettando di offrirle un tetto finché non avesse risolto in qualche modo la situazione, aveva ribadito di aver soltanto mezz’ora di tempo, alla pausa pranzo, per accoglierla in casa. E un quarto d’ora era già passato.
L’agitazione raggiunse il livello di guardia. Se la padrona di casa di nanny Hopkins non fosse arrivata in ritardo per prendere in consegna le chiavi e l’ultima settimana di affitto, avrebbe raggiunto la casa di Tim comodamente. Ma così...
Pronta ad approfittare della minima interruzione nel flusso dei veicoli, Sophie trasse un profondo respiro e ripensò alle parole che usava ripetere la cara vecchia signora quando la situazione, come ultimamente succedeva a lei, andava di male in peggio: «Guarda al lato positivo, bambina mia. Ne troverai sempre uno».
I sermoni domestici di nanny Hopkins erano sempre prevedibili, ma anche dannatamente giusti. Così Sophie si sforzò di rilassare le spalle cercando di convincersi che le cose non erano poi così male. Se non altro il piccino di sette mesi e i suoi pochi averi erano all’asciutto nella carrozzina, un pezzo d’epoca che avrebbe richiamato lo sguardo sbalordito dei passanti se non fossero stati impegnati a evitare le pozzanghere e gli scrosci d’acqua di quella cupa giornata di fine gennaio.
Se poi Tim non avesse fatto in tempo a riceverla, avrebbe sempre potuto trovare un modesto bar dove lei e il piccino sarebbero stati all’asciutto, davanti a una tazza di tè, aspettando il suo ritorno dal lavoro. No, non era un problema. O almeno, non un grosso problema. L’importante era che lei e il bambino avessero un posto dove abitare mentre si dava da fare alla ricerca di un impiego senza doversi presentare, con il cappello in mano, ai Servizi Sociali.
La speranza di un’interruzione nella corrente di traffico si faceva sempre più esigua. Frustrata, Sophie si rese conto che avrebbe dovuto percorrere tutta la strada, fino alla fine, per trovare un passaggio pedonale proprio ora, quando i minuti per lei erano preziosi. Quindi, che le piacesse o meno, si apprestò a far fare inversione di marcia alla carrozzina, che peraltro pareva di opinione diversa, finché si trovò la via sbarrata da un lampione.
Serrando le labbra per lo sforzo, mentre era intenta a far arretrare la carrozzina, scivolò e cadde ignominiosamente a terra.
Udì a malapena lo stridio dei freni nell’orecchio ed ebbe la fugace visione di una macchina color argento che le sfrecciava a pochi centimetri dal viso bianco come il gesso.
Sarebbe potuta restare uccisa, oltre a essere senza casa e senza prospettive di lavoro. In quel caso cosa sarebbe successo al bimbo? Un singhiozzo si bloccò in gola. Non serviva rimuginarci sopra. Perché era stata tanto sciocca? Come madre e punto di riferimento non valeva proprio niente.
Ettore Severini s’immise nel traffico con la Mercedes d’argento in una manovra esperta ed elegante. Per quel giorno gli impegni d’affari si erano conclusi in modo soddisfacente. Come al solito.
Aveva il pomeriggio libero. Poi due altri giorni a Londra, quindi di ritorno alla base, a Firenze, tra le braccia di una precoce, anche se falsa, primavera. Ma non aveva importanza. Quel che contava era liberarsi da quella continua pioggia e da quel cielo grigio opprimente.
Cinque giorni di negoziati intensi, cene d’affari, riunioni ad alto livello al quartier generale londinese della banca della famiglia Severini non erano riusciti a dargli la soddisfazione, propria di un lavoro portato a termine con successo.
Non si sentiva stanco. Non era mai stanco; la sua resistenza era leggendaria. E allora? Vuoto? Come se qualcosa d’indefinito mancasse alla sua vita dorata. Corrugò la fronte strizzando contemporaneamente gli occhi. Non sopportava le introspezioni negative, rifiutava di perdere tempo con quelle sciocchezze.
Buon Dio, non aveva tutto ciò che la vita può offrire? Trentasei anni, sano e pieno di forza, una ricchezza leggendaria e da quattro anni, da quando era morto suo padre, era l’indiscussa forza motrice della banca di famiglia. Era stato persino, con suo gran divertimento, definito il genio della finanza. Inoltre aveva un mazzo di belle donne tra cui scegliere, oltre a una fidanzata che acconsentiva a chiudere gli occhi purché si decidesse a fissare la data per quello che sarebbe stato un matrimonio di consolidamento di dinastie.
Una vita che chiunque gli avrebbe invidiato. Allora, cosa diavolo gli mancava?
Niente!
Tornato nell’appartamento londinese avrebbe fatto una doccia e si sarebbe aperto una bottiglia di Brunello di Montalcino ascoltando della musica.
Verdi? Sì, decisamente. Si sarebbe lasciato trasportare dalla musica in Toscana, ai cipressi che ombreggiavano le strade assolate, alla verde frescura degli Appennini, agli ulivi, al brusio delle api tra i cespugli. E quella strana sensazione d’insoddisfazione sarebbe evaporata.
Rilassò le mani sul volante. Il traffico era intenso, il frastuono dei clacson e gli schizzi di fango provocati dai veicoli potevano essere motivo di depressione per chi gliel’avesse permesso.
Un’altra immagine deprimente, pochi metri avanti, era offerta da uno di quegli esseri sfortunati. Una figura infagottata in una sorta d’impermeabile, un vecchio berretto di lana calcato sulla testa, che lottava con un’antiquata carrozzina che, evidentemente, conteneva le sue misere cose. Dal corpo goffo e dalla statura dedusse che dovesse essere una donna.
Il traffico costringeva a una frustrante velocità di dieci all’ora. Ettore inchiodò i freni nel momento in cui la misera figura inciampò e cadde in avanti, planando proprio davanti al cofano della sua macchina.
Imprecando tra i denti balzò dalla vettura, indifferente allo strombazzare dei clacson. Aveva urtato quella creatura patetica? Non gli sembrava... Avrebbe sentito l’impatto. Tuttavia...
Con due passi decisi si portò davanti al cofano. Lei era ancora seduta dov’era caduta, nella melma, insieme a tutte le sue cianfrusaglie, la schiena rivolta verso di lui, la testa china. Una ciocca di capelli biondi fradicia di pioggia le era sfuggita dal berretto. Sì, era decisamente una donna.
Quando le posò delicatamente una mano sulla spalla chiedendole: «Si è fatta male?», lei balzò in piedi come se le fosse esplosa accanto una bomba, aggrappandosi freneticamente alla carrozzina.
Una piccola folla si era raggruppata, ma vedendo la vittima in piedi, presumibilmente sana e salva, perse interesse e si dileguò.
«Aspetti.» Se aveva visto giusto e si trattava di una persona senza fissa dimora, come suggerivano le apparenze, come minimo avrebbe dovuto darle denaro sufficiente per un buon pasto e un tetto per la notte. «Si deve essere spaventata...»
Le mani ferme sulle sue spalle, la costrinse a voltarsi mentre calcolava mentalmente quante sterline aveva nel portafoglio. Un paio di centinaia. Sarebbe stato sufficiente?
Il lieve cipiglio si mutò in un’espressione corrucciata appena lei sollevò il viso cinereo. Il cuore diede un balzo, poi parve sprofondare. Dio mio!
La voce era glaciale quando alla fine riuscì a ritrovarla. «Sophie Lang, per tutti i diavoli! In mezzo al fango, al quale appartieni!»
Ettore rimpianse subito la frase pronunciata a denti stretti. Insultare quella persona indegna era solo uno spreco di fiato. E cosa indicava quell’istintivo scoppio d’ira? Che quell’incantevole creatura che l’aveva stregato, rivelandosi poi una ladra abbietta, era ancora al centro dei suoi pensieri?
Assolutamente no. Come sarebbe stato possibile? L’aveva asportata dal cuore e dalla mente con precisione chirurgica, circa un anno prima.
Sophie non sarebbe stata in grado di pronunciare neppure una parola, anche se ne fosse andato della sua vita. Un attimo prima una mano sulla spalla, una voce che diceva qualcosa l’aveva risvegliata dall’immobilità dello shock. Ma ora ogni briciola di energia si era prosciugata di nuovo, lasciandola accasciata come un cavolo bollito.
Lui! A Londra! L’ultimo uomo che avrebbe voluto vedere, per doverlo inserire di nuovo nella banca dati della memoria dalla quale l’aveva cancellato. Affascinante come di consueto, le gocce di pioggia che rilucevano sul cappotto di cachemire firmato, i capelli neri soffici come la seta, e la bocca che prometteva il paradiso... una bocca per la quale si poteva morire.
Respirava a stento sotto quello sguardo distante e inquisitore, il viso in fiamme che poi impallidiva.
Aveva gli occhi cerchiati, notò Ettore con indifferenza. La bocca era scossa da un tremito. Per lo shock dello scampato incidente? O per qualcos’altro? Era comunque illesa.
Soffocando un’imprecazione, Ettore si disse che il suo aspetto non lo riguardava. Se era ridotta alla disperazione, magari era stata anche appena scarcerata – non tutte le vittime erano generose come lui – e di questo non poteva che dare la colpa a se stessa.
La convinzione ben radicata in mente, si stava voltando per salire in macchina quando un lamento emerse dalla profondità di quell’indegna carrozzina. Con un sopracciglio arcuato, guardò Sophie che si chinava e ne estraeva un fagottino avvolto in uno scialle per poi cullarlo stretto contro il cuore. L’espressione tenera che le comparve sul viso riportò momentaneamente l’antica bellezza che un tempo l’aveva incantato.
Per la verità ricordava l’impressione favorevole che aveva avuto osservandola con i gemelli di Flavia, che trattava con fermezza ma anche con profondo affetto.
Una bambinaia eccellente, pur riluttante questo doveva riconoscerglielo. «Non capisco come il tuo attuale datore di lavoro non si possa permettere qualcosa di meglio» osservò acido dando un’occhiata alla carrozzina, «sembra che provenga da un rigattiere.»
Ruotò sui tacchi, le mani affondate nelle tasche del cappotto di cachemire. Il bimbo ora si era quietato, la testolina posata sul collo di Sophie.
Lui osservò quel viso prendere colore, le ciglia lunghe che celavano lo sguardo.
«Non lavoro più, come bambinaia. E, immagino, tu ne conosca perfettamente il motivo, signore.» Il tono era formale. «Torry è mio figlio.»
E anche il tuo, aggiunse mentalmente, ma niente l’avrebbe indotta ad ammetterlo a voce alta.
«Ora...» Fece un cenno verso la carrozzina, «devo proprio andare. Sono già in ritardo.»
«Dove vai?»
Si era alzato un vento gelido e la pioggia cadeva più fitta che mai. Lei aveva il viso smagrito, pallido. Sull’isola, la pelle aveva un colore sano e col sole