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Sognavo un pc e un tailleur, ora desidero una planetaria e le infradito
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E-book230 pagine3 ore

Sognavo un pc e un tailleur, ora desidero una planetaria e le infradito

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Info su questo ebook

Giulia è una giovane donna laureata in Scienze umanistiche che si ritrova quasi per caso a lavorare in un’agenzia per il lavoro.

Dopo i primi anni di entusiasmo e fervore, con l’arrivo della crisi del mercato del lavoro nel 2009, Giulia inizia ad interrogarsi sul ruolo delle agenzie per il lavoro nella società e sull’efficacia del loro operato per chi cerca occupazione. La protagonista deve prendere una delle decisioni più difficili della sua vita e vive un conflitto interiore doloroso senza riuscire a decidere se ascoltare il cuore o la mente: la vera pazzia è cambiare o non cambiare affatto?

Negli stessi anni parenti e amici vivono situazioni lavorative difficili e, attraverso il racconto delle loro storie, il libro vuole scattare una fotografia del mondo del lavoro oggi in Italia. I temi trattati sono tanti: i risvolti psicologici della perdita di un impiego, il coraggio di chi decide di mettersi in gioco e percorrere strade non convenzionali seguendo le proprie passioni, la grande difficoltà di intraprendere un nuovo percorso professionale poiché non c’è la volontà da parte delle aziende di formare il personale, fenomeni come il licenziamento collettivo e la delocalizzazione, la legge Fornero e gli esodati, il confronto tra diplomati e laureati, la nuova questione femminile.

Il filo conduttore del libro è che il lavoro è un diritto e non si può scegliere la soluzione meno svantaggiosa: occorre trovare una soluzione che rispetti e tuteli i lavoratori onesti garantendo loro la possibilità di crearsi un futuro e che, al tempo stesso, tuteli gli imprenditori da lavoratori sfaticati e sleali.
LinguaItaliano
Data di uscita19 nov 2019
ISBN9788831644556
Sognavo un pc e un tailleur, ora desidero una planetaria e le infradito

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    Anteprima del libro

    Sognavo un pc e un tailleur, ora desidero una planetaria e le infradito - Libera Arienti

    WILDE

    Prologo

    Era un sabato mattina di metà settembre. Giulia si era alzata presto, aveva steso i panni messi a lavare la sera prima, aveva fatto un po’ di esercizio fisico e una bella doccia calda e ora era sull’uscio della porta pronta a godersi uno dei suoi momenti preferiti del weekend: la colazione nel nuovo locale vegano aperto vicino a casa. Il Veg Cafè era una caffetteria nata dall’idea di un gruppo di amici che, per motivi diversi, si erano avvicinati a questo stile di vita e che avevano come obiettivo quello di presentare un’offerta vegana in un paese piccolo come quello di Giulia. 

    Il locale era molto luminoso e arredato in stile provenzale, con una saletta interna impreziosita da cuscini colorati e un bancone snack e libreria per il book-sharing. Quello era l’angolo di Giulia. Adorava sedersi sullo sgabello di legno decapato e leggere un buon libro mentre sorseggiava un cappuccino. Attraverso la vetrata che separava il bancone dalla strada esterna, Giulia osservava i passanti e inevitabilmente, senza volerlo, ripensava alle persone incontrate per lavoro quella settimana. In media ogni giorno ascoltava le storie di sei persone diverse tra di loro per età, istruzione, esperienze professionali, attitudini, competenze tecniche, sogni e aspettative. Questo era uno dei motivi per cui amava il suo lavoro: era interessante capire le motivazioni alla base della scelta di un giovane di seguire un corso di lingua cinese o araba ed era divertente sentire i racconti di chi aveva viaggiato molto e per un periodo aveva vissuto in paesi lontani e molto diversi dall’Italia per cultura e tradizioni. Negli ultimi anni purtroppo, complice la crisi nel mercato del lavoro, le storie di queste persone erano cambiate ed erano caratterizzate da licenziamenti, procedimenti di cassa integrazione, disoccupazione. Ogni sera Giulia portava a casa la storia di uno dei candidati incontrati in agenzia e la condivideva con il marito: non riusciva a dimenticare gli occhi di quelle persone che stavano affrontando un momento difficile a causa della mancanza di lavoro. Non lo concepiva, non era giusto e non era ammissibile. In particolare, quella mattina ripensava a un lavoratore che il giorno prima si era presentato in filiale chiedendo spiegazioni per la fine del contratto. Era un signore di cinquantacinque anni, padre di famiglia, muratore da trent’anni, che aveva accettato un contratto tramite agenzia di una settimana con la prospettiva di proseguire in caso di riscontro positivo da parte dell’azienda cliente. Aveva lavorato quaranta ore, era stato puntuale sul lavoro e si era sempre comportato in maniera corretta. Tuttavia, il cliente aveva deciso di non continuare la collaborazione: si era reso conto di avere bisogno di un muratore con maggiore esperienza nel restauro di immobili d’epoca e aveva lasciato a Giulia l’ingrato compito di comunicarlo al dipendente. Giulia era imbarazzata e faceva fatica a sostenere il suo sguardo triste e l’atteggiamento dimesso, ma la cosa che più l’aveva colpita erano state le sue parole prima di salutarla. «La prego, d’ora in avanti per qualsiasi comunicazione non utilizzi più l'indirizzo mail di Francesca ma mi chiami sul cellulare. Se ne ricordi, è importante» le aveva ripetuto più volte l’uomo.

    Tre settimane prima aveva inviato il suo CV utilizzando la mail della figlia e aveva autorizzato l’agenzia a utilizzare quell’indirizzo per tutte le comunicazioni del caso. Ora invece si preoccupava di non farle sapere che era stato lasciato a casa perché si vergognava e con molta probabilità le avrebbe tenuto nascosta la cosa ancora per un po’. Giulia era mortificata mentre gli stringeva la mano e gli prometteva di tenerlo presente per altre opportunità di lavoro. Quell’uomo poteva essere suo padre. 

    I suoi pensieri furono interrotti all’improvviso dal cameriere che le ricordò che era sabato e che doveva rilassarsi e liberare la mente. «Ciao Giulia, ti vedo pensierosa, come stai? Spero che la mia colazione riesca a tirarti su di morale perché il tuo sorriso è contagioso ed è un peccato non mostrarlo agli altri.» «Marco come farei senza di te? La brioche e il cappuccino hanno un aspetto invitante, mi sento già meglio, grazie!»

    Giulia fece un respiro profondo, chiuse gli occhi e addentò il suo croissant "Il sapore é ancora meglio dell’aspetto, ci voleva proprio! Sono certa che se i miei amici non sapessero che è vegana, la divorerebbero e ne chiederebbero un’altra. Sembra fatta con il burro e la crema di nocciole è goduriosa.

    Quanta sofferenza si potrebbe evitare nel mondo facendo delle scelte consapevoli senza dover rinunciare alla buona cucina." 

    Stava raccogliendo la schiuma rimasta in fondo alla tazza quando il telefono squillò: era un messaggio di suo cognato che le chiedeva aiuto per rassegnare le dimissioni. Sorpresa, Giulia gli chiese subito spiegazioni e lui le anticipò brevemente qualche aspetto: rischi per la salute, orari assurdi, straordinari fissi nel weekend. Due anni prima la società dove lavorava aveva dichiarato fallimento e Davide, a quarantasei anni, si era ritrovato disoccupato e costretto ad arrangiarsi lavorando come idraulico o giardiniere presso privati. Non erano stati due anni semplici tra i litigi con la moglie, le tensioni in casa per motivi economici, la depressione, i momenti di sconforto. Finalmente, tramite un’agenzia per il lavoro, sembrava aver trovato una nuova occupazione e invece, dopo neanche una settimana, era punto e a capo. Fu in quel momento, mentre spiegava a Davide come procedere, che Giulia realizzò che il mondo del lavoro aveva sempre fatto parte della sua vita, non solo negli ultimi anni in agenzia, ma fin da quando era bambina.

    Forse, pensò, quello che fino a quel giorno aveva considerato un’occupazione capitata per caso di cui poi con il tempo si era innamorata, in realtà era una professione che, magari inconsapevolmente, aveva scelto di svolgere proprio per il suo trascorso. Del resto, non era una riflessione così strana per una come lei che credeva nel karma e nel destino. E così, mentre giocava con il cucchiaino in una tazza ormai vuota con lo sguardo fisso verso l’esterno, Giulia iniziò a ricordare una serie di eventi legati al mondo del lavoro che avevano caratterizzato la sua vita fin dall’infanzia.

    La piccola Giulia

    Giulia era una bambina minuta, con i capelli castano chiari, gli occhi nocciola con sfumature color verde e oro e la bocca piccola ma carnosa.

    Ben educata, abituata a non fare capricci e a tenere un tono di voce moderato, all’esterno sembrava una bambina timida e riservata, ma in realtà aveva un carattere forte, era molto curiosa e a volte perfino sfrontata nel porre una serie infinita di domande anche a persone appena conosciute. Il viso dolce era di suo padre, ma il carattere l’aveva sicuramente ereditato dalla mamma!

    Determinata e orgogliosa fin da piccola, amava studiare sia per compiacere insegnanti e genitori, sia per soddisfare la sua naturale curiosità e la voglia di conoscere ogni giorno cose nuove. Storia era la sua materia preferita: colpi di scena continui, personaggi dal carattere forte, strategie e piani segreti la entusiasmavano.

    Se a ciò si aggiunge il suo temperamento e una naturale leadership che la vedeva sempre a capo dei compagni di scuola, non sorprende la risposta di Giulia alla domanda della maestra quella mattina.

    Era una giornata di primavera e come sempre Giulia era seduta al suo banco in prima fila nella classe 5A della scuola elementare Francesco Caracciolo a Milano.

    L’aula era luminosa grazie alle ampie vetrate che affacciavano sul cortile interno e le pareti erano decorate con i disegni realizzati dalla classe. I banchi erano disposti a ferro di cavallo e Giulia era seduta tra i primi posti vicino ai suoi compagni preferiti: Barbara, la sua migliore amica dai tempi dell’asilo; Massimo, il suo fidanzatino; Matteo l’amico ribelle; e Pierangelo, un bambino maturo per la sua età con occhi neri molto profondi. Era l’ultimo anno delle elementari, gli esami si avvicinavano e lei percepiva in maniera chiara che qualcosa stava cambiando; era un’emozione nuova che da una parte la entusiasmava, ma dall’altra la spaventava: stava provando per la prima volta quella sensazione unica di adrenalina e timore che si percepisce davanti a un cambiamento. 

    Quella mattina non poteva immaginare che avrebbe dovuto rispondere a una domanda che nel corso degli anni le sarebbe stata rivolta più volte e alla quale avrebbe risposto spesso in maniera diversa e non sempre convinta. «Maestra, io da grande voglio fare il veterinario» rispose per primo Michele, un bambino paffutello sempre allegro e innamorato del suo cane lupo, probabilmente il suo miglior compagno di giochi.»

    «Io voglio giocare a pallavolo» aveva dichiarato Annalisa con voce ferma e squillante. Capelli nero corvino, occhi azzurri, la più alta della classe, la domenica pomeriggio seguiva le partite di pallavolo femminile con il papà. Avrebbe frequentato le scuole medie nel quartiere vicino perché i genitori sapevano che in quell’istituto c’era una squadra di pallavolo forte e ben organizzata. Giulia si chiedeva se era ciò che davvero voleva Annalisa o se stava solo assecondando le aspirazioni del padre, tuttavia era una domanda troppo difficile alla quale poter rispondere alla sua età.

    Massimo voleva fare il medico. Faceva parte di una famiglia benestante, vestiva in modo curato ed era sempre ubbidiente sia con i genitori che con le maestre: dopo aver attraversato una fase adolescenziale caratterizzata da capelli lunghi, maglie larghe, l’inseparabile chitarra e la passione per la musica rock, anni dopo si sarebbe laureato in Medicina, avrebbe esercitato la professione in Australia e sarebbe diventato papà di una bellissima bambina.

    Poi c’era Barbara, la sua migliore amica, bionda con gli occhi azzurri, dal carattere dolce, tranquilla e molto sensibile. Era molto brava nelle materie scientifiche, le piacevano i numeri e i problemi e per anni era stata la sua ancora di salvezza per superare le verifiche di matematica e geometria. Forse per questo Giulia non rimase sorpresa nel sentire che avrebbe voluto fare la scienziata!

    Era il turno di Giulia: raddrizza la schiena, si sposta i lunghi capelli di lato, sistema le matite sul banco, prende fiato e dice, sorridendo: «Io voglio fare l’insegnante di storia.»

    I compagni bisbigliano e la guardano sorpresi e un po’ increduli, la maestra sorride compiaciuta e le chiede se le piacerebbe insegnare alle elementari.

    Giulia risponde senza pensarci troppo: «No Luisella, io voglio insegnare alle superiori o all’università.»

    Ancora oggi a ripensarci Giulia invidiava la sicurezza e la lucidità dimostrata in quell’occasione; in quel momento sapeva con estrema chiarezza quello che avrebbe voluto fare da grande e aveva solo dieci anni. Purtroppo, non sempre quella convinzione avrebbe accompagnato le sue scelte e anni dopo, ripensando a quella bambina, si chiedeva con un po’ di nostalgia che fine avesse fatto. 

    Chi conosceva bene Giulia non poteva essere troppo meravigliato dalla sua volontà di insegnare. Fin da piccola era sempre stata testarda, pignola, esigente con se stessa ancora prima che con gli altri, organizzatrice, leader, con una buona capacità di ascolto ed empatia, idealista: tutte qualità e difetti che spesso appartengono a un insegnante. 

    Ma perché proprio storia? E perché anche anni dopo rimase sempre convinta di voler insegnare storia e non magari lettere o filosofia? 

    Se da piccola Giulia vedeva la storia con gli occhi di una piccola Indiana Jones (di cui conosceva a memoria tutti i film), da adolescente era convinta che solo conoscendo la storia e imparando dagli errori del passato fosse possibile costruire un futuro migliore. Al liceo aveva interiorizzato la celebre frase di Albert Einstein «Impara dal passato, vivi nel presente, spera nel futuro. L’importante è non smettere mai di farsi delle domande» e, una volta diventata una giovane donna, Giulia amava invece rispondere che evidentemente già allora aveva compreso le due anime dentro di sé, una molto razionale e ponderata, l'altra impulsiva e un po’ folle. 

    La lotta quotidiana tra queste due anime era per Giulia molto simile alla lotta tra il bene e il male che animava la storia attraverso i suoi personaggi, a volte virtuosi e nobili, altre volte dissoluti e meschini.

    Anna

    Anna era nata nel 1960 e aveva partorito la sua primogenita all’età di ventidue anni. Giulia ricordava con piacere che i suoi compagni di classe delle elementari erano meravigliati e divertiti da una mamma così giovane.

    All’uscita da scuola in mezzo alla folla di genitori, nonni e tate, sua mamma era facilmente riconoscibile: jeans molto stretti (per allacciarli si sdraiava sul letto e tratteneva il respiro!), giubbino casual corto in vita, una montagna di capelli ricci e un’immagine giovane e ribelle. Era diversa dalle altre mamme e per Giulia era bellissima e speciale proprio per questo. Se da adulti ciò che è diverso è qualcosa di brutto, strano e da evitare, da bambini invece è sinonimo di divertente, nuovo e da scoprire.

    Anna lavorava part-time la mattina e il pomeriggio si godeva le sue due bambine. Non amava particolarmente cucinare, forse perché da femminista degli anni Settanta la considerava un’attività di poco valore. Ogni giovedì, però, le piaceva preparare il torcolo, una ciambella morbida e umida al cioccolato da gustare tutti insieme a merenda tra risate e coccole.

    Ma il momento della giornata che Giulia preferiva era l’ora di cena quando sua mamma in cucina, armata di cucchiaio di legno, accendeva il lettore di musicassette e cantava a squarciagola i successi dei Queen! Un momento unico di aggregazione solo per le tre donne di casa che sfogavano le tensioni della giornata cantando e ballando.

    Un giorno di rientro da scuola, Giulia spiegò a sua mamma che avrebbe dovuto aiutarla con il compito a casa assegnato dalla maestra: doveva descrivere il lavoro svolto dai suoi genitori. Anna, che di solito era sempre disponibile e serena mentre l’ascoltava ripetere le lezioni o la osservava svolgere gli esercizi di matematica, stavolta era stranamente frettolosa e irritata e le raccontò in poche parole che suo padre lavorava come operaio mentre lei lavorava come ragioniera in una società a Milano. La mattina seguente in classe Giulia riportò tutto alla maestra che, tuttavia, non sembrò soddisfatta e iniziò a farle molte domande sul tipo di lavoro svolto da sua mamma. Era seduta in refettorio con gli altri compagni quando la maestra le chiese nuovamente, a distanza di poche ore, ulteriori dettagli sul lavoro di Anna: nome dell’azienda, luogo e orario giornaliero.

    Giulia non sapeva cosa rispondere e iniziò stranamente a sentirsi a disagio e in imbarazzo. Perché la maestra le faceva tutte quelle domande? Perché era così curiosa di conoscere i dettagli del lavoro di sua mamma? Perché non aveva fatto tutte quelle domande anche agli altri bambini? Sentiva su di sé gli sguardi dei compagni mentre rispondeva a bassa voce alla maestra: «Non so con precisione dove lavora mia mamma, questo è tutto quello che mi ha raccontato lei ieri». 

    Ancora oggi, dopo tanti anni, Giulia provava molta rabbia ripensando a quell’episodio: come può una maestra, che dovrebbe essere una figura di sostegno e supporto, non rendersi conto che con il suo atteggiamento sta mettendo in imbarazzo un bambino? Anche se le motivazioni che spingono un insegnante a voler conoscere la situazione familiare di uno studente possono essere valide, non esistono altri modi, tempi e forme per riuscirci?

    Quel pomeriggio quella sensazione di disagio si era trasformata in tristezza: forse aveva capito. Gli occhi di sua mamma la mattina sempre velati di tristezza, il suo abbigliamento sportivo non adatto a un ufficio, la borsa da palestra con dentro gli zoccoli ortopedici, le frasi aspre lasciate a metà con suo padre, il suo essere restia nel descrivere il suo lavoro. Una cosa era certa: sua mamma non lavorava come ragioniera. Ma la domanda che la tormentava non era tanto quale lavoro svolgesse in realtà, bensì perché non glielo volesse dire. 

    «Mamma devi dirmi la verità, non sono più piccola, voglio sapere che lavoro fai, ti prego dimmelo», aveva chiesto in modo perentorio Giulia ad Anna quella sera. «Va bene Giulia, ti racconto tutto, ma devi promettermi di non parlarne con nessuno, neanche con la tua amica Barbara o con tua sorella. Mi raccomando, è ancora troppo piccola e potrebbe raccontarlo in giro e io non voglio che si sappia.»

    Anna raccontò a Giulia la sua storia, seduta sul divanoletto in soggiorno dove dormivano le figlie. Per anni aveva lavorato come ragioniera nella filiale italiana di una realtà americana che commercializzava pentole d’acciaio acquistabili solo telefonicamente. Aveva abbandonato gli studi al quinto anno di ragioneria, una decisione di cui si era profondamente pentita negli anni, ma che era stata dettata dalla voglia di lasciare la casa dei genitori con i quali il rapporto era sempre stato conflittuale. Anni Settanta, figlia ribelle, genitori conservatori, una madre molto severa e critica incapace di dimostrare affetto, un fratello dieci anni più piccolo di lei al quale aveva dovuto badare, un padre che la maggior parte delle volte si schierava dalla parte della moglie e non da quella dei figli. 

    Con l’entusiasmo e il coraggio tipico dei vent’anni, aveva convinto il suo datore di lavoro a darle una possibilità. Nel giro di un anno, aveva assunto un ruolo di responsabilità, aveva un ufficio tutto suo e una segretaria personale. Erano anni in cui non si sapeva cosa fosse la crisi: mensa aziendale interna con un menù da fare invidia ai migliori ristoranti della città, flessibilità in entrata e in uscita, premi aziendali, riconoscimenti individuali, regali di Natale importanti.

    Quando era nata Giulia nel 1982, il suo responsabile aveva perfino deciso di creare una nursery all’interno dell’azienda così da consentire ad Anna di lavorare in serenità senza doversi preoccupare della figlia. Purtroppo negli anni successivi si verificò un calo delle vendite nel mercato italiano che costrinse la casa madre a ridurre il personale della filiale per poi chiuderla definitivamente nel 1985. Anna aveva venticinque anni, una bimba piccola e un marito che lavorava fuori casa tutto il giorno. I genitori erano ancora giovani e lavoravano entrambi, quindi aveva dovuto rinunciare a

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