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Il trafficante d'avorio
Il trafficante d'avorio
Il trafficante d'avorio
E-book155 pagine1 ora

Il trafficante d'avorio

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Info su questo ebook

Dopo Alba di luna, tornano i terrificanti vampiri creati da Matteo Gambaro, in questo secondo episodio delle Cronache di Avorio.
Stavolta il protagonista è Pier, giovane cassaintegrato torinese che fa fatica a sbarcare il lunario, pressato da Gisèle (già vista in Alba di luna), una fidanzata tanto bella quanto esigente, e dall'amico Mario, un nano sempre in vena di citazioni poetiche. Questo finché non spunta dal passato Edoardo, un vecchio amico che era partito per la Germania anni prima. Edoardo gli offre un lavoro, un po' particolare, anche rischioso, ma molto ben retribuito. Scopre così che il suo amico è un trafficante di avorio, che ci sono collezionisti che pagherebbero una fortuna per il canino di un vampiro, e che più grosso è, più c'è da guadagnare. Pier, dapprima spaventato, si lascia poi convincere a entrare nella squadra, soprattutto dopo aver ricevuto il primo pagamento. È la sua occasione per rendere felice Gisèle e sposarla. Quello che Pier non ha capito, però, è che i vampiri non sono fatti per stare in gabbia, né per essere usati, perché il loro potere è grande e giocare col fuoco può essere fatale.

 
LinguaItaliano
EditoreNero Press
Data di uscita16 dic 2019
ISBN9788885497429
Il trafficante d'avorio

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    Anteprima del libro

    Il trafficante d'avorio - Matteo Gambaro

    Insonnia

    Il trafficante di Avorio (Cronache di Avorio - Vol 2)

    di Matteo Gambaro

    Immagine di copertina a partire da: AdobeStock_37201650 vampire by Ivan Kmit

    Editing: Daniele Picciuti

    Produzione digitale: Daniele Picciuti

    ISBN: 9788885497429

    Nero Press Edizioni

    http://neropress.it

    © Associazione Culturale Nero Cafè

    Edizione digitale dicembre 2019

    Matteo Gambaro

    Il trafficante d'Avorio

    Indice

    Prologo

    L’incontro

    La Grotta

    L’addestramento

    Avorio

    Fiducia

    Il Rabbino

    Gisèle

    Rifugi

    L’asta

    La civetta

    Epilogo

    Bibliografia e note

    L'autore

    Prologo

    Zampettio di scarafaggi sul marmo, rantoli soffocati in lontananza, puzza di urina – la mia – e brividi convulsi.

    Voraci formiche di ghiaccio chiudono a migliaia le minuscole mandibole affondando nella pelle: è la morsa graffiante del gelo sotterraneo.

    Aprire gli occhi, provarci almeno; il buio è ovunque, dentro e fuori, un telo di filigrana spessa.

    Risate soffocate. Chi c'è?

    Com’era quella preghiera? Dal punto di Luce entro la Mente di Dio, affluisca Luce nella mente degli uomini…

    Patetico! Neanche ci credi veramente.

    La Voce, sottile come un trapano da dentista che scava nella mente

    Vuoi la luce?

    Un intenso cono luminoso esplode dal nulla direttamente nella retina.

    Sbattere le ciglia, un volto si materializza lentamente: Mario, la testa strappata e piantata su un paletto a un metro da terra, gli occhi rivolti al soffitto, brandelli di muscoli e tendini ancora gocciolanti e il legno sporco di sangue tra i denti spezzati.

    Santiddio, Mario!

    Dov’è l’altro trafficante?

    Non lo so! Giuro che non lo so!

    L’ho gridato o solo pensato?

    Dal punto di Luce…

    Smetti di resistere!

    Un altro fascio luminoso si schiude dall’alto di fianco al precedente.

    Gisèle è a terra inerme a poco più di un metro, potrei quasi toccarla se ne avessi le forze; la testa pende con un’angolazione innaturale, una pozza di sangue si allarga sul marmo da sotto la gonna. No! Ti prego!

    Cederai, a costo di stuprarti la mente fino alla pazzia.

    Vertigini, un refolo di vento umido sul collo, frammenti smaltati di un volto pallido e teso che incombe.

    Ah! Il dolore affonda nell’anima come nella carne, calore e formicolii scendono lungo il braccio, passando per la schiena, fino all’inguine, ombre risorgono dal buio come i morti dalle tombe nel giorno del Giudizio.

    E tutto per colpa di Gisèle.

    L’incontro

    Amo svegliarmi che ancora dorme, venti flessioni per carburare e ributtarmi sul letto, restare a guardarla ansimante, fantasticare su di noi finché arriva l’ora di uscire.

    Non si ferma sempre da me, sebbene abbia i suoi spazi; ma i cassetti sono ancora vuoti per metà.

    «La vorrei qui più spesso, Mario, lo sai; ma a parlarne si finisce a litigare per il mio lavoro. Dice di mandarli al diavolo, che dovrei essere proattivo, trovarmi un altro impiego: come se fosse facile di questi tempi».

    Bella e materialista, l’avevo intuito sin dalle prime serate in discoteca: tavolo riservato con le amiche, bottiglie di prosecco, le piace un certo tenore di vita e garantirsi un futuro, non vede la cosa dal mio punto di vista e si discute finché io vedo rosso ed esagero. Allora mi viene voglia di picchiarla e buttarla sul letto, ma questo a Mario meglio non dirlo.

    «Pensi solo al sesso, mi risponde. Certo che ci penso: non è forse il motivo per cui è uscita con me sin dall’inizio? Sono il trofeo da sfoggiare nelle sue serate torinesi».

    Il brusio di sottofondo cresce d’intensità, meglio abbassare un po’ il volume.

    «Ehi nano, ci sei ancora?»

    «Vai al diavolo, Pier! Si, ti sto ascoltando».

    «Cambierà tutto, me lo sento. Non l'ha detto apertamente, ma l'espressione del viso era chiara: non starà con un disoccupato. Non vuole nemmeno convivere, usa il mio appartamento come il suo appoggio di comodo, quasi mi stesse facendo un favore a non essere più single».

    Mi sembra di sentire lo sguardo di Mario addosso, come se mi stesse parlando dal sedile del passeggero. La sua voce greve mi riporta a concentrarmi sulla guida.

    «Fai il grande passo, Pier. Oppure lasciala perdere. Quante volte te lo devo dire?».

    «Vaffanculo! Sono arrivate le lettere di cassa integrazione, dovresti saperlo meglio di me, sindacalista del cazzo. Che futuro posso offrirle?».

    «La cortesia innanzitutto, amico mio. Dico solo che tu hai bisogno di lei più di quanto lei ne abbia di te. Come scriveva il grande Maestro…»

    «Non mi servono le tue stronzate adesso».

    «Come vuoi. Io sono arrivato, ci vediamo tra poco».

    Chiudere la telefonata, uno spiffero dal finestrino aperto, un sospiro.

    Torino sembra stanca quanto me, il tempo uggioso, il traffico intasato e fastidiosamente lento.

    Via Cigna di nuovo bloccata, anche oggi i cancelli aziendali sono chiusi per lo sciopero generale.

    Parcheggio. I ragazzi mi stanno aspettando, faremo un bel casino.

    Cenni di saluto, ammiccando a un paio di volanti della polizia che controllano la strada.

    Nessuno se ne cura.

    I cori di protesta sono già partiti, tutti gridano, difficile parlare con qualcuno, ma gli sguardi parlano per noi e già so ancora prima di chiedere.

    «Anche voi?»

    «Tutti. I sindacati sono dentro a negoziare, ma non so cosa ci sia ancora da negoziare ormai».

    Ora siamo tutti cassaintegrati, una categoria debole, ingiustamente colpita dal sistema, e siamo arrabbiati.

    Gridare insieme ai compagni, battere ritmico di mani, piedi, coperchi di pentole contro i cancelli, mentre volantini sindacali e cartelloni con slogan passano di mano in mano.

    Alcune teste calde iniziano a scuotere i cancelli, li conosco quasi tutti personalmente; vola anche qualche sasso verso il nulla, ma subito qualcuno intima di fermarsi.

    In mezzo alla folla, Mario cerca di farsi ascoltare urlando in piedi su una sedia.

    «Nano bastardo!» nessuno ama il nostro rappresentante sindacale, ma pochi si permettono di apostrofarlo come faccio io. Per me è un vecchio amico.

    «Si sta dando da fare ora che è troppo tardi».

    Un’auto bianca si avvicina, parcheggia in doppia fila, scende un ragazzo con una pesante reflex digitale e un grosso teleobiettivo.

    Ci scatta una foto.

    «Ehi!» prurito alle dita, tempie pulsanti, la vista si appanna come in una nebbia rossa e densa di rabbia. 

    «Tranquillo amico, sono un giornalista».

    «Non sono tuo amico. Cancella la foto».

    «Eddai, sto solo lavorando».

    Un schiaffo deciso, afferrargli il braccio con l’altra mano.

    «Ahi! Mi fai male!»

    «Ho detto cancella».

    È spaventato, cerca di liberarsi. Stringere più forte, il braccio si piega senza quasi fare resistenza.

    «Ok! Ok! Lasciami andare».

    Arrivano i colleghi, sento una mano sulla spalla.

    «Dai, Pier, lascia perdere».

    Il ragazzo armeggia con la fotocamera, foto cancellata, lo lascio andare.

    «Questo non vi farà una bella pubblicità».

    Ignorarlo, sono immerso in un’atmosfera elettrica, tutti uniti, odori di corpi sudati, pugni alzati, volti amici paonazzi, indignati, arrabbiati, occhi di fuoco: rabbia e adrenalina, ci stanno rubando il futuro, mi stanno portando via Gisèle.

    Un dirigente si affaccia dalla finestra, un secondo esce dall'edificio insieme a un sindacalista e si avvicina ai cancelli, mentre l'urlo della folla cresce, sovrastando i disperati tentativi del mio amico di tranquillizzare gli animi.

    Anche il dirigente fa gesti per chiedere il silenzio, tenta di parlare, ma è impossibile, questo non è il momento di parlare, la rabbia è tangibile.

    Sembra a disagio, si volta rassegnato e se ne va.

    Maledetti, è tutta un'enorme buffonata, un complotto sulla nostra pelle.

    Qualcuno ha portato verdura e uova, macchie rosse e verdi volano verso di lui senza raggiungerlo.

    A terra ci sono molti sassi e uno è già nella mia mano: come al rallentatore, allungare il braccio sperando di colpirlo, perché deve pagare lui per tutti.

    Il sasso vola e un attimo dopo qualcuno mi afferra la mano; voltarsi, abbandono la traiettoria del mio proiettile, la mia foga ora è per quella mano che mi trattiene.

    Un lampo all’orizzonte, uno sguardo dietro un paio di occhiali da sole decisamente costosi, un volto liscio e abbronzato, una voce rauca proveniente da un ricordo lontano.

    «Pier vieni via, svelto».

    «Edoardo?»

    Il velo rosso precipita sotto il peso della sorpresa, il mondo riacquista i suoi grigi colori da uggiosa mattinata di periferia.

    Sei anni, l'ultima volta che ci siamo visti eravamo alla stazione di Porta Nuova e lui era in partenza per la Germania.

    Non risponde, si volta e si allontana in mezzo alla calca.

    Lo seguo rapidamente, inseguito da urla e voci di ogni sorta: sono un idiota, potrei aver colpito il dirigente, potrei averlo ferito con conseguenze cui non voglio nemmeno pensare.

    «Forza!» si volta per spronarmi ad accelerare.

    Fuori dalla calca, lo vedo sfrecciare verso una BMW sportiva grigio metallizzato con i finestrini posteriori oscurati.

    Si volta.

    «Andiamo a berci una birra in nome dei vecchi tempi?»

    Chi è quest'uomo?

    Capelli laccati, mani curate, un foulard colorato avvolto attorno al collo: un po’ ingrassato, qualche ciuffo grigio ai lati della testa, ma non è poi molto diverso da come lo ricordo.

    Che sia rimasto il vecchio amico che era, dopo tutti questi anni? Perché qui e ora?

    C’erano volti sconosciuti tra la folla, forse infiltrati; sarà deformazione professionale per il mio lavoro part time da buttafuori, ma non riesco a non notare certi dettagli. Forse è uno di loro. Posso fidarmi?

    «Sei incredibile» rimettere in tasca le chiavi dell’auto e salire velocemente; dentro, sedili in pelle, cruscotto dalle rifiniture in finto legno laccato e un largo touch screen con la mappa stradale «ma da dove diavolo salti fuori?»

    «Da tanti posti diversi» rapida inversione «Il vecchio pub va bene?»

    Il nostro vecchio pub, certo.

    «L'hanno chiuso due anni fa. Andiamo in corso Casale.

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