Storie, Storiacce e Incubi da dopo sbronza II edizione
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Info su questo ebook
Scritti in tempi diversi e in modi diversi, sono il frutto di una libertà quasi assoluta e possono risultare forti o addirittura volgari, dissacranti, spietatamente cinici o grotteschi, ma sempre aderenti al vero, a un profondo sentire la vita, con le sue piccole gioie, epifanie di un momento che ti spalancano gli occhi su chi sei o chi dovresti essere, con le sue troppe frustrazioni e i lunghi abbandoni alla noia e all’oblio.
Personaggi e situazioni raccontati in schizzi brevi, delineati con grande efficacia in poche battute, depositati sulle rive di una spiaggia deserta mentre nel mare della fantasia si agitano ricordi ed emozioni.
Sopravvivono in pochi, e sono i più forti. Quelli che hanno la pelle più dura. Quelli che nella tempesta hanno imparato a ballare.
Gianluca Gualandri è nato a Castelnuovo Monti il 30 settembre del 1963. Vive tra Carpineti, sull’Appennino, e Reggio Emilia, dove lavora.
Laureato in Economia e Commercio, ha pubblicato due romanzi: Fagiani si nasce… Lupi si diventa e Aliti di Follia, entrambi editi da Albatros il Filo (2011 e 2014), e un paio di racconti su riviste specializzate.
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Anteprima del libro
Storie, Storiacce e Incubi da dopo sbronza II edizione - Gianluca Gualandri
RINGRAZIAMENTI
La cosa peggiore di tutte e vigliacca oltre ogni logica.
Al di là di mia figlia Bianca e della mia compagna Elena che sono le prime, il mio universo, dovrei ringraziare tutti quelli che giorno dopo giorno mi sono stati vicino, mi hanno sopportato e mi sopportano; a partire dalla famiglia, dagli amici per arrivare fino a quelli che, col sorriso sulle labbra, ti dicono smettila
.
Dovrei ringraziare anche quelli che non ci sono più, in un modo o nell’altro, perché sono sempre qua e mi hanno lasciato dentro tanta roba… incasinata, se vogliamo, ma tanta.
Io sono, in fin dei conti, il frutto di questo casino…
Grazie di cuore.
ORE 9:05
E la gamba gli duole del peso e del freddo di un cannone che, chissà come, è riuscito a trovare...
.
Luciano Ligabue da I duri hanno due cuori
Ore 9:05 segna l’orologio sulla porta della banca.
Ore 9:05.
Entro ancora un po’ instupidito.
Ho dormito troppo.
Non sono più abituato.
La faccia del cassiere, di là dallo sportello, mi sembra persino un po’ gialla.
Guardo intorno. C’è già coda e, dopo di me, continua ad entrare gente. Se non fosse perché devo ordinare la valuta per le prossime vacanze sparirei immediatamente.
Un signore dal viso paonazzo e la cravatta col nodo troppo stretto sta discutendo animatamente con una impiegata, seguito dallo sguardo di compatimento di un altro paio di clienti.
È una mattina livida, pesante, non proprio l’ideale per pensare alle ferie. Sicuramente non la tipica mattina di luglio inoltrato in una città come questa.
Umidità stagnante, aria ferma. Sembra il presagio di un terremoto.
Mi sono messo davanti all’ultimo sportello. Così... A caso.
La signora di fronte a me sta cercando di pagare alcune bollette tra il caotico e l’indecifrabile.
Smadonna.
Credo che sarà una cosa un po’ lunga e così mi perdo pensando ai fatti miei.
Brutto vizio quello di viaggiare con la testa. Lo diceva sempre anche mio zio.
Così li vedo solo quando alzo di nuovo lo sguardo ed è già troppo tardi. Sono entrati piazzandosi di fianco all’ufficio del direttore. Per uscire dovrò passare di lì.
Prima fitta allo stomaco.
Chissà se anche loro hanno visto me?
Loro.
Il mio migliore amico ed il mio ex amore.
È proprio un insieme di coincidenze strane la vita. Vado in vacanza per scordarmeli e di tutte le banche in cui potrebbero andare a ficcarsi in questa cazzo di città me li ritrovo proprio qui.
Non sono sfigato, vado oltre!
Mi sembra di essere in un horror film di pessimo livello. Io sono quello che viene mangiato vivo dagli scarafaggi sotto la doccia… Tra lo shampoo ed il balsamo!
Non mi resta altro che fare buon viso a cattivo gioco e ricominciare la commedia. Mi comporterò di nuovo come se fosse tutto tranquillo, normale, persino gioioso.
Per il momento, però, faccio finta di essere immerso nei cazzi miei.
Chissà che non riesca a cavarmela con un: Ciao come state devo scappareeeeee…
Lo so che se fossi un buon amico dovrei essere felice per loro. In realtà lo sono. Solo che la mia felicità è talmente poca cosa rispetto al dolore del resto che non mi esce molto facilmente.
Testa di cazzo!
Non lo dico tanto per dirlo. È vero. Mi rendo perfettamente conto di esserlo.
Adesso però mi concentro sulla valuta. Sterline inglesi grazie che fuggo a Londra... O nel Sussex. Decido poi.
La signora ha quasi finito con le bollette, lo sento. Tra poco toccherà a me e sarà come togliersi un dente. Vedo passare di mano un paio di fogli, si sorridono, scambiano un’ultima battuta, stretta di mano, lei si alza e, sempre sorridendo, se ne va tutta accaldata. Zoppica leggermente.
È dura pagare le bollette in banca.
Due secondi e sono già seduto lì davanti con tutto il mio bel discorsetto pronto. La velocità è fondamentale.
Mi guarda.
Lo guardo.
Mi dice: Prego... In cosa posso esserle utile?
.
Poi non dice più nulla.
Tutto si ferma come per magia quando dall’ingresso si cominciano a sentire grida di paura. Di rabbia. Ordini secchi urlati al vento.
Mi giro appena in tempo per vedere la signora che prima avevo davanti correre dentro come se avesse il fuoco al culo e nascondersi dietro un cartellone pubblicitario del ramo vita
.
L’energumeno salta fuori solo allora.
Passamontagna scuro, spolverino lungo a luglio, fucile a pompa fra le mani.
Come cazzo ha fatto uno così a passare dalle porte di sicurezza?!
Segue: Questa è una rapina!
Panico e ruzzoloni, il mondo si schiaccia verso di me, nell’ultimo angolo disponibile. Quello più lontano dall’uomo col fucile. Tutti qui. Tutti tranne lei che, credendo di non essere stata notata, cerca di sgattaiolare verso l’uscita. Ha sempre avuto la tendenza ad essere un po’ impulsiva.
L’ha vista.
La afferra per il collo della camicia e le fa fare due scrivanie tipo straccio della polvere. Atterra su uno degli impiegati. Niente di rotto.
Noi tutti impietriti. Tutti tranne lui. Ha sempre avuto la stoffa dell’eroe. Cerca di difenderla, di vendicarla, di reagire, ma l’unica cosa che rimedia è di farsi spaccare buona parte dei denti dal calcio del fucile.
È in terra. Sanguina molto. Spero solo non si sia fatto troppo male.
Si sente uno scatto metallico, poi un sibilo e, infine, una fila interminabile di bestemmie.
L’uomo col fucile sembra molto incazzato. Si precipita verso l’uscita e trova tutto bloccato. Qualcuno da fuori grida qualcosa, poi si sente una sgommata.
Mi sa che gli amici lo hanno lasciato all’acqua da solo.
Quando si gira nei suoi occhi c’è qualcosa che conosco già. Qualcosa di terrificante. Sta cercando un colpevole.
In tutto non sono passati più di venti secondi. Il tempo necessario per cominciare a permettersi la paura.
La sento arrivare da dietro come il peggiore dei bastardi e inizio a tremare. Prima poco, poi sempre più convulsamente. Il cuore accelera e comincio a respirare come se stessi facendo il Pordoi in ginocchio. Sudo. Sudo in un modo allucinante. L’impiegato di fronte a me mi chiede se sto bene. Non gli rispondo nemmeno.
L’uomo col fucile, nel frattempo, ha buttato giù la porta dell’ufficio e sta tirando fuori il direttore a forza. Qualcosa mi dice che è stato lui a farlo incazzare.
Il mio amico è sempre in terra.
Uno strano concerto sembra partire da lontano.
Sirene. Una marea di sirene che cominciano ad arrivare da ogni parte. Prima quasi solo intuite, poi sempre più vicine. Alla fine sono qui intorno.
È nervoso.
Ci raduna tutti nello stesso posto. In fondo a questo angolo che adesso è diventato strettissimo ed affollato. Sdraiati. Continua a guardare fuori della finestra il viavai di macchine della polizia sempre più incazzato.
Ho paura persino a girarmi, poi vedo le sue mani.
Tremano.
Anche la maglia sotto lo spolverino è madida di sudore.
Ossigeno.
Che abbia paura pure lui?
Continua a camminare sempre più istericamente da un capo all’altro del salone sacramentando qualcosa che non capisco. Una cosa però mi è chiara. Da quando l’ho visto tremare, tremo meno io. Anche se la paura è rimasta tutta qui.
Alla terza volta consecutiva che rischia di calpestare il mio amico, ci dice di levarglielo dalle palle.
Nessuno si muove.
Lo ripete con più calma... Ringhiando.
L’impiegato ed io ci alziamo lentamente cercando di evitare la gente che ha fatto sdraiare sul pavimento. Lo prendiamo per le braccia tirandolo verso l’angolo. Si lamenta. È conciato proprio uno schifo. Ha bisogno di cure, o almeno di smettere di sanguinare, ma sarebbe troppo culo se ci fosse un medico ed io non capisco un cazzo di questa roba.
Gli pulisco un po’ la faccia con un fazzoletto. Forse non mi riconosce neppure.
Lei si però. Mi sento i suoi occhi piantati nella schiena. Anche adesso.
L’impiegato mi dice che sull’armadio, dall’altra parte della sala, c’è la cassetta del pronto soccorso. Alzo lo sguardo cercando l’uomo col fucile.
L’uomo col fucile...
Mi viene in mente una cosa molto idiota. Gian Maria Volontè in uno spaghetti western che credo fosse di Sergio Leone.
Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, l’uomo con la pistola è un uomo morto
. Detto a Clint Eastwood. Da lui! Che era il simbolo della sfiga italica in quel film.
Minchia quanto sono cretino.
L’uomo col fucile, però, ha sentito e mi fa segno di andare. Esito. Poi mi muovo come se fossi legato alla parete con un