Alba di luna: Le cronache di Avorio Vol.1
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Anteprima del libro
Alba di luna - Matteo Gambaro
Martedì, afflizione
La mia vita è tutta qui, sul fondo di questo bicchiere, a bagnomaria in due dita di limpido whisky irlandese.
Posso decidere cosa farne: consumarla tutta d’un fiato, sorseggiarla lentamente o versarla sul bancone.
Rabbia. Odio i bar per single, disprezzo la gente che li frequenta e il barista che specula sulle loro disgrazie, ma più di tutti odio me stesso perché non riesco a farne a meno.
Melanconia di uno sguardo perso nello specchio: un tempo non avrei neanche sbirciato all’interno di un posto così.
Vampe di autocommiserazione, contrazioni di vergogna.
Il whisky ondeggia, un flato lontano, colori opachi nei riflessi delle bottiglie.
Un volto pallido, esangue, flashback alcolici: una Brera blu notte, l’odore dei sedili in pelle, la musica e il giro dei locali notturni, a sbronzarci e infastidire senza vergogna gruppi di ragazze di dieci anni più giovani.
Allora forse non sarei qui a compiangermi, forse saremmo ancora insieme a divertirci.
E invece… il suo nome inciso sul freddo marmo di una lapide, una fossa, una bara vuota come i miei pensieri e quella parte di me che è scomparsa con lui.
Due occhi sbarrati.
«Che ti guardi?» ma è solo la mia faccia stanca riflessa sopra lo scaffale, fra due bottiglie di brandy. Che squallida cornice. Ho urlato? Forse, non lo so. Bere da solo mi rende ossessivo e insofferente.
Intorno, l’afflizione va per la maggiore: sguardi bassi sui bicchieri di uomini che sperano ancora di poter riportare la propria vita sui lustri binari sognati in gioventù, magari con il romantico incontro della porno-fata turchina con i bollori fra le cosce. Patetico. Peggio, penoso.
In un angolo, una zitella scialba si diverte a civettare con due operai di mezza età. Sadica puttana.
Occhiate fugaci al loro tavolo: almeno metà degli astanti vorrebbe essere al posto di quei due.
Sul lato opposto, un tizio russa con il cappello abbassato sul grugno ispido.
Niente musica, il juke box è in convalescenza, solo una tv muta in un angolo e un arpeggio triste di chitarra nella mia testa.
Il barista asciuga bicchieri, e questo è tutto.
Sul fondo del mio, il whisky ha preso il sopravvento sulla vita. Afflizione è proprio il termine esatto, l’antitesi di ciò di cui ho bisogno.
Guardo il bicchiere, lo scuoto, è sottomesso al mio volere: «Tu sei il bicchiere della staffa».
Santiddio, ma con chi sto parlando?
È bere senza pensare che mi frega il cervello, che non è nemmeno bere e ricordare. Alcol e rimpianti: la spada di Damocle, il veleno dell’anima.
Un’immagine improvvisa. Il sogno di questa notte: volti, voci, ricordi in libertà. Quanto tempo è trascorso? Una settimana, dieci giorni? Dieci anni? Forse quasi un mese.
Una sbandata, un tuffo nel fiume. Ero fradicio e dolente, trauma cranico lieve, volevano portarmi via ma mi sono imposto di restare e sperare, terrorizzato.
Due sommozzatori danno l’ok, la gru solleva una Brera blu notte con i sedili in pelle.
Risorta dalle acque come un ancestrale mostro marino.
Hanno detto: «L’auto è questa, ma del corpo non c’è traccia».
Non ci volevo credere, ma la targa coincideva. Dragare il fiume per tre chilometri non servì: la corrente era troppo forte, se lo saranno mangiati i pesci. Forse, prima o poi, vecchi pescatori alla foce denunceranno una macabra pesca alla polizia.
No! Basta pensare a lui, basta con i gemiti strazianti di vedova e famiglia in stereofonia nella mente e nel cuore. Un Padre Nostro e tanti auguri per il grande viaggio. Una sensazione. Quella sensazione: irrazionale, impellente, che grida "Fermati o muori". Un pensiero tagliente, inspiegabile, una rasoiata mentale che interrompe il bisogno di alcol e alimenta quello di ossigeno.
«Va tutto bene?»
Annuire al barista.
Angoscia che diventa ansia, la testa da leggera a pesante. Il locale d’improvviso piccolo e buio, l’aria viziata intrisa di odori opprimenti. Vertigine.
È bere senza pensare che mi frega.
Quindi basta bere. Ultimo sorso: ah. Stop!
I soldi sul bancone, la valigetta nella mano e fuori velocemente. Ignoro il barista: arrivederci un cazzo.
L’aria aperta. Passanti, il cavalcavia incombe adombrando tutto, clacson di auto ferme in coda. C’è smog, ma respiro liberamente. C’è traffico, ma mi sento parte di un tutto: il substrato urbano. C’è gente che vortica più della mia testa.
Il marciapiede, la via di casa, tutto un po’ sbilenco: incamminarsi con cautela.
È fondamentale riconoscere il momento di smettere, se non altro mi salva il fegato. Non tutti ne hanno la forza, lo so bene. Ma la pesante inquietudine, quel senso opprimente di solitudine, non è ancora svanita.
Tiriamo le somme, fin troppo rapido.
Serata magra, come tutte. Le signore sembrano respinte da questo genere di bar o probabilmente solo da questo bar in particolare. Avranno altri metodi per procacciarsi gli uomini, forse sanno che qui troverebbero per lo più frustrazione. Forse, se venissero qui, non sarebbero signore.
E io? Due settimane in questo bar dopo il lavoro mi hanno fruttato un solo amico. Maschio.
Contando il barista e il whisky fanno tre, oltre al mio ormai onnipresente compagno che mi pesa sullo stomaco: il signor Sensodicolpa. Piuttosto scoraggiante.
Ma chi voglio prendere in giro? Chi viene qui, non cerca compagnia.
L’alcol è in me, caldo come fosse cosa viva, devo tornare a casa e mangiare qualcosa. Non voglio sbronzarmi, cadrei in depressione, come se già non lo fossi. Ma così riesco ancora a tenermi sotto controllo per arrivare a domani. Dio mio, per lavorare.
Un incrocio, fermi ad aspettare il semaforo verde, l’aria calda e la cappa di smog ora mi schiacciano. L’effetto luci-rumori-alcol mi stordisce, come entrare in discoteca con un sacchetto di coriandoli in testa.
Spinte senza scuse, volti anonimi scuri e imperscrutabili come nei sogni.
C’è parecchia gente in attesa di passare, nonostante sia quasi ora di cena. Forse gli acquisti dell’ultimo minuto, i negozi stanno per chiudere.
A casa a piedi, sono solo tre isolati. Una zona centrale, non troppo sicura ma abbastanza tranquilla. Un piccolo appartamento, accogliente e decoroso. Vorrei non fosse vuoto.
Luce verde, avanti con l’onda umana.
Una voce familiare. Chiama me?
Una mano alta sopra le teste dei passanti: Marco. Non ora, tedioso collega, non sono proprio in serata per le chiacchiere fuori dall’ufficio.
«Ciao» senza fermarmi, solo un’occhiata.
Ma che fa? Resta fermo in mezzo all’incrocio?
Ricambia il mio saluto con un cenno della mano. Meglio voltarsi.
«Scusa Marco, sono di fretta».
«Solo un attimo».
«Ok, ma leviamoci da qui».
Due passi verso il marciapiede.
«Che c’è?»
«Il tuo cellulare era spento. È una fortuna averti trovato. Domani, mezz’ora prima in ufficio».
«Cosa?» ecco fatto, prevedo già una mattinata nera.
«Troverai un messaggio di Luca nella segreteria telefonica. È arrivato del lavoro urgente e dobbiamo dare il massimo per tutta la settimana».
Sbagliato: una settimana nera. Sarà peggio di questa appena trascorsa?
«D’accordo, grazie. A domani».
«Un’ultima cosa».
Che c’è ancora?
Occhiate rapide intorno, abbassa la voce.
«In confidenza, tuo fratello non sarebbe contento di sapere che hai iniziato a bere dopo il lavoro».
Un brivido: devo puzzare di alcol, anche se non ho bevuto molto. Umiliazione, vampate di calore.
«So cosa stai passando e per adesso non sono affari miei, ma vedi di uscirne velocemente prima che lo diventino: rispondo io del tuo rendimento sul lavoro. Impegnati a smettere e non dirò niente a Luca».
Formicolii alle membra, mascelle strette, odio negli occhi. Un mezzo sorriso impostato, la voglia di picchiare è forte.
Però ha maledettamente ragione e mio fratello deve restarne fuori.
Calma, un sospiro, un cenno di assenso con la testa.
«Molto bene» una pacca sulla spalla «fatti un buon sonno, ci vediamo domani».
Lo guardo allontanarsi, per ritrovare la tranquillità.
Non pensare. Non ci devo pensare, non è successo nulla.
Forza allora, subito a casa. L’immediato futuro: una doccia veloce seguita da una cena altrettanto veloce e poi a dormire.
Ma non riesco a ignorarlo: è come un altro macigno che preme su stomaco e cervello. Crogiolarmi nell’autocommiserazione forse non aiuta a superare il senso di colpa, ma questa minaccia è anche peggio; non c’è via d’uscita, non c’è soluzione né perdono. Lui se n’è andato per sempre ed è solo colpa mia…
L’effetto luci-rumori-alcol svanisce all’entrata della via, fiochi lampioni sono accesi sopra una fila di auto parcheggiate.
Il mio palazzo, grigio fra altri edifici più alti e non meno tristi. Il portone è aperto, nonostante il messaggio sul vetro, l’ascensore è fuori servizio: nulla di anomalo.
«Ciao. Ancora rotto, eh?» la ragazza dell’appartamento sopra al mio.
«Proprio così, sempre a piedi» finti sorrisi di circostanza «buona serata».
Non ricordo alcuna presentazione, ma ci diamo del tu come fossimo amici, senza formalismi. Non conosco nemmeno il suo nome, ma apprezzo il suo sedere ciondolante nel salire le scale.
Ultima rampa, poi le chiavi nella toppa della porta blindata. In casa, la giacca dietro la porta, il led della segreteria telefonica lampeggia.
Listen.
Via le scarpe, largo alle care comode pantofole di