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L'ingrata
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E-book302 pagine4 ore

L'ingrata

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Info su questo ebook

Nell'immaginaria Gemito, tra Pavia e Alessandria, Massimo Asti chiede al potente sindaco, di cui è faccendiere e uomo di fiducia, un aiuto per far partecipare a un reality show Agata, la sua bella e capricciosa compagna. Sarebbe un aiuto da poco... Intanto, un "amico" esponente delle forze dell’ordine coinvolge Asti in una trappola congegnata al fine di arrestare Michel Marri, prestanome legato alla criminalità organizzata, da tempo insediata nel paese. In uno scenario di corruzione e degrado generali, Asti scopre una realtà privata e pubblica ben peggiore di ciò che pensava. E allora consuma, contro Agata e contro le Istituzioni, la sua privatissima vendetta.
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2014
ISBN9788889986677
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    Anteprima del libro

    L'ingrata - Guido dell'Atti

    L’ingrata

    Guido Dell’Atti

    CAVINATO EDITORE INTERNATIONAL

    Autore: Guido Dell’Atti

    Titolo: L’ingrata

    © Copyright 2014 Cavinato Editore International

    ISBN: 978-88-89986-67-7

    I edizione Digitale 2014

    Tutti i diritti letterari e artistici sono riservati.

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i micro-film e le copie fotostatiche) sono riservati per tutti i Paesi.

    © Cavinato Editore International

    Vicolo dell’Inganno, 8 - 25122 Brescia - Italy

    Q +39 030 2053593

    Fax +39 030 2053493

    cavinatoeditore@hotmail.com

    info@cavinatoeditore.com

    www.cavinatoeditore.com

    Progetto grafico, copertina e impaginazione: Alessandro Botta

    Guido Dell’Atti

    L’ingrata

    Sono le tre di notte. Agata dorme. .La città è vuota, le vie sono spopolate.

    Bitume, solo bitume all’aria aperta. Le vie di giorno sono vene pulsanti di vita. Persone, macchine. Ma di notte sono un’altra cosa.

    I pendolari se ne sono andati da parecchio. Sono tornati a dormire nelle loro casette, nella seconda cintura, l’unica cosa da fare per restare ceto medio, avanti e indietro, in attesa di ripetere il loro nomadismo, domani. Domani.

    Ora non è ancora domani. Non è ieri. Ora è in mezzo.

    Gli ultimi padroni dei cani sono spariti da parecchio. Lo svuotamento ha lasciato in giro solo quelli con i cartoni e le bottiglie. Le volanti girano in strada, passano e lasciano dietro di sè la notte.

    La gente che lavora a quest’ora deve dormire. Io non dormo.

    Da diversi giorni ho una fonte di preoccupazione. Agata ha modificato la pronuncia della parola cazzo.

    Può essere ridicolo. E’ una cosa difficile da spiegare ma allarmante, tremendamente grave e allarmante, soprattutto per il modo in cui ha cambiato questa pronuncia, è, come dire, una maggior sottolineatura, uno schiocco delle zeta e un allontanamento della o: cazz-o, in modo incisivo e acuminato, non può essere casuale e neppure inoffensivo, non c’è mai nulla di inoffensivo del resto nei suoi cambiamenti, io la conosco molto bene la signorina, le sue bugie, la sua perfidia, i suoi messaggi sibillini, guai a non coglierli, allora, se ha modificato in quel modo la pronuncia di cazz-o un motivo c’è. Sono sicuro.

    Sono in piedi. Mi tremano le mani ma non ho intenzione di tirare, non mi serve tirare adesso, mi guardo allo specchio, ho gli occhi arrossati e la barba ispida che mi annerisce le guance.

    Sono stanco. Pensavo di crollare e di dormire fino a mezzogiorno. In effetti per qualche istante mi ero addormentato. Ma ora sono di nuovo sveglio.

    E’ strano come mi sento adesso. Digerisci, il tuo sangue e la tua linfa circolano dentro di te, muovi i muscoli, e poi percepisci, senti, senza sapere come e perché. E’ strano.

    Dorme. Domani le parlo.

    Devo dirle qualcosa per il reality. Ristendiamoci. Ho bisogno di dormire.

    -Agata!-

    Non risponde mai. Si può non rispondere mai? Riapro gli occhi, guardo nella grande specchiera a muro a lato del letto, metto a fuoco la mia figura, e poco alla volta anche le cifre romane sulle braccia e i tribali sulla coscia e sullo stinco. Pure l’eczema schifoso. Non manchi mai tu. Si è esteso. Questo eczema dimmerda mi prende ormai quasi mezzo avambraccio, poi ce n’è un altro, all’interno della coscia, più piccolo ma molto pruriginoso, che mi dà un formicolio incontrollabile. Forse si sta sviluppando anche quest’altro. Mi gratto, mi scortico con le unghie, fino quasi a sanguinare. Sono pieno di croste.

    -Agata!-

    Niente.

    Avrebbe potuto anche imparare a portarmi il caffè, ne abbiamo discusso mille volte, ma lei non lo fa per partito preso, lei e il suo prendere ogni piccolo piacere che potrebbe farmi come una diminutio, lei, il suo corpo, la sua mente e il suo testimone interiore, il suo dannato e nefasto testimone interiore, ma mi basta che lo faccia lei il caffè, non il suo merdoso testimone interiore; il problema è che ha degli inibitori, cose che non vuole ammettere, di cui non vuol parlare, lasciamo stare. Sono sveglio. Lucido.

    Getto il cuscino di lato. E’ tutto consumato e unto all’altezza della mia testa.

    Gemito sarà già in strada. Siamo un baricentro per tutta la valle.

    E’ una città meschina, rivoltante, per la bassezza e la limitatezza dei suoi abitanti.

    E’ terribile l’inflessione di Gemito, il solo accento di Gemito può annientare in me qualunque immaginazione, una flebile cadenza di Gemito è realmente in grado di piombare su ogni mio pensiero e distruggerlo.

    Cinquantamila opportunisti che la calpestano senza requie, avanti e indietro, ecco i pendolari che arrivano, si riempie l’uovo, per lavorare e poi tornare dalla mogliettina, che avrebbe voluto più soldi…

    Ed eccomi, il temuto faccendiere, come dicono, anzi, il calunniatore, messo alle corde da una vocina, da un mutamento della pronuncia di cazz-o di una mannequin frustrata. Sarebbe risibile. Invece è grave. E’ così. Conosco i metodi dell’eterna innocente.

    Non c’è tempo da perdere.

    Mi alzo.

    Se desideri tanto entrare in un reality show, se questo è quello che vuoi, di cui non puoi proprio fare a meno, va bene, ti faccio entrare. Così io. Ho fatto un po’ l’onnipotente con lei, diciamo. Poi è chiaro che fingi, in realtà non saprei neppure a chi chiedere per farla entrare in un reality show, a chi avanzare una richiesta così demenziale e deprimente come quella di farla entrare in un reality show, ma è inutile discutere, non ci sente, non si rende conto, è infantile. E’ per quello che ha cambiato il modo di pronunciare cazz-o. Sicuro. Per minacciarmi.

    Apro la finestra ma non faccio in tempo a sporgermi che una vampata d’aria fredda e puzzolente m’investe la faccia.

    Ma vaffanculo, e chiudo la finestra.

    -Agata!-

    Accendo il fornello sotto la caffettiera e me ne vado in bagno. Un po’ d’acqua in faccia. Acqua, acqua, acqua. Mi vesto rapidamente, ingurgito il caffè, poi butto tazza, sottotazza e tutto quanto nel lavandino.

    Mi preparo una pista sul tavolo del salotto e me la sniffo di corsa. Scendo.

    L’aria è miasmatica come al solito, è la celebre merda aeriforme gemitense.

    Non c’è neppure la sua auto. Strano. Altra stranezza. Di solito per andare a lavorare lei usa il pullman, perchè è più comodo.

    Agire, subito. La cretina è capace di dar retta a qualsiasi ciarlatano. Di credere a qualsiasi panzana.

    Lancio il Touareg lungo la circonvallazione di Gemito e imbocco la tangenziale. L’hanno rifatta come Dio comanda, non c’è che dire, con l’asfalto bello poroso, assorbente, quando piove è come se non piovesse.

    All’Amministrazione facciamo le cose bene.

    Sfreccio col mio bestione nero metallizzato, sono in corsia esterna e faccio i fari a tutti, gli arrivo addosso da dietro, a centonovanta all’ora, spingo e quelli volano a destra, verso la corsia centrale, come zanzare.

    A un certo punto finisco intrappolato all’ingresso del centro direzionale, ma poi la fila di macchine s’allunga e riesco a buttarmi in mezzo. C’è uno, un impiegatucolo, che si oppone: lo tengo bloccato sulla destra. Lui si mette a suonare come un pazzo. Suca, ebete, sei troppo lento. Non ce la fai. Ho cristalli di bamba nelle narici e tiro su col naso in continuazione.

    Devo sbrigarmi.

    La mia manovra non piace alla testa di cazzo in guardiola all’ingresso del centro, infatti lo vedo alzarsi, il sorvegliante. Lento, anche tu troppo lento. Sei geografia.

    Intanto arrivo alla palazzina. Lavora qui.

    L’unico posto libero nel parcheggio è quello dell’handicappato.

    Il suo Jimny nei dintorni non c’è. Mi tocca aspettare. Cinque, dieci minuti.

    Eccola.

    E’ la più alta del gruppetto, ancheggia per raggiungere dei colleghi. Avanza dondolando i fianchi neanche fosse ancora in passerella. Ha un cartellino plastificato sul colletto con la scritta Agata Laura Cotti employee.

    Ho allevato quella cretina per cinque anni. L’ho resa tutto quello che è. Io l’ho presa che era una modellina patetica, un’aspirante divetta, una che aveva fatto solo una pubblicità di collant e non aveva più un soldo, io l’ho fatta diventare dipendente comunale part time, a tempo indeterminato. Non le ho mai rimproverato nulla, solo una volta che mi ero permesso di farle notare che in una certa occasione si era comportata da sgualdrina, importante: io non ho mai detto che lei è una sgualdrina, ma che si era comportata come una sgualdrina, si è inferocita. E poi ha cambiato le carte in tavola, perché cerca sempre di cambiare le carte in tavola, rinfacciandomi tutto. Ma lasciamo perdere.

    Il gruppo di impiegati s’è fermato per aspettarla, diversi la salutano, la invitano a unirsi a loro, neanche la conoscessero da sempre, e lei è tutta sorrisi e moine, non capisce che questi recitano, fanno la parte, che subito dopo emetteranno commenti sul suo culo, con quei pantaloni bianchi e aderenti che s’è messa, la cretina, non capisce che quello è un branco di disadattati, di servi, mosche, mosche del capitale.

    Intanto mi ha visto.

    -Agata!-

    Mi schiaccio una narice e tiro su col naso. Metto in bocca una pasticca alla menta.

    Mi vede e comincia a camminare tutta rattrappita. Hai freddo, magari. La prossima volta cammina nuda, deficiente. Calma. Calmiamoci e sorridiamo, perché io faccio sempre l’indifferente.

    Il gruppo degli impiegati intanto si snoda. Ottimo. Avanti marsch, pecore. La qui presente fica non è per voi. Avanti marsch. Un due tre camminare.

    Mi raggiunge.

    -Che ci fai qui? Mamma mia, perché non prendi un po’ di sole?-

    -Ascoltami, volevo solo dirti questo: ci sono novità. Per il reality. Probabilmente riesco a farti entrare. Ho parlato con delle persone. Hai sentito?-

    -Ho sentito. Perché non me l’hai detto ieri sera?-

    -Perché mi hanno chiamato dieci minuti fa-

    -In quale reality dovrei entrare, precisamente?-

    -Non l’abbiamo ancora stabilito. Te l’ho già detto l’altra volta: possiamo giocare su più tavoli. Scegliamo noi-

    -Chi sarebbe, che ti ha chiamato?-

    -Occazzo. Vuoi continuare a fare domande? Impariamo a fidarci, okay? Poi ti dico le carte che ho in mano-

    -Tu hai promesso- mi fa, col dito puntato.

    -Ma ragiona. Potevo firmare un contratto a tuo nome? Se ti dico che ho parlato con della gente ho parlato con della gente-

    A un tratto, una voce che urla dietro di me -Deve spostarla da lì!-

    Mi volto e vedo il sorvegliante della guardiola che arranca, si affanna, il cretino, ce l’ha col mio Touareg che in effetti ho lasciato momentaneamente sul posto del down. Ci guardiamo. Mi ha riconosciuto benissimo, sa chi sono ma vuol farmi capire che non gliene frega un cazzo. Vuol fare il paladino della situazione, diciamo.

    -Ha ragione, sto andando via- gli faccio.

    Purtroppo però lei subito ne approfitta: -Sì, campa cavallo- dice, e s’infila all’interno del palazzo.

    Me l’ha fatta scappare, il difensore della civiltà. Ma ora, io dico: cosa te ne frega di fare l’avvocato dei mongoloidi? Hai degli interessi? No? Fai così per niente? Allora sei il più scemo tra tutti gli scemi.

    Continua a guardarmi ma io non rispondo, risalgo sul Touareg e parto, perché devo andare dalla Salamandra, ma prima faccio un giro di ricognizione in cerca del Jimny, giro più volte intorno al palazzo, nelle vie laterali, esploro tutto il perimetro e il Jimny non c’è, però non c’è dubbio che lei è uscita in macchina, e dunque, se è uscita in macchina e la macchina qui non c’è, ci può essere solo una spiegazione: l’ha prestata. Il pensiero mi irrita e mi insospettisce immediatamente, ma mentre giungo a questa conclusione, che mi pare l’unica plausibile, e mentre sto ancora scandagliando lentamente i parcheggi laterali delle vie intorno, vedo l’ingresso del garage di Renè e mi viene l’idea. Così mi fermo, parcheggio e scendo a piedi lungo la rampa.

    In realtà non si chiama Renè. E’ un balordo, uno che si vanta di aver conosciuto Vallanzasca da giovane, per questo lo chiamano tutti Renè. Io per esempio so che ci sono i giri lì, ma me lo tengo buono perché a me serve, è sempre in mezzo a mille traffici.

    All’inizio non lo vedo, la sua guardiola è vuota. E’ una cuccia nauseabonda che tanfa d’alcol, fumo e sudore. Dal portacenere trabocca un grumo di mozziconi schiacciati. E’ una porcheria ricoperta di compensato con un collage di foto porno. Ecco il foglio con la scritta a getto d’inchiostro: se mi conosci le hai prese.

    Figurarsi cos’ha di tanto importante da fare, penso, avrà da guardare Labbra Bagnate per la ventesima volta, la cultura del lavoro a Gemito non la vogliono assimilare, siamo indietro, dicono che dobbiamo competere con i paesi emergenti, ma con chi? Con questi?

    Dopo alcuni secondi compare. E’ un caprone. Sprizza animalità da ogni poro. Porta solo un pullover scollato e sporco sopra una maglietta di cotone nera, nonostante il freddo. Ha i capelli grigio topo, fitti e corti come una spatola e l’occhio destro che sembra una biglia fissa. Ma non ti puoi curare, bestia, non vedi come sei conciato?

    -Buonasera- gli faccio, tutto gentile.

    -Buonasera, è qui per la macchina della signorina?-

    Io ci rimango, poi faccio subito la parte.

    -Certo-

    -C’è più di cinquemila euro di danni. Che facciamo?-

    -Ah, cinquemila euro, addiritura, non pensavo così tanto- dico. –Ma come mai, che cosa si è rotto?-

    -Cosa si è rotto? Allora: c’è da rifare tutta la fiancata. Hanno buttato giù un muretto. Tra l’altro è un muro del Comune. Quelli te lo fanno pagare. Poi non so, visto che lei è dentro nella politica… Comunque, la signorina poi mi viene a dire se rimetto tutto a posto la macchina esattamente com’era prima, nel senso che non si deve vedere niente, mi dice. Ma io prima di ripararla volevo parlare con lei, perché è una spesa di un certo livello. Poi in più c’è anche l’uscita col carro attrezzi-

    -E quant’è?-

    -Centocinquanta euro. Posso fare anche centotrenta per voi. Con tanta gente che ho qui la macchina a volte non sono neanche sicuro dei nomi con le facce, ma per voi che ci conosciamo facciamo un piccolo sconto-

    Che razza di ladro.

    Gli do duecento euro. Lui fa per cercare il resto ma gli faccio un gesto con la mano. A posto così.

    -Dove è avvenuto l’incidente, di preciso?-

    -Sopra, nella zona dove ci sono le ville- dice, e muove la mano a indicare la strada che va su, sopra Gemito.

    -Quando?-

    -Ieri sera. Cosa saranno state? Le sette-

    -Ed era da sola?-

    -Veramente la signorina non c’era. Erano due ragazze. Una è andata via subito-

    -Com’erano? Bionde? More?-

    -Bionde-

    -E quella che se n’è andata come ha fatto ad andarsene?-

    -E’ venuto a prenderla un tizio. Che lo conosco. Elias, il maestro di judo. Con una Insignia grigia-

    -Va bene. Gliela ripari. Poi la salderò io-

    Risalgo la rampa lasciandomi la sua guardiola puzzolente sulla destra.

    So chi è Elias. Un tizio che non mi piace.

    Intanto fuori ha iniziato a piovere, c’è un tempo infame. Nonostante siano almeno le nove e mezza del mattino è così buio che l’insegna gialla del garage si riflette nella pozzanghera come una chiazza d’olio. Ci sono mucchietti di neve sporca ai lati delle strade. Almeno la pioggia li dovrebbe sciogliere.

    Cammino svelto e infreddolito, ora sono in ritardo, devo andare in Comune, dalla Salamandra, e devo sbrigarmi.

    Gemito è una città ingrata, veramente idiota, provinciale, gretta, culturalmente sottosviluppata, meschina, zeppa di ignoranti, io ci resto solo perché ci faccio un buon business con la Salamandra, che oltre a essere il sindaco è la persona più intelligente del nostro buco, se no mica ci resterei, sarei già a Roma.

    Roma. Io collaboratore della Salamandra, nel frattempo diventato influente senatore e un domani chissà, e Agata in questa minchia di reality, o nelle fiction o dove vuole, ma sempre grazie a me.

    Di situazioni ce ne sono, come direbbe la Salamandra.

    Io mi occupo di gente, carriere, ma anche altro.

    Diciamo che seleziono, faccio innesti, miglioro la specie. Se lo fa un contadino perché non posso farlo io?

    Preparo le cose per il boss. Fargli favori è il mio vero lavoro.

    Tanto a Gemito non capiscono niente. Però non bisogna credere che siano innocenti.

    Per certi versi la nostra cittadina è una fogna. Talvolta c’è profumo di legna, allora, in quei momenti, si può anche pensare alle nostre radici, a simili panzane, invece sapessero la miseria umana che c’è dietro il paesino lindo, la nostra pietra rossa locale così elegante, quanto squallore si nasconde, quanta imbecillità. E quanti scheletri negli armadi. Il vero cimitero di Gemito è negli armadi.

    Se dovessi spiegare il lavoro che faccio direi che a volte metto roba negli armadi e a volte la tiro fuori.

    A proposito di situazioni, il problema del momento riguarda il bar di Sarollo, che sta sul corso principale. C’è uno dei nostri, l’ingegner Govone, che ha combinato un casino.

    Pare che un giorno alcuni calabresi vanno da questo Sarollo, il proprietario del bar, che se ne stava tranquillo a passare lo straccio sul bancone, e gli dicono che c’è da pagare una certa cifra. Senza fare tragedie, così, c’è da pagare una certa cifra e basta. Sarollo però si rifiuta e loro pochi giorni dopo gli bruciano la saracinesca e lo minacciano di morte. Lui non si aspettava fino a un punto simile, e si spaventa tanto che decide di vendere il bar. La cosa viene all’orecchio di Michel Marri.

    E qui bisogna spiegare chi è Michel Marri.

    La sua professione ufficiale mi pare che sia antiquario o roba del genere; è un elegantone che ci sa fare parecchio con le persone, vive tra Londra e il lago di Como e gli piace la bella vita, i cavalli, gli alberghi a un sacco di stelle con la Jacuzzi e soprattutto la fica, fica a chili, disponibile e a portata di mano mentre lui si sorseggia un whisky. Se deve andare in un posto è capace che parte senza bagaglio, arriva lì, va nel primo negozio di lusso e si fa un guardaroba da favola per tre giorni, poi butta tutto. E’ brillante, Michel, è uno su cui si potrebbero dire un sacco di cose, e tante se ne dicono, ma io comincio dall’unica che non si dice, perché è provato che fa male dirlo: Michel è al servizio di un signore che sta in Calabria, uno di cui se fai il nome sei pazzo: infatti dicono che la tua anima voli subito in cielo. Questo nome non lo dico. Diciamo che lo chiamano Tictac.

    Tictac perché pare che quando domanda di qualcuno quanti anni fa? puoi fare il conto alla rovescia dei giorni che mancano alla morte del poveraccio. Michel Marri è un uomo di Tictac, anche se questo lo sa solo chi lo deve sapere.

    Considerato il tipo che è Michel, non credo che se la debba spassare molto, quei due o tre giorni al mese in cui, con meno clamore possibile, gli tocca di starsene in un misero paesello calabro di strade fangose, percorse dai cani randagi, ad aspettare.

    In quel paesello i cani randagi sono proprio un problema, ci sono decine di cani che si rovesciano nelle strade e da dove vengono non si capisce, perché di giorno non si mostrano.

    No, non deve divertirsi troppo in quei giorni, Michel. Pare che debba protrarre questa attesa pazientemente anche per delle ore, e lo fa, perché quell’attesa è necessaria.

    Fino a quando, nel retro di un bar latteria pidocchioso si materializza come dal nulla un vecchio contadino che tutti salutano quasi piegandosi, con riverenza.

    Per il resto, Michel credo risulti titolare anche di un’impresa di import-export, ed è in grado di piazzare qualunque cosa in poco tempo, in Italia o all’estero: oro, argento, quadri, sculture, diamanti, armi. Non fa differenza.

    E’ uno che sa godersi la vita per davvero, non come questi pezzenti di Gemito, che hanno paura di entrare in un albergo a cinque stelle. Tutti, anche gli industriali qui hanno paura di entrare in un albergo a cinque stelle. Sono limitati. Fanno gli spacconi ma poi hanno paura di entrare in un albergo a cinque stelle. Normalmente, l’uomo d’affari di Gemito è uno che non ama uscire dal suo ambiente, è un provinciale, diciamo. Michel Marri invece non solo è uno che si veste in modo raffinato, che ti porta alle feste della gente che conta, ma è anche una testa fina, a modo suo. Fiuta il business.

    Con la vicenda del bar di Sarollo, però, si mette in mezzo solo per fare un buon affare, non sa neppure che sono coinvolti altri calabresi.

    Che fa Michel? In pratica, siccome gli sembra che quel bar in centro sia conveniente, va da Sarollo, gli lascia un bigliettino e gli dice: pensaci, e propone l’affare dell’acquisto al suo boss, Tictac. Se quello accetta per lui è cosa fatta, anzi, lo dà quasi per scontato.

    E qui a momenti succede un macello, perché quella è gente un po’ selvaggia.

    Sarollo intanto è sempre più disperato: infatti i calabresi, su tutte le furie, sono tornati nel suo bar e gli hanno detto: -Cos’è che vuoi fare tu con Michel Marri? Tu sei pazzo, tu sei stanco di vivere, a noi non ce ne frega niente di te e neppure di Tictac, vaglielo pure a dire a quello stronzo di Michel Marri, noi ti stacchiamo la testa, hai capito? Tu il bar lo devi vendere a noi. Se non lo vendi a noi sei un uomo morto- Insomma, a momenti sta per scoppiare una guerra, per via di questo bar pidocchioso. E’ assurdo.

    Allora questo Sarollo, che è nel panico più completo, si ricorda improvvisamente del piccolo contributo che qualche tempo prima aveva dato alla campagna elettorale del nostro Govone, va da lui e gli dice: -Adesso mi devi risolvere il problema. Ora mi devi tirare fuori dai guai-

    Govone non può risolvere un cazzo, naturalmente, è fuori dalle sue possibilità, anche se la colpa è sua, perché tu qualcosa devi poter fare, se no a che servi? In fin dei conti i soldi li hai presi e ora che fai, li restituisci? Dici, no scusa mi sono sbagliato, ripigliati i tuoi soldi indietro, non ne voglio sapere niente? E’ assurdo, non puoi farlo.

    Però almeno ne parli, che ne so, vai dalla Salamandra, ne parli con Michel, ma pure con me! Invece questo idiota di Govone non ne parla con nessuno, non muove un dito, fa finta di niente, lascia trascorrere giorni e giorni. Non va bene.

    Sarollo intanto non sa più che fare, è sempre più nel panico assoluto, e alla fine questo coglione si mette a piangere con la

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