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Una carezza dal cielo
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E-book349 pagine4 ore

Una carezza dal cielo

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Info su questo ebook

Luna è una ragazza solare che vive una vita piena in una cittadina di provincia. E’ cresciuta sola con suo padre dopo che sua madre Ines è stata portata via dalla malattia quando lei era piccola. E’ legata alla famiglia, agli amici, ama lo sport ed adora stare tra la gente. Vive seguendo le sue passioni, finché un’escalation di avvenimenti inaspettati ed incredibili sconvolge per sempre la sua esistenza spostando il suo punto di vista sull’amore, sulla vita e sulla fede. Tratto da una storia vera, questo libro è stato scritto per dare forza e speranza alle persone che hanno perso qualcuno che amano.
LinguaItaliano
Data di uscita16 gen 2020
ISBN9788831652247
Una carezza dal cielo

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    Anteprima del libro

    Una carezza dal cielo - Lara Tonello

    Indice

    La ragazza del caminetto

    Come una favola

    L’esatto opposto

    Una vita diversa

    Fermo immagine

    Non io

    Falsa identità

    La Baita

    Il tranello

    Tutto il bene del mondo

    Il cielo nero

    Il tempo del Dono

    La metà dell’anima

    La Richiesta

    Nessun Posto

    Tuffo nel vuoto

    Alla nostra età

    Le farfalle

    Ventiquattro

    Il messaggio nella bottiglia

    Reiki

    Coincidenze e razionalità

    I passi dell’anima

    Ringraziamenti e dediche

    Opere citate

    Note

    La­ra To­nel­lo

    Una ca­rez­za dal cie­lo

    You­can­print

    Trat­to da una sto­ria ve­ra.

    I no­mi ed al­cu­ni det­ta­gli dei per­so­nag­gi so­no sta­ti mo­di­fi­ca­ti per tu­te­la­re la lo­ro Pri­va­cy.

    Ti­to­lo | Una ca­rez­za dal cie­lo

    Au­to­re | La­ra To­nel­lo

    ISBN | 978-88-31652-24-7

    Pri­ma edi­zio­ne di­gi­ta­le: 2019

    © Tut­ti i di­rit­ti ri­ser­va­ti all'Au­to­re.

    Que­sta ope­ra è pub­bli­ca­ta di­ret­ta­men­te dall'au­to­re tra­mi­te la piat­ta­for­ma di sel­fpu­bli­shing You­can­print e l'au­to­re de­tie­ne ogni di­rit­to del­la stes­sa in ma­nie­ra esclu­si­va. Nes­su­na par­te di que­sto li­bro può es­se­re per­tan­to ri­pro­dot­ta sen­za il pre­ven­ti­vo as­sen­so dell'au­to­re.

    You­can­print Self-Pu­bli­shing

    Via Mar­co Bia­gi 6, 73100 Lec­ce

    www.you­can­print.it

    in­fo@you­can­print.it

    Qual­sia­si di­stri­bu­zio­ne o frui­zio­ne non au­to­riz­za­ta co­sti­tui­sce vio­la­zio­ne dei di­rit­ti dell’au­to­re e sa­rà san­zio­na­ta ci­vil­men­te e pe­nal­men­te se­con­do quan­to pre­vi­sto dal­la leg­ge 633/1941.

    Al­cu­ne sto­rie ci scel­go­no, per es­se­re scrit­te.

    De­di­ca­to ad Ema­nue­le ed Ines per aver­mi

    di­mo­stra­to che l’amo­re non co­no­sce con­fi­ni.

    La ragazza del caminetto

    Dob­bia­mo es­se­re gra­ti al­le per­so­ne che ci ren­do­no fe­li­ci, so­no gli af­fa­sci­nan­ti giar­di­nie­ri che ren­do­no le ani­me un fio­re.

    Mar­cel Prou­st

    Una brez­za ta­glien­te scuo­te­va le fo­glie in­gial­li­te de­gli al­be­ri di ace­ro e be­tul­la nel via­let­to che con­du­ce­va fuo­ri dal­la scuo­la. Lu­na cam­mi­na­va len­ta­men­te ver­so il can­cel­lo d’usci­ta men­tre An­dré le par­la­va sen­za so­sta del­le sva­ria­te ap­pli­ca­zio­ni dell’al­ge­bra nel­la vi­ta quo­ti­dia­na.

    Lei non era mi­ni­ma­men­te in­te­res­sa­ta, ma lo la­scia­va pro­se­gui­re col suo ap­pas­sio­na­to di­scor­so. A bre­ve avreb­be­ro pre­so le bi­ci e si sa­reb­be­ro di­ret­ti ver­so ca­sa. Era­no cre­sciu­ti in­sie­me, An­dré ave­va un an­no più di lei ed ave­va­no gio­ca­to as­sie­me sin da bam­bi­ni co­me due fra­tel­li. Ave­va­no scel­to la stes­sa scuo­la ed as­sie­me ogni mat­ti­na in­for­ca­va­no le bi­ci e per­cor­re­va­no quei sei chi­lo­me­tri che li se­pa­ra­va­no dall’Isti­tu­to su­pe­rio­re. Con che po­co en­tu­sia­smo li fa­ce­va­no ora, con la con­sa­pe­vo­lez­za di ave­re da­van­ti tut­to un ge­li­do e lun­go in­ver­no. Ar­ri­va­ti al pic­co­lo de­po­si­to del­le bi­ci, An­dré sta­va an­co­ra par­lan­do, men­tre Lu­na era in­ten­ta a to­glie­re il luc­chet­to dal­la bi­ci, quan­do una vo­ce fa­mi­lia­re in­ter­rup­pe la lo­ro con­ver­sa­zio­ne.

    Ciao Lu­na! Ti ri­cor­di di sta­se­ra ve­ro? Ri­cor­da­ti la ma­glia ros­sa e ne­ra a ma­ni­che lun­ghe! Ore 20:00 per il ri­scal­da­men­to, pun­tua­le mi rac­co­man­do al­tri­men­ti Giò ti fa rul­la­re! E non di­men­ti­car­ti che poi an­dre­mo tut­ti a ca­sa mia!

    Da­van­ti a lei, sor­ri­den­te e ra­dio­sa, Au­ro­ra, la sua mi­glio­re ami­ca. Sem­pre bel­lis­si­ma e per­fet­ta, ave­va quel mo­do di fa­re fem­mi­ni­le e dol­ce, quel­la de­li­ca­tez­za, quel­la pa­ca­tez­za che Lu­na guar­da­va sem­pre con am­mi­ra­zio­ne. Era in qual­che mo­do il suo op­po­sto. Lu­na era al­ta, con lun­ghi boc­co­li ca­sta­no scu­ro sem­pre rac­col­ti in una co­da al­ta, vi­spi oc­chi ca­sta­ni con ve­na­tu­re ver­di ap­pe­na per­cet­ti­bi­li. Au­ro­ra, in­ve­ce, era stu­pen­da. Fre­quen­ta­va il li­ceo ac­can­to al­la scuo­la di Lu­na ed era in­dub­bia­men­te tra le ra­gaz­ze più bel­le ed am­bi­te dell’Isti­tu­to. Al­ta, oc­chi ver­di, dai lun­ghi e li­scis­si­mi ca­pel­li bion­di con ri­fles­si più chia­ri che ri­cor­da­va­no l’ef­fet­to del so­le e del ma­re. Un sac­co di ra­gaz­zi le ron­za­va­no at­tor­no, ma lei nel­la sua sem­pli­ci­tà nem­me­no se ne ac­cor­ge­va. Si era­no co­no­sciu­te al­le me­die, quan­do Lu­na era en­tra­ta a far par­te del­la squa­dra di pal­la­vo­lo del­la scuo­la. Da quel mo­men­to, era­no di­ven­ta­te in­se­pa­ra­bi­li.

    Ciao Au­ro­ra! Si, cer­to! Sa­rò pun­tua­le! A sta­se­ra!

    Au­ro­ra era un pal­leg­gia­to­re, men­tre Lu­na era un cen­tra­le. Li­lia­na e Gior­gia gio­ca­va­no in ban­da, Ariel in op­po­sto, Fe­de­ri­ca era il li­be­ro. Al­tre 6 ra­gaz­ze, al­tret­tan­to bra­ve e sim­pa­ti­che si con­ten­de­va­no di par­ti­ta in par­ti­ta que­sti ruo­li. Era­no una squa­dra fan­ta­sti­ca, si vo­le­va­no un be­ne dell’ani­ma, si aiu­ta­va­no e si sup­por­ta­va­no l’un l’al­tra. Cer­to, lot­ta­va­no tra di lo­ro per il po­sto da ti­to­la­ri, ma fi­ni­ta la par­ti­ta, si fa­ce­va­no una doc­cia, si truc­ca­va­no in spo­glia­to­io chiac­chie­ran­do di ogni ge­ne­re di co­sa ed usci­va­no per pas­sa­re la se­ra­ta tut­te in­sie­me. Quell’unio­ne, l’ami­ci­zia e la bra­vu­ra di Gior­gio che le gui­da­va le fa­ce­va sta­re an­no do­po an­no in vet­ta al cam­pio­na­to, era la lo­ro mar­cia in più. Era sa­ba­to e quel­la se­ra al­le ven­tu­no ci sa­reb­be sta­ta la par­ti­ta con le se­con­de in clas­si­fi­ca, ri­va­li da sem­pre del­le ra­gaz­ze, sem­pre a qual­che pun­to da lo­ro e pron­te ad ap­pro­fit­ta­re di ogni mi­ni­mo ce­di­men­to. Do­po la ga­ra si sa­reb­be­ro re­ca­te tut­te da Au­ro­ra che ave­va pre­pa­ra­to una pic­co­la fe­sta per il suo com­plean­no.

    Ora Lu­na era in sel­la al­la sua bi­ci, di­ret­ta ver­so ca­sa. Le pia­ce­va cor­re­re in bi­ci, ma con il fred­do di no­vem­bre era ar­ri­va­to an­che il ven­to ta­glien­te che de­te­sta­va: le sfio­ra­va il vi­so, le fi­schia­va con for­za nel­le orec­chie e riu­sci­va ad in­si­nuar­si fi­no al­la schie­na mal­gra­do il cap­pot­to a col­lo al­to che in­dos­sa­va. Quel ge­lo en­tra­va co­mun­que. Po­co ma­le, a bre­ve sa­reb­be sta­ta a ca­sa ed avreb­be mes­so fi­nal­men­te qual­co­sa sot­to ai den­ti. Lu­na ave­va sem­pre una gran fa­me. Ar­ri­va­ta a ca­sa ap­pog­giò la sua moun­tain bi­ke in ga­ra­ge e sa­lì di cor­sa le po­che sca­le ver­so il suo ap­par­ta­men­to. Aprì la por­ta e si di­res­se in cu­ci­na per pre­pa­rar­si qual­co­sa da man­gia­re. Abi­ta­va da so­la con Duc­cio da or­mai tre an­ni, lui la­vo­ra­va a tur­ni per riu­sci­re ad ar­ri­va­re al­la tan­to de­si­de­ra­ta pen­sio­ne. Pri­ma abi­ta­va con lo­ro an­che la so­rel­la Zoe di set­te an­ni più gran­de, ma po­co più che ven­ten­ne, si era in­na­mo­ra­ta di Lo­ris e qual­che me­se do­po si era­no re­si con­to di aspet­ta­re un bam­bi­no. Lo­ris si com­por­tò co­me un uo­mo d’al­tri tem­pi, si pre­sen­tò da Duc­cio e chie­se la ma­no di sua fi­glia. Duc­cio, fe­li­ce, ac­con­sen­tì. I due si spo­sa­ro­no ed ar­ri­vò pre­sto Jes­si­ca, l’ama­ta pri­ma ni­po­ti­na di Lu­na. Ap­pe­na i lo­ro oc­chi s’in­cro­cia­ro­no in quel­la sa­la d’ospe­da­le Lu­na, ap­pe­na quat­tor­di­cen­ne, sen­tì cam­bia­re qual­co­sa in lei, pro­vò un amo­re im­me­dia­to per quel­la pic­co­la crea­tu­ra che la sta­va guar­dan­do con gran­di oc­chi spa­lan­ca­ti e che le strin­ge­va un di­to con quel­la pic­co­la e mor­bi­da ma­ni­na. Abi­ta­va­no ora in quell’ap­par­ta­men­to so­lo Lu­na e Duc­cio, lei ave­va im­pa­ra­to fin da pic­co­la a cu­ci­na­re, le riu­sci­va ab­ba­stan­za be­ne. Af­fa­ma­ta, mi­se a bol­li­re una pen­to­la con dell’ac­qua per la pa­sta, men­tre pre­pa­ra­va del ra­dic­chio e del­lo speck a li­sta­rel­le per il su­go. Avreb­be cu­ci­na­to del­le ta­glia­tel­le, più ve­lo­ci e gu­sto­se, ave­va trop­pa fa­me per aspet­ta­re che si cuo­ces­se del­la pa­sta tra­di­zio­na­le. Do­po pran­zo avreb­be da­to una si­ste­ma­ta al­la cu­ci­na e si sa­reb­be mes­sa a stu­dia­re fi­no all’ora del ri­tro­vo per la par­ti­ta. Ar­ri­vò l’ora e Lu­na, col suo bor­so­ne in spal­la, si tro­va­va da­van­ti al­la por­ta del­la pa­le­stra al­le 20:04.

    Ciao Lu­na, so­no le 20.04, sai co­sa si­gni­fi­ca ve­ro?

    Ciao Giò, sì so co­sa si­gni­fi­ca…si­gni­fi­ca quat­tro rul­la­te, una per ogni mi­nu­to di ri­tar­do!

    No, ti sba­gli. Si­gni­fi­ca ot­to rul­la­te, per­ché que­sto non è un al­le­na­men­to, è una par­ti­ta. Va­le dop­pio.

    Mah…

    Se vuoi di­squi­si­re, sa­ran­no do­di­ci. Dat­ti una mos­sa ad en­tra­re in spo­glia­to­io, il tem­po che per­di ora con me sa­rà con­teg­gia­to co­me ul­te­rio­re ri­tar­do!

    Le ra­gaz­ze en­tra­ro­no in pa­le­stra, uni­te e sor­ri­den­ti co­me sem­pre, de­ci­se a vin­ce­re. Lu­na ab­brac­ciò Au­ro­ra ed in­sie­me ini­zia­ro­no il ri­scal­da­men­to. In par­ti­ta an­dò tut­to li­scio co­me sem­pre; con uno sguar­do lei ed Au­ro­ra si ca­pi­va­no, sa­pe­va­no che at­tac­co fa­re sen­za dir­si nem­me­no una pa­ro­la. La lo­ro com­pli­ci­tà era una for­za per tut­ta la squa­dra, in cam­po non c’era­no mai dub­bi. Ariel poi, ave­va un brac­cio for­te ed un gio­co im­pre­ve­di­bi­le. In di­fe­sa Li­lia­na non la­scia­va ca­de­re nes­sun pal­lo­ne. La par­ti­ta fi­nì e le ra­gaz­ze rien­tra­ro­no ne­gli spo­glia­toi fe­sto­se per la vit­to­ria spun­ta­ta per qual­che pun­to. Una doc­cia ve­lo­ce e poi di cor­sa a ca­sa. Po­che cen­ti­na­ia di me­tri se­pa­ra­va­no la pa­le­stra da ca­sa. Lu­na ap­pog­giò il bor­so­ne in ca­me­ra sua e sce­se da Au­ro­ra che la at­ten­de­va giù in au­to as­sie­me ad al­tre ra­gaz­ze più gran­di. Sa­lì in au­to e si av­via­ro­no tut­te ver­so la fe­sta. Lu­na non era mol­to in­te­res­sa­ta ai ra­gaz­zi. La sua prin­ci­pa­le gio­ia era gio­ca­re a pal­la­vo­lo. In cam­po li­be­ra­va com­ple­ta­men­te la men­te da ogni al­tro pen­sie­ro, si sen­ti­va li­be­ra da ogni pe­so da ogni pro­ble­ma: era fe­li­ce. Po­te­va sfo­ga­re le sue emo­zio­ni col­pen­do sem­pre più for­te quel­la pal­la. Ave­va sco­per­to che vin­ce­re le pia­ce­va e sta­re con le sue ami­che la fa­ce­va sen­ti­re dav­ve­ro be­ne. Ama­va sta­re tra la gen­te, con­di­vi­de­re. Ora pe­rò, era tem­po di fe­steg­gia­re Au­ro­ra, quel gior­no com­pi­va 17 an­ni, era più gran­de di Lu­na di un an­no. La fa­mi­glia di Au­ro­ra era me­ra­vi­glio­sa, i suoi ge­ni­to­ri era­no gio­va­ni e sim­pa­ti­ci e suo pa­dre era ap­pas­sio­na­to di bri­co­la­ge; ave­va ri­ca­va­to una ta­ver­na im­per­li­na­ta con tan­to di cu­ci­na e ba­gno per le fe­ste al pia­no in­ter­ra­to del­la ca­sa. Era­no per­so­ne cor­dia­li e buo­ne e da­va­no pro­prio quel sen­so di fa­mi­glia che Lu­na ave­va sem­pre in cuor suo cer­ca­to. Un grup­pet­to di ra­gaz­zi era già da­van­ti al can­cel­lo di Au­ro­ra, men­tre il suo ca­gno­li­no bian­co ab­ba­ia­va e sco­din­zo­la­va ol­tre la re­cin­zio­ne. En­tra­ro­no tut­ti as­sie­me dal ga­ra­ge nell’am­pia ta­ver­na, era un po­sto dav­ve­ro per­fet­to per una fe­sta. Una cas­sa­pan­ca ad an­go­lo in le­gno mas­sic­cio era ap­pog­gia­ta al mu­ro, ac­com­pa­gna­ta da un enor­me e spes­so ta­vo­lo che po­te­va co­mo­da­men­te ospi­ta­re ven­ti­cin­que per­so­ne. Su un al­tro la­to, chiu­sa da una por­ta a sof­fiet­to si tro­va­va una pic­co­la cu­ci­na, con quan­to ba­sta­va per cu­ci­na­re o scal­da­re qual­co­sa. Ac­can­to al­la cu­ci­na, un’al­tra por­ta im­met­te­va nel ba­gno. La fi­ne del­la sa­la era do­mi­na­ta da un me­ra­vi­glio­so ca­mi­net­to in mat­to­ni fac­cia vi­sta, cir­con­da­to su tut­ti i la­ti da una se­du­ta sem­pre in mat­to­ni. Al suo in­ter­no gros­si pez­zi di le­gno ar­de­va­no ri­scal­dan­do la sa­la e crean­do un’at­mo­sfe­ra ri­las­sa­ta ed ac­co­glien­te. Era­no or­mai ar­ri­va­ti tut­ti. Au­ro­ra, ol­tre al­la sua squa­dra ave­va in­vi­ta­to an­che i suoi com­pa­gni di scuo­la ed al­cu­ni al­tri ami­ci. C’era an­che Max, il ra­gaz­zo con il qua­le Au­ro­ra si fre­quen­ta­va da qual­che set­ti­ma­na, era ap­pas­sio­na­to di mu­si­ca e fa­ce­va il Dee­jay sal­tua­ria­men­te in qual­che pub del­la zo­na. Ave­va por­ta­to con sé del­le lu­ci stro­bo­sco­pi­che e del­le cas­se ed in po­co tem­po la sa­la si era pra­ti­ca­men­te tra­sfor­ma­ta in una di­sco­te­ca. I ra­gaz­zi bal­la­ro­no, man­gia­ro­no e can­ta­ro­no tut­ti in­sie­me per qual­che ora. Poi, ad un trat­to, qua­si tut­ti usci­ro­no. Le lu­ci da di­sco­te­ca era­no spen­te e la sa­la era il­lu­mi­na­ta so­lo dal­la lu­ce fio­ca del fuo­co ac­ce­so. Ol­tre la por­ta a sof­fiet­to se­mi­chiu­sa era­no ri­ma­ste so­lo Au­ro­ra e sua ma­dre, in­ten­te a de­co­ra­re il ti­ra­mi­sù bian­co al coc­co e man­dor­la, che era da sem­pre la lo­ro spe­cia­li­tà.

    Ma dai Au­ro­ra non ve­di che co­sì è trop­po?!

    Ma no mam­ma, il coc­co so­pra ci vuo­le!

    Beh, se poi i tuoi ami­ci di­co­no che è pa­sto­so è col­pa tua!

    Lu­na era ri­ma­sta so­la nel­la gran­de sa­la, se­du­ta da­van­ti al ca­mi­net­to ed il suo sguar­do era fis­so nel tre­mo­lio di quel­le fiam­me. Sen­ti­va so­lo le vo­ci del­la sua ami­ca e di sua ma­dre che bat­ti­bec­ca­va­no scher­zo­sa­men­te e ri­de­va­no ol­tre la por­ta. Sa­rà sta­ta la lu­ce dol­ce di quel fuo­co ac­com­pa­gna­to dal ru­mo­re sor­do dei ra­gaz­zi che scher­za­va­no in lon­ta­nan­za fuo­ri dal­la gran­de ca­sa, ma Lu­na fu col­ta da un mo­men­to di no­stal­gia. Ri­pen­sò a sua ma­dre, a com’era bel­lo guar­dar­la scher­za­re con Duc­cio quan­do lei era pic­co­la, men­tre Ines era in­ten­ta ad im­pa­sta­re qual­che dol­ce e suo pa­dre gio­ca­va a spor­car­le il na­so con la fa­ri­na. Se­du­ta sul bor­do di quel ca­mi­net­to, con le brac­cia che le cin­ge­va­no le gi­noc­chia, la­cri­me di no­stal­gia ri­ga­ro­no il suo vi­so il­lu­mi­na­to so­lo dal­la Lu­ce cal­da del fuo­co. Po­co più in là, all’in­gres­so del­la gran­de sa­la, Eros la sta­va os­ser­van­do da qual­che mi­nu­to sen­za far­si ve­de­re. Co­me sem­bra­va di­ver­sa ora dal­la ra­gaz­za spa­val­da, gio­co­sa e si­cu­ra di sé che ave­va in­con­tra­to pri­ma tra la gen­te. Com’era dol­ce, nel suo ma­glio­ne bei­ge a ri­ghe al­to fi­no al col­lo, men­tre os­ser­va­va quel­le fiam­me pian­gen­do. Chis­sà a che co­sa sta­va pen­san­do...Eros bat­té un col­po di tos­se fa­sul­lo per far­si sen­ti­re ed en­trò nel­la sa­la. Lu­na si gi­rò an­cor più ver­so il ca­mi­net­to per non far­si ve­de­re, men­tre si asciu­ga­va le guan­ce, poi ra­pi­da­men­te si al­zò ed ac­ce­se la Lu­ce.

    Ciao, io so­no Eros. Pia­ce­re!

    Lu­na al­zò gli oc­chi, chi era quel ra­gaz­zo? Non lo ave­va mai vi­sto, né tra gli ami­ci di Au­ro­ra, né tra i com­pa­gni di clas­se; or­mai tra fe­ste e tor­nei di pal­la­vo­lo li co­no­sce­va tut­ti. Era al­to, spal­le lar­ghe, fi­si­co asciut­to, ca­pel­li ne­ri ap­pe­na mos­si pet­ti­na­ti con il gel ed un vi­so a dir po­co per­fet­to, fron­te spa­zio­sa, lab­bra car­no­se; den­ti bian­chis­si­mi drit­ti e per­fet­ti. Il na­so era pic­co­lo, al­li­nea­to ed ap­pe­na all’in­sù. Le so­prac­ci­glia era­no fol­te e cu­ra­te e gli oc­chi…era­no di­ver­si tra lo­ro! Ma com’era pos­si­bi­le?! Uno era co­lor ca­sta­gna, con in­ten­se ve­na­tu­re ver­di che par­ti­va­no dal cen­tro, l’al­tro era az­zur­ro, con le me­de­si­me stria­tu­re ver­di. Era­no dav­ve­ro me­ra­vi­glio­si, non si po­te­va non no­tar­li. Sem­bra­va ap­pe­na usci­to da uno di quei po­ster di boy band che riem­pi­va­no le ca­me­re del­le ra­gaz­ze del­la sua età.

    Pia­ce­re, Lu­na!

    Gli al­tri so­no tut­ti fuo­ri, che ne di­ci se gio­chia­mo con uno di quei gio­chi in sca­to­la lì sull’an­go­lo?

    Ok, ma sap­pi che io non amo per­de­re ri­spo­se pron­ta­men­te Lu­na

    I due ra­gaz­zi gio­ca­ro­no tut­ta la se­ra, an­che quan­do gli al­tri rien­tra­ro­no e ri­co­min­cia­ro­no ru­mo­ro­sa­men­te a far fe­sta. Vin­ce­va­no una par­ti­ta a te­sta, era­no sem­pre in per­fet­ta pa­ri­tà. Nes­su­no dei due vo­le­va ce­de­re all’al­tro.

    Ne ho vin­ta un'al­tra ti­po!

    Mi chia­mo Eros, non ti­po! E la pros­si­ma la vin­co io!

    Eros era at­trat­to da quel­la per­so­na­li­tà co­sì for­te, con­trap­po­sta al­la dol­cez­za che ave­va avu­to mo­do di no­ta­re di na­sco­sto. Lu­na in­ve­ce lo guar­da­va sen­za trop­po in­te­res­se, quel ra­gaz­zo era bel­lis­si­mo e di cer­to non avreb­be mai ba­da­to a lei, per­sa nel suo ma­glio­ne, con tut­te le bel­le ra­gaz­ze che c’era­no al­la fe­sta quel­la se­ra. Poi lei non ave­va tem­po da per­de­re coi ra­gaz­zi, c’era un cam­pio­na­to da vin­ce­re. Pe­rò era di­ver­ten­te, iro­ni­co e sim­pa­ti­co, quin­di tra­scor­re­va vo­len­tie­ri del tem­po in sua com­pa­gnia. La se­ra­ta tra­scor­se co­sì, or­mai qua­si tut­ti era­no an­da­ti a ca­sa, era­no già pas­sa­te le tre del mat­ti­no. Era­no ri­ma­sti so­lo Max che fre­quen­ta­va Au­ro­ra, Lu­na che avreb­be dor­mi­to da lei quel­la se­ra ed Eros che lo sta­va aiu­tan­do a smon­ta­re le lu­ci. Lu­na ca­pì co­sì che i due ra­gaz­zi era­no ami­ci. Se ne an­da­ro­no an­che Max ed Eros men­tre Lu­na e Au­ro­ra an­da­ro­no al pia­no su­pe­rio­re a pre­pa­rar­si per an­da­re a dor­mi­re. L’in­do­ma­ni avreb­be­ro la­vo­ra­to en­tram­be co­me ca­me­rie­re nel ri­sto­ran­te lì vi­ci­no. Au­ro­ra vi­ve­va in una fa­mi­glia be­ne­stan­te, men­tre Lu­na fa­ce­va la ca­me­rie­ra per aiu­ta­re suo pa­dre con le spe­se di ca­sa. La sua ami­ca ave­va un gran­de cuo­re ed an­che se non ne ave­va bi­so­gno la­vo­ra­va vo­len­tie­ri con Lu­na, in quel mo­do ave­va­no l’oc­ca­sio­ne di tra­scor­re­re dell’al­tro tem­po in­sie­me. Si sus­se­gui­ro­no ve­lo­ce­men­te le set­ti­ma­ne tra scuo­la, pal­la­vo­lo, ca­sa e quel la­vo­ret­to al ri­sto­ran­te che a Lu­na fa­ce­va un gran co­mo­do. Era fe­li­ce, a lei ba­sta­va en­tra­re in cam­po per es­se­re nel suo mon­do e di­men­ti­ca­re ogni co­sa.

    Una se­ra do­po una par­ti­ta gio­ca­ta non trop­po be­ne, le ra­gaz­ze de­ci­se­ro di an­da­re tut­te in­sie­me in un pub li vi­ci­no. Le am­pie ve­tra­te fa­ce­va­no in­tra­ve­de­re già da fuo­ri la quan­ti­tà enor­me di per­so­ne am­mas­sa­te all’in­ter­no, ogni ta­vo­lo era pie­no di ra­gaz­zi e ra­gaz­ze che si di­ver­ti­va­no e chiac­chie­ra­va­no. Le ra­gaz­ze en­tra­ro­no fa­cen­do­si lar­go una ad una tra le per­so­ne sti­pa­te per ar­ri­va­re a par­la­re con un ca­me­rie­re e chie­de­re un ta­vo­lo.

    Tut­to pie­no Si­gno­ri­na e la sa­la di so­pra non è ac­ces­si­bi­le, è sta­ta pre­no­ta­ta per una fe­sta pri­va­ta

    Lu­na a quel pun­to cer­cò a fa­ti­ca di rag­giun­ge­re le sue ami­che per ri­fe­ri­re lo­ro che avreb­be­ro do­vu­to cam­bia­re lo­ca­le. Nel men­tre, tra la fol­la, sen­tì il suo no­me. Un ra­gaz­zo con una giac­ca in pel­le blu la sta­va chia­man­do fa­cen­do­le cen­no di se­guir­lo: que­gli oc­chi in­con­fon­di­bi­li le sta­va­no chie­den­do di rag­giun­ger­lo. Lu­na si av­vi­ci­nò

    Ciao ti­po! Che ci fai tu qui?

    Non mi chia­mo ti­po, so­no Eros! Ciao an­che a te, sel­vag­gia Lu­na!

    Eros si tro­va­va sul pri­mo gra­di­no di un’am­pia sca­li­na­ta in le­gno con un cor­do­ne pas­sa­ma­no do­ra­to su en­tram­bi i la­ti che da­va al pia­no su­pe­rio­re. Ave­va pre­so la ma­no di Lu­na e sen­za di­re una pa­ro­la si era vol­ta­to per por­tar­la con sé tra la fol­la al pia­no su­pe­rio­re.

    Ehi ti­po! Noi non pos­sia­mo sa­li­re! C’è una fe­sta pri­va­ta al pri­mo pia­no!

    Sì lo so, è la no­stra fe­sta pri­va­ta. Suo­na Max. È già sce­so a chia­ma­re Au­ro­ra e tut­ta la tua squa­dra, po­te­te sta­re con noi se vi fa pia­ce­re, sa­re­te no­stre ospi­ti

    Lu­na ac­con­sen­tì e la­sciò che quel­la ma­no de­ci­sa e cal­da la gui­das­se al pia­no su­pe­rio­re. Non ave­va idea del mo­ti­vo, ma le bat­te­va for­te il cuo­re. Era con­sa­pe­vo­le che Eros po­te­va ave­re ogni ra­gaz­za sul­la fac­cia del­la ter­ra ed era al­tret­tan­to con­sa­pe­vo­le che non do­ve­va il­lu­der­si di nul­la. Le sta­va strin­gen­do la ma­no so­lo per far­le stra­da tra tut­ta quel­la gen­te, non c’era nul­la di ro­man­ti­co in real­tà in tut­to ciò. Cer­to che quel ra­gaz­zo, i suoi oc­chi ma­gne­ti­ci, la stret­ta dol­ce e si­cu­ra in­sie­me del­la sua ma­no, fa­ce­va­no sus­sul­ta­re il suo cuo­re. Tut­ta la squa­dra sa­lì, fe­ce­ro fe­sta tut­ti as­sie­me ed Eros non dis­se che po­che pa­ro­le a Lu­na. Era un ti­po si­len­zio­so tra la gen­te, ave­va un mo­do di fa­re piut­to­sto mi­ste­rio­so. Ar­ri­vò il mo­men­to dei sa­lu­ti. Max sa­lu­tò Au­ro­ra con un ba­cio ap­pas­sio­na­to, poi sa­lu­tò Lu­na con due ba­ci sul­le guan­ce. An­che Eros sa­lu­tò tut­ti e per ul­ti­ma sa­lu­tò Lu­na con un ba­cio sul­la guan­cia e l’al­tro ap­pe­na ol­tre l’an­go­lo ester­no del­le lab­bra, qua­si a sfio­rar­le. Lu­na ave­va sen­ti­to il cuo­re sob­bal­za­re in quel mo­men­to, era sul­le nu­vo­le, ma im­me­dia­ta­men­te da ra­gaz­za ra­zio­na­le com’era si im­po­se di pen­sa­re che lui, for­se, vo­le­va so­lo ba­ciar­le la guan­cia e si era spor­to un po' trop­po. So­li­ta­men­te non si fa­ce­va trop­pi ca­stel­li in aria, era una ra­gaz­za pra­ti­ca, abi­tua­ta ad ana­liz­za­re i fat­ti sen­za trop­pi vo­li pin­da­ri­ci. Fis­sò i bei mo­men­ti vis­su­ti in quel­la se­ra­ta nel­la sua men­te, en­trò in ca­sa cer­can­do di non fa­re trop­po ru­mo­re per non sve­glia­re Duc­cio che rus­sa­va ru­mo­ro­sa­men­te ol­tre la por­ta del­la sua ca­me­ra e si mi­se a dor­mi­re.

    Come una favola

    Un gior­no, do­po aver do­mi­na­to i ven­ti, le on­de, le ma­ree e la gra­vi­tà, im­bri­glie­re­mo l’ener­gia dell’amo­re: e per la se­con­da vol­ta nel­la sto­ria del mon­do, l’uo­mo avrà sco­per­to il fuo­co.

    Pier­re Tei­lhard De Char­din

    Sci­vo­la­ro­no in fret­ta i gior­ni e Lu­na cer­cò di pen­sa­re il me­no pos­si­bi­le al­le lab­bra di Eros co­sì vi­ci­ne al­le sue. Ave­va ben al­tro a cui pen­sa­re; la spe­sa da fa­re, le la­va­tri­ci, qual­co­sa da cu­ci­na­re per lei e Duc­cio ed i con­ti di ca­sa da far tor­na­re con il po­co che ave­va­no. Lei era con­sa­pe­vo­le che suo pa­dre era sin trop­po bra­vo a con­ti­nua­re a la­vo­ra­re nel­le sue con­di­zio­ni ed im­ma­gi­na­va il ca­ri­co che Duc­cio do­ve­va sen­ti­re sul­le sue spal­le. En­tram­bi, pe­rò, era­no bra­vi a smi­nui­re il pe­so di quel­la sin­go­la­re vi­ta in­sie­me, bat­ti­bec­can­do e scher­zan­do co­me due ra­gaz­zi­ni.

    Lui vo­le­va un be­ne dell’ani­ma a Lu­na e Zoe, ave­va sem­pre fat­to tut­to il pos­si­bi­le per lo­ro. Era in­va­li­do, si era sal­va­to per mez­zo mi­ra­co­lo da una ter­ri­bi­le ma­lat­tia quan­do non ave­va an­co­ra di­ciot­to an­ni. Era ca­du­to in bi­ci ma­ri­nan­do la scuo­la ed il gi­noc­chio de­stro ave­va pre­so un for­te col­po, era di­ve­nu­to gon­fio e vio­la­ceo. Fu quin­di por­ta­to in ospe­da­le per aspi­ra­re il li­qui­do del­la bot­ta dal gi­noc­chio. Fu ane­ste­tiz­za­to, ma una vol­ta in­ci­so con il bi­stu­ri il gi­noc­chio i me­di­ci si ac­cor­se­ro che c’era ben al­tro ol­tre al li­qui­do da aspi­ra­re. Un tu­mo­re si sta­va ra­pi­da­men­te dif­fon­den­do nel­la gam­ba ed ave­va già in­tac­ca­to l’os­so. Duc­cio ave­va per­so suo pa­dre im­prov­vi­sa­men­te qual­che an­no pri­ma, i me­di­ci chia­ma­ro­no sua ma­dre per in­for­mar­la di quan­to ave­va­no ri­scon­tra­to. Era ne­ces­sa­rio de­ci­de­re im­me­dia­ta­men­te, per ten­ta­re di sal­va­re il ra­gaz­zo l’uni­ca stra­da era quel­la di am­pu­ta­re la gam­ba all’al­tez­za del­la co­scia e spe­ra­re che il tu­mo­re non si fos­se già dif­fu­so ol­tre. Esi­ta­re nel­la de­ci­sio­ne avreb­be po­tu­to si­gni­fi­ca­re con­ce­de­re il tem­po al­la ma­lat­tia di rag­giun­ge­re l’an­ca, con­dan­nan­do il gio­va­ne Duc­cio a mor­te cer­ta. Sua ma­dre, si tro­vò ca­ta­pul­ta­ta in una real­tà che le sem­bra­va un in­cu­bo, nel­la ne­ces­si­tà di pren­de­re all’istan­te quel­la ter­ri­bi­le de­ci­sio­ne, da so­la. Con la mor­te nel cuo­re, fir­mò il con­sen­so all’ope­ra­zio­ne, che fu fat­ta su­bi­to. Duc­cio si sve­gliò dall’ane­ste­sia co­sì, im­pre­pa­ra­to, scon­vol­to e per sem­pre di­ver­so. Dal­le ana­li­si sco­pri­ro­no più tar­di che si trat­ta­va di un sar­co­ma, un tu­mo­re ma­li­gno con al­tis­si­mo tas­so di mor­ta­li­tà, so­prat­tut­to ne­gli an­ni ses­san­ta quan­do la me­di­ci­na in ma­te­ria do­ve­va an­co­ra com­pie­re gran­di pro­gres­si. Lui pe­rò era di tem­pra for­te e spriz­za­va vo­glia di vi­ve­re da tut­ti i po­ri. Era gio­co­so e vi­va­ce co­me tut­ti i ra­gaz­zi del­la sua età, ri­fiu­tò an­che la pic­co­la pen­sio­ne che gli era sta­ta of­fer­ta: vo­le­va la­vo­ra­re co­me tut­ti i suoi coe­ta­nei, vo­le­va co­strui­re qual­co­sa, vo­le­va sen­tir­si sem­pli­ce­men­te nor­ma­le. Qual­che an­no do­po in­con­trò in una gi­ta tra ra­gaz­zi di­sa­bi­li Ines; era bel­lis­si­ma. Si era av­vi­ci­na­to sen­za far­si no­ta­re per ascol­tar­la, men­tre par­la­va al suo grup­pet­to di ami­ci di poe­sia e di ar­te e rac­con­ta­va dei co­lo­ri vi­va­ci del luo­go me­ra­vi­glio­so do­ve ave­va stu­dia­to e poi era riu­sci­ta a di­plo­mar­si: Ar­co di Tren­to. Lì le mon­ta­gne a pic­co sci­vo­la­no sul ver­de del la­go. Ave­va un sor­ri­so bian­chis­si­mo e con­ta­gio­so, lun­ghi ca­pel­li ne­ri lu­cen­ti ed oc­chi di un ver­de bril­lan­te. Sem­bra­va co­sì si­cu­ra di sé, tan­to che le per­so­ne si fer­ma­va­no ad ascol­tar­la par­la­re. Duc­cio se ne in­na­mo­rò im­me­dia­ta­men­te. Fe­ce di tut­to per far­si no­ta­re e per far­la in­na­mo­ra­re, le rac­con­tò bar­zel­let­te, le re­ga­lò fio­ri, suo­nò per lei la chi­tar­ra in ri­va al ma­re. Lui non era mai si­cu­ro al cen­to per cen­to di qual­co­sa, era di in­do­le ti­tu­ban­te; tran­ne quan­do in­con­trò Ines. In quel mo­men­to ca­pì sen­za om­bra di dub­bio che avreb­be vo­lu­to spo­sar­la. E co­sì fu. Tra­scor­se­ro gli an­ni e pur­trop­po ora Ines non era più ac­can­to a lui, strap­pa­ta via dal­la sua fa­mi­glia con la for­za, da un ma­le si­mi­le a quel­lo che ave­va qua­si uc­ci­so Duc­cio. Ora, in quell’ap­par­ta­men­to era­no ri­ma­sti so­lo Lu­na e suo pa­dre; lei era con­sa­pe­vo­le di tut­ta la sof­fe­ren­za e la fa­ti­ca che egli por­ta­va nel cor­po e nel cuo­re. Po­te­va qua­si im­ma­gi­na­re il suo do­lo­re ogni vol­ta che all’al­ba si in­fi­la­va quel­la pro­te­si sa­pen­do che avreb­be sen­ti­to do­lo­re an­co­ra, sem­pre ne­gli stes­si pun­ti, per la­vo­ra­re in fab­bri­ca ot­to ore e por­ta­re a ca­sa i sol­di per la spe­sa. Lei era mol­to or­go­glio­sa di lui, an­che se non glie­lo di­ce­va mai. Duc­cio fa­ce­va tut­to il pos­si­bi­le per ra­ci­mo­la­re qual­co­sa in più, ave­va scel­to di la­vo­ra­re a tur­ni per ar­ro­ton­da­re e con­vi­ve­va con la rab­bia di aver ri­fiu­ta­to da gio­va­ne quel­la pic­co­la pen­sio­ne che in­ve­ce gli avreb­be fat­to co­mo­do. Ora non gli era più con­ces­sa a me­no che egli non de­ci­des­se di ab­ban­do­na­re ogni al­tro red­di­to, quin­di il la­vo­ro. Ma con due­cen­to­cin­quan­ta eu­ro al me­se ed una fi­glia a ca­ri­co non si vi­ve. Quin­di la­vo­ra­va con fa­ti­ca e sof­fe­ren­za, per por­ta­re avan­ti ciò che re­sta­va del­la fa­mi­glia che ave­va de­si­de­ra­to e co­strui­to con Ines. A Lu­na pian­ge­va il cuo­re quan­do lo sen­ti­va la­men­tar­si di not­te per i ner­vi del mon­co­ne che ti­ra­va­no, sa­pen­do che po­che ore do­po avreb­be do­vu­to in­fi­lar­si an­co­ra quel­la pro­te­si, strin­ge­re i den­ti per il do­lo­re del­le pia­ghe da sfre­ga­men­to ed an­da­re al la­vo­ro. Una par­te di lei avreb­be vo­lu­to gri­da­re al mon­do che tut­to que­sto non era giu­sto. Era con­sa­pe­vo­le di tut­to e pro­va­va a so­ste­ner­lo con ogni mez­zo. Ser­vi­va al ri­sto­ran­te, an­da­va in bi­ci a scuo­la per­ché l’au­to­bus co­sta­va trop­po. C’era una bor­sa di stu­dio, per ot­te­ner­la era ri­chie­sta una me­dia dell’ot­to per ave­re gra­tui­ta­men­te tut­ti i li­bri di te­sto nuo­vi ogni an­no. Lu­na stu­dia­va fi­no ad ave­re una me­dia cer­ta dell’ot­to, poi met­te­va via tut­ti i li­bri, suo­na­va il cam­pa­nel­lo di An­dré ed in­sie­me ti­ra­va­no un pez­zo di na­stro da can­tie­re bian­co e ros­so: quel­la era la lo­ro re­te. Gio­ca­va­no a pal­la­vo­lo fi­no a quan­do la lu­ce del gior­no sfu­ma­va nel ros­so del tra­mon­to, fi­no a quan­do il pal­lo­ne sem­pli­ce­men­te non si ve­de­va più. Suo pa­dre era or­go­glio­so di lei, si ve­de­va dal suo sor­ri­so sod­di­sfat­to ogni vol­ta che Lu­na ar­ri­va­va a ca­sa sal­tel­lan­do fe­li­ce con una nuo­va me­da­glia in ma­no. Le pia­ce­va lo sport, da sem­pre. Era una gio­ia per Duc­cio ve­de­re che sua fi­glia, na­ta da due per­so­ne con dif­fi­col­tà mo­to­rie, non so­lo cor­re­va, ma vin­ce­va ga­re di ve­lo­ci­tà, cor­sa ad osta­co­li e sal­to in lun­go. Lui non si per­de­va una par­ti­ta di pal­la­vo­lo, era sem­pre pre­sen­te su­gli spal­ti, qual­che vol­ta fa­ce­va il ti­fo, qual­che al­tra per di­ver­tir­si la pren­de­va in gi­ro da­van­ti a tut­ti per far­la ar­rab­bia­re. Le gior­na­te tra­scor­re­va­no in quel­lo stra­no equi­li­brio,

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