Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il mio amore è giallo
Il mio amore è giallo
Il mio amore è giallo
E-book196 pagine3 ore

Il mio amore è giallo

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

Questa storia inizia con una fine, la fine dell'amore tra Irene e Luca. Si sono amati alla follia e, senza che nessuno dei due abbia potuto impedirlo, quell'amore è finito. Irene non riesce a capacitarsene e qualche tempo dopo continua la sua vita a fatica, attanagliata dal dolore.
Una sera alla sua porta bussa Amelia, una ragazza caparbia e invadente, che le mostra una foto del suo vicino di casa scomparso. Quest'ultimo, Flavio, per motivi sconosciuti, aveva un foglio nel cassetto con scritto l'indirizzo di Irene. Eppure lei non lo ha mai visto e non ha idea di chi sia.
In poco tempo Irene si trova invischiata in una storia che sembra non appartenerle ma su cui pian piano cerca di far luce. Tra le due donne, così diverse, si instaura un legame fatto di scontri e ironia, ma soprattutto di una profonda comprensione.
Poi, un indizio di Flavio: qualcuno sta spiando Amelia da giorni, mesi, in un auto appostata fuori casa. C'entra forse con la sparizione del ragazzo? Tutto si complica fino ad arrivare ad un finale in cui si nota come il destino abbia giocato le sue carte, ogni pezzo del puzzle si ricompone e ogni singola storia diventa parte di un intreccio più grande.
 
LinguaItaliano
Data di uscita10 ott 2015
ISBN9788892505209
Il mio amore è giallo

Correlato a Il mio amore è giallo

Ebook correlati

Relazioni per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il mio amore è giallo

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il mio amore è giallo - Arianna Mari

    Epilogo

    Parte 1. Prologo

    PARTE 1

    PROLOGO

    Irene lo aveva guardato voltarsi e andare via a passo lento, incerto. Avrebbe potuto fermarlo, ma non lo fece. Luca divenne a poco a poco un punto nero tra punti neri, una macchia sbiadita tra visi e mani e piedi come tanti altri. E lei rimase lì a desiderare che tutto tornasse a posto – lo desiderò ardentemente, illudendosi che se ogni cellula del suo corpo l'avesse richiamato lui sarebbe tornato per davvero. Ma era una richiesta impensabile e inutile.

    I segnali premonitori della fine avevano cominciato a invaderli -invadenti- a ogni ora, spuntavano negli angoli, affioravano negli spigoli di quel loro rapporto ormai deteriorato; e loro cocciuti li avevano ignorati con forza. Avevano chiuso un occhio e poi due, così si erano ritrovati a camminare ciechi su rette parallele, senza mai lasciarsi la mano.

    Ma Irene lo aveva sentito dentro che qualcosa era cambiato, e che l'irrimediabile aveva ormai già preso forma. «È un percorso intorno al cratere di un vulcano, giriamo in tondo, schivando i lapilli. Precipiteremo, di questo passo» aveva sussurrato, una sera che erano stesi sul letto a fissare il soffitto. La voce rotta, un velo di stanchezza come coperta.

    Luca era rimasto in silenzio per un po', poi si era grattato la barba con un gesto distratto. E, inaspettatamente, si era girato verso di lei rispondendo «Bruceremo.»

    Era stato allora che l'avevano ammesso. E i segnali della fine avevano cominciato a lampeggiare e chiudere gli occhi, a quel punto, era stato impossibile. Era piovuto veleno.

    Irene Caino per lui, e Luca Caino per lei. Irene sputava parole di rabbia, e il risentimento le serrava la gola. Ci pensa adesso, ora che la sagoma di Luca si è persa tra tante altre sagome.

    Luca diventò il Caino dei suoi sogni neri. A cosa serve esserci stati se poi di noi non resta niente, neanche un'ombra? A cosa è servito viverci se poi ci siamo troncati a metà?

    Le viene in mente un ricordo. Avevano appena deciso di andare a vivere insieme. Cercarono casa ovunque ma non avevano abbastanza soldi per niente che riuscisse a soddisfarli. Alla fine, la casa giusta era arrivata. L'avevano saputo da subito che sarebbe stata la loro. Luca, allora, l'aveva abbracciata, ed era così felice. Aveva uno di quei sorrisi veri, ricchi di speranza sincera. Per la prima settimana dormirono su due brandine, e fissarono il soffitto discutendo su quali mobili di Ikea comprare. Li avevano disegnati con le dita, proprio lì in alto, come se con i sogni si potesse costruire materialmente un futuro. L'avevano reso possibile? Ci erano riusciti? Ma era accaduto molto prima che arrivassero i silenzi. Il non detto marcio, la distanza infame.

    Le pareti avevano cominciato a creparsi. Ed erano arrivati il matrimonio, e quel nuovo lavoro che Luca voleva tanto, e la gioia della nascita di un figlio. In mezzo, però, solo crepe, falle.

    «Cosa ci è successo?» aveva chiesto Luca prima di sparire tra la folla.

    «Continuava a piovere dal nostro tetto, e il rumore dello sgocciolio copriva le nostre voci» aveva risposto Irene. Lui capì. Luca aveva capito che ad un tratto lo sgocciolio era diventato fiume e che la potenza devastante di quell'acqua nera e sporca aveva distrutto mura un tempo solide. La loro casa si era allagata e avevano preso ad annaspare, in cerca di galleggianti. Loro a cercare di aggrapparsi l'un l'altro, per non affogare, a tentoni, a volte con irruenza, altre con dolcezza, graffiandosi con le unghie, bagnandosi di paura. «Imbarchiamo acqua, amore mio» si dicevano in quei pochi momenti di lucidità, ma non potevano far altro che dimenarsi, invano. E in mezzo il loro amore, lì, inerme. Condannato.

    Giovedì

    GIOVEDì

    Irene non si guarda più allo specchio, ha paura di leggervi dentro la disperazione. Ha paura di quelle minuscole rughe attorno agli occhi, no, di quelle no, teme di più le occhiaie nere, le labbra secche, il pallore, tutti i segni del suo profondo malessere. Passa davanti alle auto in sosta e guarda il suo riflesso di sfuggita, le basta per capire che, se si specchiasse con attenzione, non riceverebbe altro che la visione di una donna in pezzi: un'immagine unica di molteplici pezzi dispersi. Lo pensa mentre accelera il passo, sbirciando l'orologio. Manuele esce da scuola tra qualche minuto, e lei ha fatto tardi, ancora una volta. Non riesce a pensare anche a quanto si senta una pessima madre. Non sa dove sia quel pezzo di lei, forse insieme a tutti gli altri, dispersi.

    Nelle ultime sere insonni, si stringeva le braccia al petto, quasi a volersi assicurare di essere ancora lì tutta intera. Si abbracciava da sola, praticamente, ed evitava ostinatamente di dormire verso il lato vuoto del letto. A volte, la sagoma di Luca le appariva d'un tratto e lei non poteva fare a meno di provare quella fitta di dolore. Allora dormiva di spalle, a costo di procurarsi il mal di schiena, che tanto di dormire non se ne parlava. Ma non le bastava per scacciarlo dalla mente. Se lo vedeva lì, col suo pigiama azzurrognolo per cui l'aveva tanto preso in giro, intento a leggere uno dei suoi gialli. Se lo vedeva nudo accanto a lei, dopo averla accarezzata e portata al piacere, stringerla al petto, le coperte buttate a terra, un reggiseno qua e dei jeans di là, un fermacapelli e l'involucro del preservativo, un puzzle di resti lì sul pavimento. «Come faremo quando Manuele crescerà?» le chiedeva Luca ironico, tornando a far scorrere la mano lungo la sua coscia, le labbra increspate in un sorriso. Quando poi anche il ricordo della sua voce invadeva la stanza, Irene cominciava a sentirsi soffocare e quasi si strozzava nell'emettere singhiozzi che faticavano a uscire. Quando una voce non la dimentichi, vuol dire che non l'hai ancora persa, l'altra persona. Ma se non l'hai persa, perché sembra che sia esattamente così? Le voci possono perseguitarti, nel tentativo di non perderle o di dimenticarle. Voci, dannate voci. Alla fine Irene si addormentava sul cuscino bagnato, la testa che doleva, gli occhi gonfi. Sveniva, non dormiva. Stringeva il lenzuolo con rabbia, e solo allo stremo delle forze cadeva in un sonno inquieto. Fa che finisca presto, fa che passi presto.

    Adesso stringe la borsa, mentre quasi si mette a correre lungo il viale alberato. Folate di vento le scompigliano i capelli e foglie autunnali svolazzano ovunque. Giunta di fronte all'edificio, attende insieme ad altre donne l'uscita da scuola dei bambini. Le guarda tutte, qualcuna la saluta, qualcuna la fissa dall'alto al basso. Allora lei si tocca nervosamente i capelli, cercando di aggiustarli, di darsi un tono. Confrontarsi con quelle altre mamme era come scendere in un'arena di leonesse, tutte agguerrite e convinte di essere migliori delle altre. Più protettive, più in gamba, più di esempio. E Irene si sente la sola a essere un'inetta, incapace di dare a suo figlio l'unica cosa che sperava non gli mancasse mai: una famiglia.

    Quando i bambini cominciano a uscire, accompagnati dalla maestra, coi loro grembiulini e gli zainetti, Irene alza il collo per cercarlo. Ed eccolo lì, un bambino di sei anni, il suo, con i capelli biondo scuro come il suo papà, venirle incontro raggiante. Irene allora lo abbraccia forte e gli scompiglia un po' i capelli, sentendosi inondata di amore.

    «Com'è andata, tesoro?» gli chiede, prendendo quel suo zainetto verde e giallo. W la scuola, c'è scritto sopra.

    «Bene, mami. Abbiamo fatto gli insiemi» dice lui, e le stringe la mano. Si incamminano entrambi verso casa, si allontanano dai clacson e dal traffico. E poi Manuele racconta tutta la sua giornata con fare confuso ed eccitato, perché lui è un tipo a cui piace descrivere ogni cosa, fino alla noia, ma sua madre lo ascolta contenta.

    «Te l'ho detto che la prima elementare è un'altra cosa» dice Irene, sorridendo.

    Li aspetta un pomeriggio a fare i compiti e vedere cartoni animati. Irene sente che se non avesse questa routine e l'obbligo di occuparsi di un altro umano, probabilmente adesso sarebbe scomparsa. Evaporata. Ma non può farlo, perché c'è un esserino che le stringe la mano, minuscola, che le sorride con due denti mancanti. Allora inspira e torna a casa, meno vuota di prima e più vuota di quanto avrebbe voluto. Apre il cancelletto, sale le due rampe di scale del palazzo. Secondo e ultimo piano.

    Zona residenziale, tranquilla, da lontano si vede anche una striscia di mare. Infila le chiavi nella toppa, con Manuele che si lamenta «Ho fame, mamma, ho tanta fame!» Entra in casa, la loro casa, ogni mobile costruito con dedizione, con cura, ogni oggetto scelto o finito lì per caso. Irene decide di preparare le crepes, perché non cucina mai niente di buono e perché vuole condividere con Manuele le cose belle. E lei, da bambina, avrebbe tanto voluto delle buone crepes da mangiare davanti alla tv, anziché una madre scontenta che le metteva davanti il pacco di cereali.

    Non diventerà un bambino viziato, si ripeteva, consapevole che invece stava cercando di viziare se stessa. Poi, quando si sono saziati, studiano gli insiemi, tre mele in uno e due nell'altro, il piccolo le colora. «Hai mai visto delle mele blu?» gli chiede lei sbirciando.

    «Non ho mica finito!» ribatte lui, offeso, coprendo il foglio con le braccia.

    Quando cala la sera, Irene reprime un brivido. È quello il momento più difficile, per lei. Ha messo Manuele a dormire dopo aver sbocconcellato qualcosa per cena. Luca ha chiamato, come tutte le sere, ma lei come sempre non gli ha detto granchè, frasi di circostanza. Gli ha passato suo figlio con un gesto automatico, come se dall'altra parte della cornetta ci fosse stata solo e soltanto una sagoma. Era così che doveva vederlo, null'altro.

    Ora che è sera, però, sente di nuovo che i pezzi crollano, e le mani e i gomiti si piegano, le dita rotolano via, le sopracciglia perfino cascano, e le gambe si staccano. Si sbrindella tutta. Sono tre giorni che non lavora, e questo non l'ha per niente aiutata. Il suo capo, Fulvio, le ha detto che sarebbe stato meglio per lei. Ne aveva passate tante, nell'ultimo periodo. Ma lui, che pur sapeva i fatti, cioè che Luca era andato via, non sapeva certo che la routine era l'unica cosa che le permetteva di non impazzire. «Gli articoli si scriveranno anche senza di te, cara» aveva detto, facendola sentire assolutamente non indispensabile. I miei articoli li scriverà qualcun altro, vorrai dire, pensò lei. Ma aveva accettato, perché non aveva scelta e perché le sembrava che ultimamente niente di ciò che scriveva avesse un senso. Doveva ritenersi una donna indipendente, colta, impegnata, invece dentro sé pensava che questi erano solo aggettivi privi di significato, svuotati di senso. Lo pensa ancor di più adesso che Manuele dorme e lei resta sul divano a fissare la tv accesa.

    Poi, alle ventidue e trentasette, suona il citofono. Irene sussulta, ancora vestita di tutto punto, senza trucco, le mani intrecciate nei pensieri, le unghie rosicchiate dalle ansie. Si appresta a rispondere, ma ode solo un respiro pesante. «Chi è?» domanda, ma continua a sentire solo un'asma minacciosa, un affanno. Chiude e va a sbirciare dalla finestra, in preda alla paura. Ciò che vede è solo una ragazza, non riesce a riconoscerla, ha capelli neri?, sì, ma chi può essere? Il citofono suona ancora e lei risponde subito, in tensione, temendo che Manuele possa svegliarsi.

    «Chi sei?» chiede adesso, più decisa.

    «Ho bisogno di parlarle» un sussurro.

    «È tardi...» ribatte Irene. «Si può sapere chi sei?»

    «Le giuro che se mi apre le spiegherò tutto. Glielo giuro. Non voglio derubarla, voglio solo parlarle...»

    «Torna domattina allora.»

    Irene aggancia, basita. Non sa che pensare. Si guarda intorno, dubbiosa. Chi diavolo è quella ragazza? Perchè mai ha quel tono di urgenza nella voce? Si affaccia ancora, attenta a non farsi vedere. La cucina e il salotto, che formavano un'unica stanza, avevano una finestra che affacciava proprio di fronte al cancello d'entrata. Sposta la tenda per sbirciare. Capelli neri, illuminati solo da quella fioca luce del lampione. La ragazza è ancora lì. Possibile che indossi un vestito giallo?

    Che accidenti…. Passano i minuti, e non va via. Allora Irene lo nota, ha le spalle che vanno su e giù. Sta piangendo. Non vede i suoi occhi né le sue lacrime, ma vede quel movimento della schiena che le è familiare, quella sensazione di strozzarsi nel proprio panico. Non ha idea di cosa sia successo ma afferra il citofono e dice «Sali». Chiude a chiave la porta di Manuele, per tenerlo al sicuro, poi guarda dallo spioncino. Vede solo un viso distorto, degli occhi azzurri eppure scuri, delle labbra mordicchiate. Apre la porta, poco, giusto per vederla. Quando apre e la ragazza incontra i suoi occhi, Irene nota che sono asciutti, ma al contempo sembra davvero che stia piangendo. Piange con il corpo. Piange con il tremito della colonna vertebrale, piange con l'espressione, piange con la mascella serrata. Perfino con le spalle, tese, innaturalmente rigide.

    È un salice, è prima cosa che pensa Irene di lei. Un salice giovane, bello, sfacciato. Che cerca di resistere a chissà cosa.

    «Che succede?» le chiede, aprendo un po' di più l'uscio.

    «Mi può aiutare?» chiede lei, e cerca di estrarre una foto dalla tasca posteriore dei suoi jeans, ma le cade a terra e la raccoglie. La porge, con un gesto scattoso. È la foto di un ragazzo. Sembra guardare sopra l'obiettivo, un po' sorpreso. È su una spiaggia, con una maglia scolorita, folte sopracciglia castane, si vede che respira aria d'estate.

    «Chi è?»

    «Non… non lo conosce?» La ragazza sembra allibita. «No, non è possibile» mormora.

    «Non l'ho mai visto.»

    «Ne è assolutamente sicura?»

    «Sì. O almeno così mi pare...»

    «Le pare o lo sa?» la aggredisce allora la ragazza, gli occhi lampeggianti.

    «Hei ragazzina» reagisce Irene « ti ho detto di no. Perchè mai dovrei conoscerlo?»

    Quella sembra di nuovo sgonfiarsi. Da salice a quercia a salice ancora.

    «Era… ero… così convinta che...» biascica. Poi guarda Irene dritta negli occhi, sembra voglia fare qualcosa, implorarla o gridare o spingerla, e scappa via.

    La ragazza si chiama Amelia, e amava girovagare per la città. Una volta le piaceva camminare, o fermarsi ad osservare i passanti, perder tempo. Che significa poi perdere tempo? Non è che il tempo lo puoi fermare o riacciuffare, allora tanto vale che ti fermi e lo lasci scorrere su di te. Si sedeva su una panchina, all'inizio le sembrava strano farlo da sola, giocare così con le ore. Non era abbastanza grande ma non si sentiva neanche così piccola, ma tanto non si era sentita mai né l'una né l'altra cosa. Forse piccola troppo spesso, piccola rispetto agli eventi e alle cose, piccola rispetto al mondo. Una cellula. Se lo ricorda ancora quel periodo, adesso, quando né piccola né grande vagava per la città in cerca di qualcosa che neanche sapeva definire. Pomeriggi deserti, panchine solitarie, un leggero vento di compagnia. Poi, tutto a un tratto, aveva smesso. Si era creata un nuovo nido, delle abitudini nuove, era venuto il suo Anno Felice e aveva perso la voglia di girare senza meta.

    Forse era cominciato quando lo aveva conosciuto. Quando quella volta gli avevano presentato Flavio, lei neanche l'aveva notato. Era così ubriaca che non gliene fregava niente di nessuno se non di continuare a bere. Si erano scambiati qualche parola, tutti erano ubriachi in quel bar da quattro soldi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1