Un’anima chiamata papà
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Anteprima del libro
Un’anima chiamata papà - Flavia Segnan
EPILOGO
LETTERE
Il miglior modo di presentare papà è quello di cedergli subito la parola.
Lo faccio riportando alcuni brani delle lettere d’amore, di speranza e di sofferenza che ha indirizzato a mia madre durante il secondo conflitto mondiale e che ho avuto il coraggio di leggere solo di recente.
In esse ho risentito la determinazione, l’abnegazione e l’idealismo che lo caratterizzavano e che erano già presenti e maturi nel giovane uomo di ventitré anni che scriveva alla sua innamorata, in un periodo drammatico della sua esistenza.
Nella complessità della storia di Trieste del 1945, la guerra, ormai conclusa nel resto dell’Italia, continuava ancora, tra la momentanea indifferenza dei potenti impegnati in quel momento nei grandi giochi che si svolgevano altrove.
Le truppe titine
erano arrivate in città per prime, con marcia accelerata, poiché il comandante Tito ben sapeva quanto poteva essere strategicamente importante, per annettere Trieste alla Jugoslavia, risultare il primo liberatore della città dai nazisti, che ancora vi resistevano.
Durante i quaranta giorni dell’occupazione jugoslava della città da parte di queste truppe, si consumò un’orrenda epurazione. Le foibe, cavità naturali disseminate sul Carso triestino, profondi antri scavati nella roccia calcarea dall’acqua piovana, hanno rappresentato per molti anni la tomba perlopiù sconosciuta delle migliaia di vittime.
Le truppe neozelandesi, arrivate in un secondo momento, non avevano ordini precisi per intervenire direttamente contro i loro alleati titini e fermare quel massacro che si svolgeva sotto i loro occhi.
Bastava una semplice delazione, qualcuno che dicesse che eri italiano e che eri stato fascista e il tuo destino era segnato.
Questa opportunità ha fatto sì che si consumassero molte vendette personali.
Vittima di una di queste, anche mio padre.
Una mattina irruppe in casa dei miei nonni materni un partigiano
, un ragazzo che egli conosceva, per prelevarlo, fucilarlo e, se il destino non si fosse troppo accanito contro di lui, gettarlo nella foiba già morto.
A salvargli la vita un soldato neozelandese, che scelse proprio quel momento per venire a ritirare la biancheria che aveva affidato a mia nonna perché la lavasse.
Con prontezza di spirito e grandezza d’animo questo giovane garantì sulla estraneità di papà ai fatti politici, affermando altresì l’esistenza di una sua amicizia personale con la famiglia.
Molti sono stati i neozelandesi che hanno rischiato personalmente in quel periodo, prima che gli ordini superiori dessero finalmente una svolta a questa brutta storia.
Dopo questo episodio, papà si nascose in una casa a Trieste.
Egli sapeva chi lo aveva segnalato e sapeva anche la motivazione vera di tale delazione.
Nella sua incapacità di serbare rancore e anche quando il suo lavoro nella Polizia di Stato glielo avrebbe consentito, non ha mai utilizzato questa possibilità per vendicarsi.
Lui aveva vinto la sua battaglia per la vita, la guerra era lontana e non spettava a lui farlo.
Aveva semplicemente perdonato.
Fiume 22 aprile 1945
Mia adorata Elda,
sono arrivato fin da ieri mattina a Fiume, ma siccome ho fatto diversa strada a piedi non ho potuto scriverti subito, come era mio desiderio, data la forte stanchezza.
Non ti ho un solo istante dimenticata, ma bensì eri continuamente accanto a me e a questa gioia si confondeva il dolore della lontananza di poche ore allora, ma adesso non so quando ti potrò rivedere.
La situazione qui è eccessivamente tesa; il cannone tuona continuamente e si sente il crepitio della mitraglia, che mi dà un certo senso di scoraggiamento, di infelicità perché mi impedisce certamente di esserti accanto, per un tempo non