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Facebook-Blues
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E-book271 pagine4 ore

Facebook-Blues

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Info su questo ebook

Facebook blues è un tenero e spassoso romanzo sulla (nostra) vita al tempo dei Social. Due amiche: Renata, divorziata, è una fanatica di Facebook, Marta è infelicemente sposata con un marito ormai anziano, che detesta ma non ha il cuore di lasciare. Proprio a lei però accade qualcosa: il grande amore della sua vita, un americano conosciuto durante il viaggio di nozze e con cui aveva avuto una storia clandestina molto intensa, ricompare in rete dopo vent'anni, durante i quali lei aveva creduto di averlo perso per sempre…
Un romanzo che, facendo un'analisi spietata e umoristica del magico mondo dei Social e delle sue nevrosi che possono dare dipendenza, ci parla di ciò che è proprio dell'uomo. Il bisogno di comunicare, di colmare le distanze, l'amicizia e la confidenza, le incomprensioni che possono essere superate, i figli che si abbracciano anche se sono diversi da come ti aspetti, e l'amore, che quando si incontra, non si deve lasciar andare.
LinguaItaliano
Data di uscita9 ago 2018
ISBN9788833860923
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    Anteprima del libro

    Facebook-Blues - Laura Bettanin

    Tavola dei Contenuti (TOC)

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Ringraziamenti

    ©

    2018

    Miraggi Edizioni

    via Mazzini

    46

    ,

    10123

    Torino

    www.miraggiedizioni.it

    Progetto grafico Miraggi

    In copertina: Ashtyn Warner, Saltwater Room

    Finito di stampare a Città di Castello

    nel mese di aprile

    2018

    da CDC Artigrafiche

    per conto di Miraggi Edizioni

    su carta Book Cream Avorio

    80

    gr.

    Prima edizione digitale: luglio

    2018

    isbn

    978-88-3386-092-3

    Prima edizione cartacea: aprile

    2018

    isbn

    978-88-99815-58-5

    golem / romanzo

    a Pit

    Uno

    Non mi risponde.

    Gli ho scritto che non sto bene e lui niente, neanche una parola. Sono passate due ore. Quasi due ore. Ogni tanto mi alzo, accendo la TV, passo da un programma all’altro, poi torno, controllo. Niente. Resto lì a fissare la casella di posta. Il messaggio è spuntato. Dice Visualizzato:

    14

    .

    34

    . L’ha letto un’ora fa. Guardo. Fisso. Mi chiedo perché. Mi chiedo dove cazzo sia. Cosa stia facendo visto che è sempre collegato a Messenger.

    Una volta era successo che mentre fissavo le ultime parole che gli avevo scritto, all’improvviso le palline della sua casella avevano cominciato a ballonzolare. Stava rispondendo. Mi era preso un colpo. Avevo chiuso di scatto la casella ed ero rimasta ad aspettare che l’icona si illuminasse di rosso. Come vai?, dicevano le prime parole. Scusa non ho… e poi basta. Dovevo aprire il messaggio per saperne di più. Ma allora lui avrebbe capito che ero lì, scalpitante, che non aspettavo altro che ricevere la sua risposta. E io non volevo che lo sapesse.

    Quando Facebook era approdato in Italia, avevo una storia con un chiropratico. Credo fosse il

    2008

    . Lui era scuro, zigomi da apache e dodici anni meno di me. Sapeva tutto di reiki, agopuntura, cromoterapia e teletrasporto. Per il resto, tabula rasa. Mi trattava la schiena con tecniche shiatsu che non mi davano nessun beneficio, ma alla fine si teneva una mezz’oretta per noi. Mi sono aperto una pagina Facebook, aveva detto un pomeriggio mentre ci rivestivamo. E cos’è?, avevo chiesto. Un social network, aveva risposto, lo voglio usare per aumentare i clienti.

    Roba per ragazzini, mi ero detta, gente che ha tempo da perdere in giochetti telematici. Figuriamoci se io, con un marito, un figlio e un lavoro da segretaria otto ore al giorno, mi mettevo a gingillarmi con stupidate del genere. Fino a che, tre anni dopo, la mia amica Renata non mi aveva telefonato una sera alle dieci passate.

    È vivo!, aveva ansimato eccitata. Non è morto. Lo abbiamo trovato su Facebook!

    Mio marito dal divano si era girato a guardarmi. Chi è? Aveva fatto con un’alzata di sopracciglia e le dita unite a grappolo. Renata, avevo sillabato.

    Ma di chi parli, le avevo chiesto, non sai che ore sono? Non puoi parlare? Certo che no. Jeremy, era sbottata lei.

    Avevo lanciato un’occhiata a mio marito. Stava con le gambe allungate sul pouf e aveva alzato il volume del televisore. Mi ero spostata in camera. Sdraiata sul letto.

    Non scherzare, avevo detto a Renata. Te lo assicuro! Non prendermi in giro! Marta, ti pare che ti prenderei in giro su una cosa del genere? Che ti prenderei in giro proprio su Jerry, come se avessi dimenticato quanto ci hai pianto, quanto hai sofferto, quanto l’hai cercato? Marta, è lui! Non chiamarlo Jerry, lo sai che non mi è mai piaciuto. Ah già, si era messa a ridacchiare lei, per via dei cartoni animati. Smettila!Marta!, aveva chiamato mio marito. Arrivo!

    Quello stronzo ti comanda sempre a bacchetta, eh? Ci sentiamo domani mattina, avevo risposto, ti chiamo io appena lui va in ufficio, ed ero tornata in soggiorno.

    Cosa le prende a quella stupida di telefonarti alle dieci di sera, aveva fatto lui. Niente, è in ansia perché suo figlio non risponde al cellulare. Voleva sapere se era da noi. Il nostro almeno sappiamo dov’è? In camera sua. Attaccato ai videogiochi? Perché non vai a controllare? Sei tu sua madre. E tu sei suo padre. Questo non è mai stato accertato.

    Era vero. Non avevo idea di chi fosse quel ragazzo. Meglio, ero sicura che fosse di Jeremy. Non era una certezza assoluta, ma dopo che lui era sparito mi era stato di conforto pensare così. Anche mio marito non sa niente di certo. Gli piace trattarmi da zoccola, sbattermi in faccia che se non fosse stato per lui, non mi avrebbe presa nessuno, che nessuno mi avrebbe raccattata da quella famiglia da dove venivo e avrei finito i miei giorni in casa dei genitori bastardi che meritavo. Mio padre sempre ubriaco, mia madre che la dava via per mantenerci e i miei fratelli che spacciavano droga fin dalle medie.

    Lui invece, il ragionier Biondi, mi aveva notata al bar dove facevo la cameriera. Avevo quattordici anni. Mi aveva presa, lavata, ripulita, mandata a scuola e assunta nel suo studio di consulente del lavoro. Ero una bella biondina, intelligente, svelta e riconoscente, lui aveva quindici anni di più. Piccolo, secco, i capelli neri tagliati a spazzola, occhiali a rettangolo cerchiati di metallo e la lingua che ogni tanto si inceppava e lo faceva tartagliare. Lo amavo? Neanche per sogno. Cosa ne sapevo io dell’amore? Non era altro che il padre che non avevo mai avuto. Severo, esigente, che dalla zingara che ero mi aveva trasformato in una signora. Mi piaceva essere una signora. Ben vestita, coi capelli sempre a posto, invitata a cene dove mangiavo roba che in tutta la vita non mi sarei sognata nemmeno di vedere.

    Del sesso non ne volevo proprio sapere, ma a lui non importava. Diceva che andava fatto perché altrimenti non avremmo potuto avere figli, ma ero giovane e si poteva aspettare. Nel frattempo lui andava a puttane.

    Torno al computer. L’icona accesa con due messaggi. Sono le

    15

    .

    56

    . Tre ore e mezza da quando gli ho scritto. Un’ora e venti da quando lo ha letto. Ora glielo dico di nuovo, penso, ora gli dico basta, non puoi tenermi sempre sulla corda. Lo so che i miei messaggi li vedi. Lo sai anche tu. Da quando c’è questa opzione del cazzo che ti informa al minuto spaccato se e quando l’altro ha preso visione di quello che gli hai spedito. L’anno scorso era meglio. L’anno scorso non potevo sapere se aveva letto o no. L’anno scorso, comunque, mi rispondeva dopo pochi minuti. Passo il puntatore sopra l’icona, premo il tasto del mouse. Un messaggio comincia con Hello are you there e me lo manda una Odysea Bolineira senza foto del profilo. Non lo apro. Un tempo lo facevo, mi leggevo tutto. Credevo a tutto. Rispondevo col mio inglese infelice a sconosciuti figli di ambasciatori africani invischiati in situazioni di merda descritte con un inglese più patetico del mio. Chiedevano soldi promettendo che poi mi avrebbero rimborsato. Anzi, promettevano di ricompensarmi con molti più soldi di quanti ne avrei dati io. All’inizio non ci capivo niente. Mi rendevo conto che la faccenda puzzava di marcio e non volevo immischiarmi, però non rispondere mi faceva star male. Avevo anche un po’ di paura. Così scrivevo mi spiace, non dispongo della cifra che chiedi, poi aspettavo una risposta, ma non arrivava mai. Che roba è, la ricevi anche tu, avevo chiesto una volta a Renata. Lei si era fatta una tale risata che alla fine le era venuto il singhiozzo. Sei proprio tonta, aveva detto senza fiato.

    Il secondo messaggio è suo. Di Renata, intendo. E allora, novità?

    Passo in camera, mi allungo sul letto e le telefono. Nessuna, dico. Ma non sei al lavoro, fa lei. Oggi no. Gli ho detto che ho mal di testa per il mestruo. Fra poco torna, dice lei. Lo so.

    Si riferisce a mio marito. Non posso stare al computer con mio marito in casa. Devo sempre farlo di nascosto. Oggi più degli altri giorni. Gli ho detto che sto male. Appena arriva devo spegnere e mettermi a letto. Anche a Jeremy ho scritto che sto male. E lui sa che quando torna il ragioniere non posso scrivergli più. Mi sta mollando, dico a Renata. Lei non fiata. Non si è mai comportato così, mai aspettato tre ore perché rispondesse. Devi tener conto del fuso orario, dice lei. E della sua famiglia.

    La sua famiglia. Questa è la verità. La moglie Veronique. La svizzera. Conosciuta quando insegnava inglese ai figli dei soldati alla base Nato di Stoccarda. Veronique e i ragazzi. Simon, Martha e Jenevieve, detta Jenny. Hai chiamato tua figlia Marta, gli avevo scritto all’inizio, quando ci spedivamo messaggi a tutte le ore. Non ti ho mai dimenticata, era stata la sua risposta.

    Anche io ho una famiglia, dico a Renata. Ma piantala, lo sai che per lui è diverso.

    È vero. Per lui è diverso. Non so in quale modo, non ne ho idea. Vive a Boston e non ci vediamo da più di vent’anni. Dice che ha sempre gente intorno. Che non può scrivermi quando gli pare. Che avermi ritrovata gli ha restituito la gioia di vivere, ma non può scrivermi quando gli pare.

    Tu fai ogni giorno il cazzo che vuoi, dice Renata. È vero. Faccio quello che voglio. Mio marito ha assunto una segretaria più giovane e io vado in ufficio solo per passare il tempo. Tra un po’ smetto del tutto. Adesso che ho ritrovato Jeremy. Ma devo farlo con gradualità, non posso mollare di punto in bianco. Mio marito si insospettirebbe. Quando aveva scoperto la nostra tresca, venticinque anni fa, credevo che mi avrebbe ammazzata. Era fuori di sé. Scappiamo, aveva detto Jeremy, andiamo in America. Ma io no, non sono scappata. E lui era scomparso da un giorno all’altro. Un giorno dovevamo scappare, il giorno dopo nemmeno una parola, un biglietto, una telefonata. Per vent’anni.

    Hai visto la bacheca della Gobbetta?, mi chiede Renata. Lo dice per distrarmi, non ci casco, ma faccio finta. Mi fa bene. No, cosa dice? Vai a vedere. Roba da pisciarsi addosso dal ridere.

    Gobbetta, Cuoca, Paperoga e la Poeta sono quattro tizie amiche tra loro che hanno pubblicato dei romanzi con case editrici mai sentite nominare. A pagamento, dice Renata che fa la libraia. Dice che un vero editore non le avrebbe mai pubblicate. Io non so. Non le ho lette. Renata invece si fa arrivare tutto via Amazon. Ogni vaccata che quelle quattro scrivono, lei se la compra. Legge tutto e poi usa la carta per il caminetto del soggiorno. Dice che è il suo lato voyeristico, che non resiste, e più una roba le fa schifo più le viene voglia di leggerla.

    I soprannomi glieli abbiamo dati per gli status che pubblicano e le foto che si autoscattano. I selfie. Poi non è che sono proprio così come le abbiamo battezzate. Voglio dire, la Gobbetta non è che ha la gobba. È una tipa graziosa, tutto sommato. Una mora con gli occhi celesti che però nelle foto ha sempre addosso sciarpe o foulard. A noi è bastato quello. Mi ero messa in testa che nascondesse qualcosa. Sì, una gobbetta, aveva detto Renata. So bene che è di una stupidità imbarazzante, anche Renata lo sa, ma non riusciamo a staccarci da questo giochetto infernale che è diventato Facebook. Dai Renata, abbiamo quarantasette anni, dico. Vero, dobbiamo disintossicarci, questa roba è una droga, ho letto un articolo. Sì, anche io ho letto un articolo, ma non mi interessa quello che dice, faccio quello che mi sento. E sento che questo pollaio in cui mi sono infilata per gioco, a volte diventa una trappola per topi. Topi in un pollaio. Una tagliola che ti tiene per la coda. Tu cerchi di sganciarti, ma ti tiene attaccata perché se tiri, se ti muovi, ti fa male. Non un gran male, diciamo un disagio. Fastidioso, ossessivo. La sensazione che se non stai attivo, poi vieni dimenticato. Mi fa impressione. Pubblichi una frase, un pensiero, un’opinione. Su qualsiasi cazzo di argomento. Magari un fatto di cronaca. O un libro che hai letto. Non hai nemmeno idea del perché la scrivi. Poi ti metti lì e aspetti. Aspetti di vedere quanta gente ti mette il like, il mi piace, insomma, ti dà la sua approvazione, aspetti i commenti, vuoi sapere cosa pensa di te quella gente che non hai mai visto né conosciuto, se ti trova interessante o se ti ignora, se ti segue o se ti molla. Di punto in bianco dipendi dai loro pensieri, dai loro umori, da come si sono svegliati quella mattina. Lune storte, lune dritte, ma chi se ne frega, sono sconosciuti, ti dici. E invece no, se il primo status non viene preso in considerazione ne scrivi un altro e di nuovo ti metti lì e aspetti. Magari l’ho pubblicato al momento sbagliato, un momento morto in cui nessuno l’ha letto, perché non sai, non capisci come diavolo funzionino i diabolici algoritmi di Facebook. Anzi, neanche sai cosa sono. Fino a che non arriva un commento, e allora non rispondi subito. Non è cool rispondere subito. Ma nemmeno non rispondere per niente. Devi essere pronta, aspettare tre, quattro minuti, poi piazzare una frase, possibilmente sagace. Una risposta che soddisfi tutti, che ci sia addirittura qualcuno che ti mette un altro mi piace. Questa sarebbe la netiquette. Poi però ci sono le star. Sì, avete capito bene: le star di Facebook. Che, come ha detto non ricordo più chi, equivalgono all’essere milionari a Monopoli. Lo so che fa ridere, eppure in questo pollaio ci sono quelli che scrivono roba del tipo: «Ciao amici, oggi mi brucia il buco del culo», e i follower giù a far fioccare centinaia di approvazioni e commenti e considerazioni entusiastiche sulla genialità dell’autore di quella cazzo di considerazione del cazzo. Per non parlare dei molto seri, dei filosofi, degli intellettuali, quelli che a ogni notizia dell’Ansa si fiondano a condividerla in bacheca, e criticano, disquisiscono, approvano, risvegliando la rabbia dei coglioni che la pensano diversamente, perché se la pensano diversamente possono essere solo coglioni ed ecco che allora si accendono i flame, le litigate furiose che possono andare avanti per giorni con battaglie verbali all’ultimo insulto e l’inevitabile conclusione mostruosa e da tutti aborrita: la Bannazione. No. Non ho scambiato la b con la d. Perché bannazione è profondamente diverso da dannazione. Nel delirio del momento è quasi peggio di una dannazione vera. Non esagero, purtroppo. Essere bannati, cioè cancellati dai contatti, equivale a sparire dal mondo di quell’intellettuale. Non far più parte della sua cerchia di follower. Non essere più degno di leggere i suoi status e scrivere cosa ne pensi. Uno schiaffo morale, un’onta. Una figura di merda. In genere il bannato reagisce scrivendo uno status sulla sua bacheca subito dopo, dichiarando tutto il suo disprezzo per l’incapacità dell’intellettuale di turno di tenere testa a qualcuno che non sia in linea con le sue opinioni e allora: «Come i bambini dell’asilo», scrive il personaggio piccato, è ricorso all’eliminazione violenta.

    Smettiamo per una settimana, propongo, una settimana intera. Sì, maledizione, risponde lei che quando la metto di fronte all’evidenza dei fatti si incazza. Poi una delle due cede. Ho acceso per caso, dice, oppure ho dato un’occhiata dal PC di mio figlio, per controllare che non fosse attaccato a Youporn. Capirai. Cosa me ne frega a me se mio figlio sta attaccato a Youporn? È bravo, studia, ogni esame meglio dell’altro. Che si strafoghi di Youporn. Ma intanto tiro di nuovo Renata dentro il girone degli ossessivi. O viceversa. Tipo oggi. Io non volevo finirci incollata, ma con Jeremy che non risponde non posso fare altro. O meglio, potrei uscire, incontrare Renata al bar, andarci a vedere un film, tornare in palestra. Invece no. Tutte e due attaccate a questo stupido schermo. A leggere le stronzate di Gobbetta, Paperoga, la Cuoca e la Poeta. Vediamo cosa ha scritto ’sta Gobbetta, mi dico mentre torno al computer.

    Apro la home. «Aspettare

    10

    /

    15

    minuti prima di rivolgere la parola a chi si è appena svegliato è una delle più alte forme di rispetto che io conosca», dice il cartello pubblicato da un certo Ro Mano che come foto del profilo ha Tadzio di Morte a Venezia. Non so neanche io come faccio ad averlo tra i contatti. Non me lo ricordo. Commento dell’ Amico n°

    1

    : «Un’ora, prego». Amico n°

    2

    : «Prima di mezzogiorno grugnisco». Amico n°

    3

    : «Ahahahahaha! Io faccio parte dei rompicoglioni che parlano subito».

    Allora, hai letto?, mi chiede Renata al telefono. Aspetta, dico, sto ancora sulla home. Vado alla bacheca di Gobbetta e ci trovo il link di un blog letterario. «E insomma, avrei scritto questa roba qui», ci ha digitato Gobbetta in testa. Perché una delle caratteristiche più in voga di Fb è sminuire con finta modestia quello che si ritiene prestigioso e per farlo usare un italiano scorretto, oppure molto colloquiale, o frasi infarcite di autocompiacimento spinto, al limite della sbrodolata, nel tentativo di suscitare in chi legge ammirazione o perlomeno un filo di simpatia.

    Ti riferisci al link Di Libri Di Poeti & Dintorni? Sì, dice Renata, buttaci un occhio. Ma lo devo leggere? Tutto il racconto di Gobbetta? Ma no! Non scherzare! Solo un’occhiata ai like. Guardo. Ce ne sono pochissimi. Cinque in tutto. Hai visto? Ho visto, le dico. A questo punto, se io fossi di un altro umore, solo un po’ più serena intendo, attaccheremmo a godere come due femmine di riccio perché né Paperoga, né Cuoca, né Poeta risultano tra i cinque estimatori. E il link è stato pubblicato alle nove del mattino. Il momento migliore. Quando tutti, prima di attaccare a lavorare, danno un’occhiata in rete. Così come una volta gli impiegati passavano la prima mezz’ora della giornata a leggere il giornale.

    La povera Gobbetta abbandonata dalle amiche del cuore, penso. Ma non ho voglia di parlarne. Tanto non è nemmeno una novità. Quelle quattro credo non abbiano più fegato per quanto se lo rodono l’una per i successi dell’altra. Che poi, ma quali successi? Chi lo conosce ’sto blog patetico? Eh, vabbe’, dico a Renata, la gente non può mica mettersi a leggere un racconto a quell’ora, lo faranno dopo. Sì, nell’ora di pausa, sghignazza lei. Perché è proprio così che funziona: l’ora di pausa è un altro dei momenti perfetti. Ma sta finendo anche quella. Ti rendi conto? Continua Renata. Cinque like e nemmeno uno delle sue tre amicone.

    Apro il link. Leggo le prime due righe Lui mi produceva allegrezza, recitano, e sempre accadevano discorsi di scorsi, di qualcuno che mai più avremmo rivisto, o forse sì, nell’afa dei pomeriggi di inverno nebbioso. Scusa eh, dico a Renata, ma è anche un racconto con un incipit da schifo, a chi vuoi che piaccia? Ma ovvio, risponde Renata, però che le tre comari lo abbiano ignorato fa crepare dal ridere, dai. Capirai, dico io, come se fosse una novità. Renata sta zitta per qualche secondo. Poi dice okay, capito, non è giornata, e riattacca. No, dai, tento di dirle, scusa, ma mi ha già mollato. Meglio così. Oggi non è davvero giornata. Quando aspetto un segnale da Jeremy non capisco quello che mi dicono. Sento, ma non ascolto. Il pensiero è fisso, fermo, immobile su di lui. Mi infilo a letto.

    Una volta, quando ci scrivevamo lettere, era tutta un’altra storia. Lui le spediva all’indirizzo di Renata. Io a una casella postale di New York che poi gliele girava alla base di Sigonella dove faceva il disc jockey alla radio americana. Ogni lettera un tuffo al cuore.

    Domani chiedo il trasferimento in una base vicino a casa tua, mi aveva detto il giorno in cui ci eravamo separati. Alla pasticceria Spinella,

    298

    di via Etnea, la più centrale di Catania. Io in viaggio di nozze. Mio marito a letto per una colica renale e io tutta la settimana a girare da sola per la città. Un pomeriggio mi ero fermata a un tavolino di questa pasticceria. Poco lontano, Jeremy e due commilitoni in tuta mimetica. Lui mi guardava. Si capiva che non ero del posto. Il giorno dopo ci ero tornata. Stesso tavolino. Lui anche. Il terzo giorno si era avvicinato. Buongiorno seniorina, aveva detto. Buongiorno soldato, avevo risposto io. Lui aveva riso. Poso? Aveva chiesto indicando la sedia libera accanto a me. Era metà luglio, profumo di gelsomino, lui bello come Robert Redford ne I tre giorni del condor. Avevo vent’anni, lui diciotto. Andavo al cinema ogni domenica pomeriggio, leggevo un libro a settimana, ascoltavo musica rock e facevo la segretaria otto ore al giorno. Era il

    1989

    , era appena uscito Harry ti presento Sally. Ti posso invitare, mi aveva chiesto lui. Sì, ma solo di pomeriggio, avevo risposto, la sera devo stare in albergo con mio marito. Appena arrivati nella sala del cinema ci eravamo baciati. Il giorno dopo avevamo trascorso il pomeriggio in un albergo a ore. Lasciandoci, mi aveva regalato una radio transistor. È sintonizzata sulla stazione dove lavoro, aveva detto. Quando vai a letto accendila sotto il cuscino, e a mezzanotte e mezza mi aveva dedicato Only you, versione Elvis Presley. Mi sentivo come in una sequenza di American graffiti. Felice, emozionata, innamorata. Sette mesi dopo mi aveva scritto dalla base aeronautica di Aviano,

    12

    km da casa. Ci incontravamo alla libreria di Renata, ogni domenica pomeriggio. O meglio, la libreria dei suoi genitori. Lei ci dava le chiavi, mio marito passava le ore in ciabatte davanti alla tele, io gli dicevo che sarei andata al cinema con la mia amica mentre lei invece ci andava col suo fidanzato. Verso sera ci telefonava in libreria, mi raccontava il film per filo e per segno e io poi lo riferivo al consorte. Meccanismo perfetto. Fino a che il padre di Renata non ci beccò un pomeriggio di gennaio. Era periodo di inventario e lui era indietro col lavoro.

    Sento la porta d’ingresso che si apre e viene richiusa con cautela. Piano, per fare meno rumore possibile. Mio marito che torna a casa. Fa sempre così. Entra come un ladro per vedere di nascosto cosa sto facendo. O per scoprirmi a combinare chissà cosa. Come se mi portassi in casa qualcuno, nel nostro letto, e lo tenessi lì fino all’ora del suo ritorno. Che è sempre la stessa, precisa, da anni. Come se fossi così idiota. Mi rannicchio nel piumone e fingo di dormire. Sento i suoi passi in corridoio. Apro un occhio. Lo vedo infilare la testa in camera, ritirarla e avviarsi verso la cucina. Apre il frigo, le ante dei pensili, ne fa sbattere una. Allora, dico, Franco, sei tornato? Sì. Com’è andata? Come vuoi che sia andata?

    Sempre la solita pantomima.

    All’inizio era fiero di avere una moglie giovane, sveglia, curiosa, che passava le serate a leggere libri e le domeniche al cinema con la sua migliore amica. Detestava che ascoltassi musica rock, ma me lo lasciava fare, in cuffia, convinto che con gli anni me ne sarei stancata. Senza tener conto che la famiglia bastarda da cui provenivo mi aveva massacrato infanzia e adolescenza e io avevo tutta l’intenzione di riprendermi quello che mi spettava. Gli ero grata? All’inizio sì. Poi, quando aveva preso a farmelo pesare ogni altro giorno, mi era venuta voglia di prenderlo a pugni. Non fosse stato per me… diceva tutte le volte che mi vedeva leggere un libro nuovo. Come dire che io mai mi sarei comprata quello che mi pareva. Ma ringrazia il cielo che mi piacciono i libri, gli avevo strillato una volta. Pensa se andassi matta per le

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