Lost Tales: Horror n°1 - Estate 2018
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Info su questo ebook
In questo numero:
Saggi e interviste
- La figura dello zombie nel ‘900
- Gli zombie nella letteratura, di Davide Mana
- Racconti dalla cripta, di Lucia Patrizi
- Dalla Cina con Orrore, a cura di Pietro Campodonico
- Il sale non è per gli schiavi!, di G.W. Hutter (Garnett Weston)
- Finotte, la morta, di Henry De Vere Stacpoole
- La strategia di Bubba, di Alessandro Girola
- L’Argine, di Dante Gavioli
Andrea Piparo è autore dell'incredibile cover RED NIGHTS, realizzata appositamente per Lost Tales: Horror.
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Anteprima del libro
Lost Tales - Alessandro Girola
1926.
PREFAZIONE
Quella che avete tra le mani è la prima uscita del magazine digitale di genere horror, inserito nel contesto del progetto Lost Tales, attraverso il quale noi di Letterelettriche stiamo cercando di dare il nostro contributo per riportare in auge in Italia la cultura pulp. La narrativa dell’orrore ha permesso, fin dalla sua origine, una funzione unica e insostituibile nei suoi fruitori: la catarsi. Il termine ha origini greche e significa purificazione
. Tralasciando le accezioni più complesse, nelle quali evitiamo di impegolarci, ci basti dire che il termine era anticamente collegato alla Tragedia teatrale. Veniva infatti chiamata catarsi tragica e, tramite essa, lo spettatore che si immedesimava (mimesi) nei protagonisti sventurati delle storie recitate, provava un forte dolore che lo lasciava piacevolmente svuotato al termine dello spettacolo. Bene, questo ruolo, nel mondo del pulp, è rivestito dal genere horror. Chi legge un racconto horror, come chi guarda un film, desidera provare paura, la ricerca, se ne compiace. Ma uno dei fini che sta dietro questa pulsione è quello di avvertire che, dopo un breve periodo gestativo a fine lettura, la paura se ne vada, lasciando un senso di piacevole leggerezza.
In questa prima uscita ci siamo soffermati su una figura che io amo particolarmente: lo zombie. Intanto è importante dire che a metà del Novecento si è creato un forte spartiacque tra due distinte tipologie di zombie (nato da riti vudù/nato da virus o cause ignote) e la prima, più antica, versione è andata piano piano sparendo dall’attenzione mediatica (e noi siamo qui apposta per ripescarla!). Qualunque sia la sua origine, rimane che lo zombie non ha nome, non ha alcuna capacità particolare e, anzi, è spesso individualmente molto più limitato degli umani a cui dà la caccia. Ma ha due caratteristiche che lo rendono perfetto per la catarsi di cui parlavamo poco fa. La prima è che non è mai solo. Gli zombie sono moltitudine, sono legione. E ogni vivente che muore diventa parte dell’orda vacillante. La seconda caratteristica è forse la peggiore: è inarrestabile. Non si stanca, non mangia, non dorme. Non esiste scampo a un’apocalisse zombie. È solo questione di tempo e diventerai uno di loro. E, alla fine del racconto, o del film (in finali che sono sempre aperti e mai positivi), ti ritrovi a guardare il nostro mondo, anche nei suoi infiniti grigi, con molto sollievo.
Vittorio Cirino
Red Nights
di Andrea Piparo
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Il sale non è per gli schiavi!
di G.W. Hutter (Garnett Weston)
Diverse volte avevo notato la vecchia. Se ne stava sempre accovacciata sul suo basso sgabello, il più lontano possibile dagli altri servitori, come se la sua età non la separasse abbastanza dai giovani neri giocosi. Era impossibile calcolarne l’età. Sembrava vecchia quanto l’isola, ed una definita, tangibile parte di essa. Le montagne e le vallate di Haiti parevano impresse sul suo volto, e l’oscurità e il mistero della storia erano riflessi nei suoi occhi, occhi che erano sorprendenti per la loro forza e intensità, occhi che suggerivano l’eternità più di qualunque altra cosa io avessi mai visto - animata o inanimata. Erano incredibili nel suo vecchio corpo ingobbito e curvo.
Sedeva immobile tranne che per i rapidi movimenti delle sue lunghe dita ossute mentre affettava ananas o spennava colombe o ripuliva porcellini d’india per la cena dell’albergo. Le sue mani lavoravano automaticamente - non le servivano gli occhi, che fissavano incessantemente le cime delle verdi montagne in lontananza.
Mentre guardavo fuori dalla mia finestra senza vetri, in attesa che il sole dei tropici si abbassasse a sufficienza per permettermi un tuffo serale nel ‘bacino’ di calcestruzzo nel giardino sul retro, sentii un trambusto e una violenta imprecazione in Creolo. ‘Tit Jean, terrorizzato, stava cercando di allontanarsi dalla vecchia più in fretta di quanto le sue gambette corte gli permettessero di muoversi. Per terra di fianco allo sgabello della vecchia stavano alcune saliere vuote, il loro contenuto sparso sull’erba.
Madame comparve proprio mentre la vecchia stava per raggiungere la causa della sua furia. Marie!
esclamò in tono imperioso. La vecchia si voltò, tornò arrancando al suo sgabello, lo prese e ricominciò il proprio lavoro all’altro capo del giardino.
‘Tit Jean stava singhiozzando ai piedi delle scale quando scesi in accappatoio. Gli chiesi quale fosse il problema.
"Marie, pas bonne," dichiarò.
Quando gli chiesi perché Marie non fosse buona, lui mi disse in Creolo, interrotto dai singhiozzi, che quando lui era accidentalmente incespicato passando vicino al suo sgabello, lei aveva cercato di ucciderlo perché un po’ di sale le era caduto addosso. Sì, ecco tutto ciò che lui aveva fatto. La rabbia della donna era inspiegabile per me come lo era per lui, e io gli diedi l’unico conforto che conoscessi, una moneta da cinque centime. Questo sembrò far tornare roseo il suo mondo.
Sorrise, mi fece cenno di andare dietro alla porta e allora, in una voce così bassa che fui obbligato ad abbassare la mia testa al livello della sua, sussurrò Voodoo!
Fece un cenno significativo col capo verso il giardino. Quando io risi, il terrore guizzò nei suoi occhi spalancati. Avevo sentito molte storie di Voodoo ad Haiti, ma non riuscivo a collegare il banale incidente di un ragazzino che versava accidentalmente un po’ di sale da tavola con nessuna di esse. ‘Tit Jean, tuttavia, era silenzioso. Non avrebbe detto altro. Il Voodoo era una faccenda troppo reale e troppo seria per lui perché se ne potesse discutere alla leggera con un uomo bianco.
Passai camminando vicino alla vecchia. Il suo sguardo mi attraversò come se non esistessi.
Entrai nella piccola area recintata con le assi del ‘bacino’, mi levai la vestaglia e la calura del giorno venne ben presto dimenticata nel refrigerio della cara acqua di montagna.
E quando passai, sgocciolante, davanti agli occhi sollevati della donna, dissi "Bon soir."
"Bon soir, Monsieur" rispose lei. Anche se mi aveva a malapena degnato di un’occhiata nel parlare e c’era ben poca cordialità nella sua voce, mi sentii incoraggiato. Per lo meno era avvicinabile ed avrei potuto coinvolgerla in una conversazione.
Stavo ancora pensando a lei dopo essermi vestito ed essermi seduto a cena. ‘Tit Jean non era in sé mentre mi serviva. Poteva a malapena aspettare che io vuotassi una cucchiaiata di gelatina di guava sul mio porcellino d’india, tanta era la sua fretta di lasciare il tavolino che occupavo nell’angolo del porticato. Gli si vedeva bene il bianco degli occhi, mentre sorridevo al suo disagio, ed era chiaro desiderasse essere lontano da me e servire altri ospiti, che non avrebbero fatto domande ciniche riguardo al Voodoo.
Mentre sorseggiavo il mio caffè dopo cena, sollevai lo sguardo verso le montagne nere. Immaginai di sentire il battito dei tam-tam e ricordai lo sguardo della vecchia Marie verso le montagne, che vedeva tutto e non vedeva nulla. ‘Tit Jean mi vide guardare le colline distanti, e rimase in un angolo finché non ebbi lasciato il tavolo.
Il gracchiare di un altoparlante mi attirò nel grande parco che si stendeva davanti all’hotel. La stazione radio locale stava trasmettendo un concerto e la città si era riunita davanti a un enorme ricevitore piazzato vicino al palco della banda. Il chiacchiericcio creolo venne completamente interrotto dalle note di Bye, Bye, Blackbird
e la canzone preferita dagli indigeni, Yes, Sir, That’s my Baby.
Raggruppati tutti assieme, i volti raggianti e deliziati, c’erano i servitori dell’albergo. Erano tutti lì, notai, tranne la vecchia Marie. Questa era una buona opportunità per vedere la vecchia, pensai. Ovviamente il lavoro dei servitori era concluso per la notte ed avrei potuto trovarla da sola in giardino. Lasciai la folla incantata nel parco e, sulla via del ritorno all’albergo, feci tappa in un caffè per comprarmi una grossa borsa di tabacco.
Marie sedeva sul suo sgabello come speravo. Passeggiai con aria distratta attorno al giardino e mi fermai vicino a lei.
Ti andrebbe del tabacco?
le chiesi in francese. Lei stese la sua mano ossuta verso la borsa. "Oui, Monsieur. Siete molto gentile."
Cominciò a riempire la grossa pipa calabash che le sporgeva sempre dalla tasca del grembiule. Io continuai la mia passeggiata per qualche minuto, e poi sedetti sul margine esterno del ‘bacino’ a qualche metro dal suo sgabello.
Stava di nuovo guardando fissa verso le montagne.
Mi accesi una sigaretta ed entrambi fumammo in silenzio. Una seconda sigaretta, e poi un’altra, ma da lei non una parola. Rimaneva immobile, a guardare.
Ti piace guardare le colline, Marie?
cominciai, impacciato.
Senza voltarsi mi disse, "No, Monsieur."
E allora perché continui a fissarle?
Ero determinato ad ottenere qualcosa in cambio del mio tabacco.
Lei prese tre lunghe boccate prima di rispondermi molto lentamente, "È perché non posso fare a meno di fissare la mia vita. Quella grande montagna è la mia vita. È cominciata nel punto più alto e finisce in fondo. Da questa sedia posso vedere tutto volgendo i miei occhi alla cima; e oggi, Monsieur, non li ho alzati molto in alto."
Sei nata sulla montagna?
la incalzai.
"Questo non lo so, ma ci ho passato molti anni da ragazza. La villa del mio padrone era l’unica lassù. Anche quello è stato molti anni fa.
"Il mio padrone era ricco e potente ed aveva molti schiavi. Dicevano che avesse scelto il posto per la sua villa perché era il punto più alto in tutta Haiti, e dalla porta di casa sua poteva guardare giù verso le sue terre che si estendevano da Port au Prince al Capo. Aveva talmente tante terre che gli servivano centinaia di schiavi per ararle e per mietere il raccolto. In certi anni la sua produzione di caffè da sola richiedeva una flotta di navi che la portassero in Francia. Ma non aveva pietà per i suoi schiavi. Li faceva lavorare duro, e quando non riuscivano più ad andare avanti crollavano a terra esausti. Allora lui li mandava negli alloggi degli schiavi su alla villa, perché venissero rattoppati come cavalli zoppi, così da poter tornare al lavoro.
Io ero sempre lì. Ero una serva di casa. Quando fui abbastanza vecchia mi innamorai di Tresaint. Tresaint era grande, forte, giovane, e di lui il padrone si fidava. Lui, come me, era sempre là, e il padrone lo fece supervisore degli altri schiavi. Quando gli affari obbligavano il padrone ad andarsene, Tresaint restava a comandare ogni cosa. Gli lasciava persino la chiave del sale.
Il sale?
domandai, meravigliato.
"Sì, il