Come sparire completamente
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Nel primo, La strada più breve per andarsene via, il protagonista-narratore è un investigatore alle prese con il pedinamento di uno strano personaggio, ma viene ostacolato da una serie di eccentriche figure.
In Ispirazione è uno scrittore in crisi creativa che vede fuori dalla finestra una giovane donna. Rimane colpito e ne fa la protagonista di un suo racconto. Ma presto le sue certezze saranno sconvolte.
In Come sparire completamente, l’io narrante ha dimenticato il proprio nome e trascorre la notte in giro per la città cercando qualcuno che possa aiutarlo. Si troverà coinvolto in una sorta di sciarada illusionistica, da cui cercherà disperatamente di fuggire.
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Anteprima del libro
Come sparire completamente - Fabio De Roberto
MAGNOLIA
Narrativa
Fabio De Roberto
COME SPARIRE COMPLETAMENTE
Come sparire completamente
Fabio De Roberto
© 2018 – Il Seme Bianco
978-88-358-0733-9
Senza regolare autorizzazione è vietata la riproduzione anche parziale o a uso interno didattico, con qualsiasi mezzo effettuata, compresa la fotocopia.
I edizione settembre 2018
info@ilsemebianco.it
www.ilsemebianco.it
Il Seme Bianco è un marchio distribuito da
Lit Edizioni Srl
Sede operativa: via Isonzo 34, 00198 Roma
A Via C.
e a tutti coloro che, in un modo o nell’altro, ci sono stati
And you may find yourself
Living in a shotgun shack
And you may find yourself
In another part of the world
And you may find yourself
Behind the wheel of a large automobile
And you may find yourself in a beautiful house
With a beautiful wife
And you may ask yourself, well
How did I get here?
TALKING HEADS, Once In A Lifetime
Sommario
La strada più breve per andarsene via
Ispirazione I
Ispirazione II
Ispirazione III
Come sparire completamente
La strada più breve per andarsene via
Diventare invisibile, scomparire: ecco cosa mi piace veramente.
È come se potessi permettere al mio corpo di svanire a poco a poco e, allo stesso tempo, assaporarne ogni istante. Non ho nessuna fretta, anzi. Ho imparato che è molto meglio essere pazienti, in questi casi. E anche se, di volta in volta, so già in anticipo come andranno le cose, l’emozione rimane invariata.
La dinamica degli eventi si ripete sempre uguale a se stessa, non cambia mai. Ed è proprio questo il bello.
Le cose vanno come devono andare. Non ci sono né sorprese, né delusioni, né tantomeno spasmodiche attese. Tutto ciò si rivela rassicurante, in qualche modo. Si parte sempre dal basso. I primi a scomparire sono i piedi, poi le gambe, il bacino e via via a risalire il resto del corpo. Fino alla testa, ovviamente. Questa è quella che definirei la struttura base, ovvero l’insieme degli elementi immutabili. Alla struttura base vanno successivamente ad aggiungersi gli elementi di contorno che, per quanto a prima vista paiano meno importanti, in effetti sono determinanti affinché la vicenda acquisti spessore e concretezza.
Un altro aspetto significativo è che può accadermi dovunque. A casa, fuori casa, poco importa. Il fatto di trovarmi ora su un treno, per esempio, non mi crea alcun impedimento. È soltanto una questione di minuti, tanto c’è ancora abbastanza tempo prima di arrivare alla stazione. Inoltre, in questo momento accanto a me non c’è seduto nessuno, il che di certo non guasta. Posso quindi concedermi l’ennesima occhiata due file più avanti, sulla destra. Lui è sempre lì, da solo; proprio come pochi minuti fa, del resto. A questo punto non mi resta che stiracchiarmi per bene, strofinando la nuca contro l’imbottitura del sedile finché non raggiungo l’unica posizione perfetta possibile. Sento subito la tensione allentarsi, il respiro che decelera progressivamente.
Sono pronto.
All’inizio, com’è facile immaginare, sono sempre tutto intero. È notte. Mi trovo al volante di un’auto che non saprei assolutamente identificare. So solo che è un’auto. Ignoro il proprietario dell’auto (benché sia sicuro di non essere io), non riconosco il modello, la targa, il colore, la cilindrata. Tutto quello che so è che sono da solo, in un’auto, di notte, e quest’auto va.
Osservo la strada che a mano a mano si avvicina oltre il parabrezza. Da principio si tratta di vie del tutto anonime, senza caratteristiche particolari che mi consentano di riconoscerle. Il parabrezza è terso solo in apparenza poiché emana stranamente un profumo dolciastro, come se fosse stato cosparso di gelato alla nocciola, o al cioccolato, o alla crema – questa parte può variare – rimasto poi incrostato sul vetro. Perdipiù mi sento all’oscuro relativamente a ciò che accade ai lati e alle mie spalle, dato che nell’abitacolo non sono presenti altri finestrini e non esistono pedali: freno, frizione, acceleratore, nulla di nulla. Eppure, quest’auto prosegue la sua corsa, spedita a dire il vero, e io sono lì, al volante, pur con un ruolo – devo ammetterlo – davvero modesto. L’auto percorre strade ignote e sempre più tetre sino a quando non imbocco, quasi di colpo, un percorso abituale, di solito Viale M. o Viale D.: lunghi rettilinei. A quel punto l’auto accelera in totale indipendenza e io, d’istinto, guardo in basso. I piedi non ci sono più, le ginocchia scompaiono. La strada si popola di passanti, di ostacoli. Tutti mi osservano; ho la sensazione che anche a destra, a sinistra e dietro di me, malgrado non possa esserne certo a causa dell’assenza di finestrini, mi stiano osservando. Il silenzio è irreale, amplificato dal fatto che il motore non fa rumore, neppure quando mi sembra di andare a tavoletta. I semafori ormai sono solo rossi. Li brucio, uno dopo l’altro, in preda a un inspiegabile impulso febbrile. Non esisto dalla vita in giù. Così a ogni incrocio mi sottraggo per un pelo allo scontro con altri veicoli (auto, bus, camion, una volta se non erro persino un hovercraft) che giungono perpendicolarmente. Come se non bastasse, il pericolo è incrementato dal rischio di infrangermi contro grossi edifici le cui pareti si allungano verso di me. Travolgo cartelli stradali che oscillano sull’asfalto. Vengo obbligato ad azzardati sorpassi durante i quali rischio di investire pedoni coi trampoli che, sulle strisce, si moltiplicano e si salvano per miracolo. Possiedo solo la parte dal collo in su. All’improvviso scorgo in lontananza qualcosa di indefinito, di enorme e indefinito, che mi abbaglia sebbene non mi impedisca di avanzare, velocissimo. Talvolta è una gigantesca ruspa gialla, oppure una gru, gialla o arancione. L’impatto non mi lascerebbe scampo, non ci sono dubbi a riguardo.
Sembra quasi che la ruspa – o la gru, dipende dai casi – aspetti me.
Sì, sì, aspetta proprio me.
L’impatto sarà devastante.
Chiudo istintivamente gli occhi.
Poi non ci sono più nemmeno quelli.
Luogo: Piazza S.
Orario: 14:00/14:30
Abbigliamento: giacca nera, pantaloni neri, cappello nero, orologio al polso destro
Età (possibile): 25
L’aggettivo che utilizzerei per qualificare la stazione è: tremenda. Ci sono persone ovunque – il che significa che ci sono occhi ovunque – e, come se ciò non fosse già sufficiente a rendermi più cauto, degli operai in tuta da pompiere stanno installando delle telecamere un po’ dappertutto. Transito ugualmente sotto il cartello ovale color porpora con scritto Stazione
, le mani in tasca e il cappello ben calato sulla fronte. Lui è dietro di me, lo so, ma cammino senza voltarmi.
Affronto con esito positivo il metal detector e piombo dunque allo sportello, dove un impiegato in pelliccia – con tanto di permanente e barba ben curata – mi scruta attraverso un vetro. Lo vedo alternare lo sguardo su di me e su un piccolo monitor che ha accanto, e sorridere sotto i baffi. È la prassi, mi dico, porgendogli il biglietto, ed effettivamente dopo pochi secondi quello prolunga il sorriso per altri tre o quattro alcuni secondi e fa: