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una notte strada facendo
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E-book458 pagine6 ore

una notte strada facendo

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Info su questo ebook

È sera quando Erik Eisendraht esce di casa e si reca all’appuntamento con l’amico Enrico che non vede da vent’anni, ma invece d’incontrarlo assiste al suo crudele omicidio. Costretto alla fuga dagli assassini, si imbatte in uno strano e misterioso ispettore che s’interesserà del caso e costringerà Erik per l’intera notte a ricostruire nella memoria la storia della loro amicizia. Quell’oscuro poliziotto dai modi così insoliti, fa sul serio e accresce la sua ansia. Ancora una volta vorrebbe correre via, scappare, far perdere le sue tracce, ma poi?

Erik è un uomo in fuga, inseguito dal proprio passato e inchiodato alle sue responsabilità da quell’inquietante ispettore che susciterà in lui una ribellione alla propria condizione che lo condurrà alla soluzione del caso e a una nuova presa di coscienza dei valori della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2015
ISBN9788892529939
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    Anteprima del libro

    una notte strada facendo - Andrea Campagnoli

    andrea campagnoli

    una notte strada facendo

    romanzo

    È vero che non sanno di esistere, loro. Ho voglia d’andarmene,

    d’andarmene in qualche posto dove sia veramente al mio posto,

    dove m’ingrani … Ma il mio posto non è in nessun luogo;

    io sono di troppo.

    Jean-Paul Sartre, La nausea

    PARTE PRIMA

    1

    È buio. Cammino spedito. Non avevo voglia di uscire, ma non ho saputo oppormi alla sua richiesta. Oltre a tutto sono in anticipo, come al solito. Per fortuna nessuno mi ha visto. Detesto la mia vicina, ex portinaia, che spia continuamente dalla finestra e poi racconta tutto alla fata bionda del piano di sopra che non si capisce se le dà retta perché è uguale a lei o soltanto perché la deve sopportare, visto che le stira e le bagna i fiori quando è in vacanza.

    Figuriamoci se il semaforo non scatta sul rosso proprio ora che arrivo io. Le auto sono lontane e io attraverso. Non sarà una luce rossa a impormi di rimanere fermo. Odio sostare ai semafori. Non sai mai che cosa fare, dove guardare, che cosa aspettare e c’è sempre chi ti vuole passare davanti. Conto che tutto si risolva nel giro di poco.

    Non avrei dovuto accettare. Potrei rinunciare, tornare subito indietro, oppure fare una passeggiata. É buio e il buio impedisce qualsiasi smascheramento. Le luci della città non illuminano e quelle delle macchine abbagliano, accecano. Più tardi quella strega maleducata sarà di fronte alla televisione e non dietro la tenda della cucina a guardare dalla finestra. Bisogna che mi procuri uno di quei piccoli raggi laser verdi che potrei spararle negli occhi, almeno per un po’ vede verde. Odio il verde. Amo il buio. Si passa inosservati. La stagione si sta allungando e l’ora legale, ripresa da un mese, rende tutto più chiaro e diventa difficile sottrarsi.

    Passo davanti alla scritta luminosa del BAR SPORT dove, in una nebulosa atmosfera di fumo e luci al neon, si aggirano degli uomini. Alcuni si muovono attorno a un tavolo da biliardo con la stecca in mano, altri sono seduti e giocano a carte. In un angolo sopra una grossa mensola sfarfalla lo schermo azzurrino di un televisore sotto al quale un anziano, appoggiato al suo bastone, sonnecchia con la testa a ciondoloni che, quando gli cade da una parte, lo sveglia.

    Quelle immagini luminose scorrono rapide al mio fianco. Con la massima indifferenza, certo di non essere disturbato, torno a immergermi nella sera squarciata dai fari delle auto che riducono tutto ciò che incrociano a delle silhouette, nere quinte di una rappresentazione nel teatro delle marionette.

    L’ombra di un cane sbuca da dietro uno dei vasi rettangolari di cemento in cui crescono delle piccole siepi di bosso e si accovaccia, per poi allontanarsi dopo aver lasciato in terra il suo salsicciotto color cioccolato. Colto da un impeto d’ira, tento invano di dare un calcio al barboncino nero che corre via dopo essersi voltato verso di me con aria beffarda. Furioso, cerco il padrone, ma non c’è nessuno con cui prendersela, nessuno da insultare. La merda del cane resterà lì finché il sole e la pioggia non la faranno sparire.

    Vorrei proprio incontrare qualcuno che con il guinzaglio in mano, passeggiasse in attesa di rientrare, dopo che la sua graziosa bestiola avesse defecato e orinato qua e là. Con passo annoiato mi viene incontro qualcuno e io chiudo la mano a formare un pugno che al momento giusto faccio scattare in avanti con violenza per colpirlo allo stomaco. All’ultimo momento mi si para davanti una signora. È anziana, alta di statura, ha i capelli bianchi un po’ azzurrini e da sotto il soprabito rosso spuntano un paio di gambe grosse e gonfie che i piedi quasi non le stanno nelle scarpe. Non posso che rinunciare al mio proposito.

    Mi riporta alla realtà un pullman che transita rumorosamente a poca distanza dal marciapiede che ora si è fatto così stretto da non consentire il passaggio a due pedoni. Non è il baccano ad attirare la mia attenzione, quanto il colore e l’aspetto insolito del veicolo. Non ricordo nemmeno più che esistevano dei mezzi pubblici del genere.

    Evidentemente c’è qualcosa che non va.

    Mi fermo e lascio passare un signore. Quando sono sul punto di riprendere il cammino, noto la porta verniciata di blu della piccola falegnameria, ultima traccia di vita in quell’edificio oramai disabitato e da demolire. Ingombra la via, dove le case nuove, costruite nel dopoguerra, sono arretrate di dieci metri.

    Non sono soltanto questi vecchi muri mezzi diroccati a non convincermi, ma anche l’aspetto del bar che ho appena oltrepassato. Odio tornare sui miei passi, però la faccenda è poco chiara e non posso fare altrimenti. Costato che non ci sono né gli ombrelloni, né le sedie e i tavoli di bambù e vimini che ho visto fino a ieri. E poi quell’insegna al neon non si usa più. E chi gioca oggi al biliardo?

    Dal televisore mi raggiunge indistinta la voce in bianco e nero del giornalista sulle immagini di corpi stesi sull’asfalto, coperti alla meglio da lenzuola, in mezzo ai quali si aggirano gli sguardi smarriti di inquirenti, poliziotti e giornalisti. Mi avvicino e riesco a sentire alcune parole: terroristi … scorta … democrazia … Non pensavo di dover rivedere quegli orrori proprio oggi e soprattutto in questo modo.

    Spinto dalla curiosità o da chissà che cosa – perché in fondo m’importerebbe poco di questo bar, sennonché non si trova nella sua giusta collocazione temporale, e proprio per questo mi sento infastidito al pensiero che ci sia davvero qualcosa fuori posto – mi avvicino a una delle vetrate del locale e osservo un signore muoversi intorno al tavolo mentre controlla con calma la disposizione delle biglie per poi chinarsi e prendere la mira. Il rumore prodotto dal loro scontro si perde nel sommesso vociare che proviene dall’entrata del locale. Il giocatore si rialza e lancia un’occhiata verso lo spettatore, che poi sono io. Però, chi può dire, se sono veramente io la persona che lui guarda? Fortunatamente si concentra di nuovo sul rettangolo verde.

    Quello sguardo sarebbe già una buona ragione per andarmene, invece resto qui con i piedi incollati per terra. Il mio stomaco dà pessimi segnali. Per non parlare della gola che è come se vi ci fosse incastrata una patata, o anche peggio, uno straccio, insomma qualcosa che mi consente di deglutire a fatica. Ora anche altri mi notano. Si scambiano delle occhiate e si allontanano e lasciano il signore, alto e robusto, non più giovane, poco oltre la sessantina, in compagnia delle sue carambole. Quando si rialza, inizia a strofinare con molta flemma il girello della stecca con un gessetto.

    – Perché non entri, Erik?

    L’ho sentito, non ho dubbi, ha pronunciato il mio nome. Non devo rispondere e soprattutto dovrei andarmene, ma non ci riesco. Resto qui impalato a guardarlo con gli occhi fissi da pesce lesso.

    – Entra e vieni a bere un baby, offro io.

    Che cosa mi sta succedendo? Perché non me ne vado, per quale ragione dovrei entrare? Non ho nessuna intenzione di farlo e non voglio conoscere questo individuo. Eppure non mi allontano.

    – Ti stavo aspettando. – mi dice quello. Indossa un paio di pantaloni grigio scuro e un gilet dell’identico colore sopra a una camicia bianca chiusa da un farfallino. La giacca deve essere quella appesa allo schienale della sedia lì a pochi passi.

    – Non credo di capire: io non mi devo incontrare con lei. C’è un errore. – sento dire dalla mia voce. Parlo piano, balbetto, non sono nemmeno capace di darmi un contegno. Piuttosto, dovrei alzare i tacchi.

    – Eppure io sono qui per te, dovresti saperlo. Chissà se ci sarà un’altra occasione.

    Qui per me? Questo individuo vaneggia o sono io a farlo. Possibile che non sono capace di scuotere la testa o indietreggiare? Finalmente reagisco. L’uomo che ha un paio di baffi brizzolati come i capelli, corti e ispidi, e la barba rasata dal mattino che incornicia un viso ovale in cui troneggia un naso importante, mi fissa con aria di sfida.

    Via, via, via da qui. Non è il caso di mettersi a correre. Mantieni i nervi saldi. È difficile, ma provaci. In qualche modo tutto si aggiusterà. Ritorno nei pressi del vecchio edificio diroccato e leggo le scritte rosse che contornano l’ingresso della falegnameria. La casa è stata demolita da anni. Sono rimasti in piedi soltanto i muri perimetrali, abbattuti fino all’altezza delle finestre del piano terra. Dentro si è installato un fioraio con il suo vivaio. Sarà una sistemazione provvisoria, ma non è possibile che ora ci sia di nuovo la bottega.

    Non credo di sentirmi bene. E poi, come faceva il giocatore di biliardo a conoscere il mio nome? Non avevo l’intenzione di occuparmi di questi impicci. Devo andare avanti, se voglio allontanarmi da questo casino.

    Riprendo a camminare con indifferenza. Non vorrei dare l’impressione, di aver preso tutto sul serio. La situazione è spiacevole. Qualcuno mi ha teso una trappola. Sbaglio anche strada. Devo proseguire diritto anziché giù di qua. Mi starà seguendo? No, sono solo. Dev’essere stato un momento di smarrimento. Non dovevo rispondere al telefono e soprattutto non accettare l’incontro. Sono confuso.

    Dovrei anche evitare di rallentare e guardarmi in giro, ma è più forte di me. Tutto qui attorno continua a essere diverso da com’era l’ultima volta che sono transitato di qua, cioè non più tardi di due giorni fa. Non è possibile. Non è mai stato possibile, non si torna indietro. Va bene che non esco da diversi giorni per via della maledetta traduzione piena di interruttori di potenza e altre diavolerie elettriche di cui non m’importa nulla, ma che ci fa lì, il cinema Corso? É chiuso da parecchio. Nessuno va più al cinema! Al suo posto c’è un grosso negozio di elettrodomestici e hi-fi, dove recentemente ho comprato una lavatrice. Non capisco.

    Proseguo e raggiungo le vetrine smerigliate e verniciate di marrone del laboratorio di pelletteria cinese. È vero che ora i cinesi sono ovunque, a tutti gli angoli, insieme ai ristoranti, ma quella vecchia pelletteria ha lasciato il posto a un negozio di poltrone e divani e poi la facciata del caseggiato è stata ridipinta di giallo.

    Ma certo. Sono passato di qui centinaia di volte. Sento il profumo del luogo, ne conosco ogni angolo, persino ogni pietra con cui è lastricata la strada. Ecco le vecchie e inutili rotaie del tram che si perdono tra il selciato e sono interrotte qua e là da tratti d’asfalto al centro della piazzetta con l’edicola nel mezzo del marciapiede a forma di triangolo. Più avanti, dall’altro lato, al posto del negozio di abbigliamento militare recuperato dalla guerra del Golfo, c’è la trattoria con la ruota di legno di un carro appesa fuori. Non capisco chi possa acquistare una maschera antigas dell’esercito americano, piuttosto che mangiarsi un piatto di pasta spendendo un niente. Qualche eccentrico per andarci in bicicletta e ricordare ai suoi concittadini quanto sia inquinata l’aria.

    Devono essere tutte queste immagini a suggestionarmi. Con sentimenti confusi riprendo il cammino e a mano a mano che riconosco i luoghi che mi vengono incontro, la mia andatura si fa più veloce. Tento di sfuggire a questa ossessione. Lancio un’occhiata distratta verso uno dei tanti slarghi bui della via, dove le auto sono aggrovigliate di fronte alla discoteca Mio Mao, nome di sicuro non più attuale, improbabile, imbecille, direi, eppure è lì da vedere. Un gruppo di giovani sta per scendere verso il destino che li attende, sornione, in compagnia del buio colorato da luci psichedeliche e da un silenzio che trapana i timpani. La musica è insopportabile, perché si sente salire dalle viscere del locale un sordo rimbombo monotono di bassi. Allora è meglio ascoltare un pezzo di John Cage. Insolito è l’orario, perché a quest’ora i locali notturni non hanno ancora acceso le luci.

    Non devo farmi irretire da ciò che vedo. È la mia immaginazione. Ho la febbre, me la sento. Il mondo è pieno di insegne e scritte di vetrine. Nemmeno questa della sezione del partito che non esiste più m’interessa, perché se anche sono cambiati i tempi, per certa gente quelli sono i comunisti di sempre. E il fatto di rivedere il vecchio simbolo, è più incoraggiante, che trovarsi tra l’incudine e il martello. Io a che punto sono? Mi colpirà il martello o mi cadrà in testa un vaso da venti chili?

    Per un attimo mi sembra tutto normale, ma è meglio andare oltre. Non dovevo lasciar passare il signore, anzi, avrei dovuto prendere a calci il cane. Sì, quel maledetto barboncino nero è la causa di tutto questo casino. Avrei dovuto fargli leccare la sua stessa merda, così tutte queste complicazioni temporali non sarebbero sorte.

    Per fortuna la fretta ha i suoi vantaggi. Ciò mi rincuora e ne ho davvero bisogno. È meglio che non pensi a mia madre, tanto dovrò farlo domani. Bisogna pur darsi una chance, ne va della sopravvivenza, anche se il rimorso mi perseguiterà per il resto dei miei giorni. Mi sento male all’idea. Forse mi staranno già telefonando dall’ospedale. Sono uscito con troppa fretta e ho lasciato il cellulare sul tavolo. Comunque era scarico. Non farsi trovare è una buona idea ed essere uscito mi fa bene, perché mi aiuta a distrarmi.

    Conosco il tragitto a memoria e non ho bisogno di guardare dove metto i piedi, perché le sconnessioni sono insidiose, per non parlare delle merde dei cani in costante agguato. L’umanità è perduta. Si potrebbero clonare cellule canine e incrociarle con quelle umane. Nascerebbero degli androcanidi. Esseri ermafroditi che durante la loro evoluzione si sbarazzano del maschio e diventando autosufficienti. Al liceo, a proposito della ricerca scientifica, avevo scritto in un tema che essa non può prescindere da un’etica. Però, a proposito degli androcanidi, non ho mai pensato che potessero diventare ermafroditi. Da dove mi viene quest’idea? C’è qualcosa nella mia testa che non va. Anni dopo ho saputo che si stava sperimentando la possibilità di incrociare piante di piselli con i girasoli. Chissà, magari è davvero saggio comprarsi una maschera antigas. Nei pinguini dell’Antartide erano state trovate tracce di DDT e oggi sono pieni di piretro e presto nasceranno pinguini a spirale, mentre gli orsi bianchi rischiano l’estinzione come i triceratopi.

    Intanto la via si fa più regolare. I negozi sono incredibilmente sempre gli stessi da decenni e persino il fruttivendolo c’è ancora. Probabilmente lui è morto o ha ceduto l’attività. E dire che quell’uomo dalla faccia di Buster Keaton sembrava eterno. Magari esisteva già da cento anni o magari non è più lui a gestire il negozio. Però le sue occhiaie e la sua espressione stralunata sono rimasti nella mia memoria. Passo davanti alla saracinesca abbassata e gli auguro altri cento anni da fruttivendolo, immaginandomi che le vitamine lo possano miracolosamente tenere in vita. Che siano i pesticidi a conservarlo?

    Tutti questi ricordi m’infastidiscono. Maledetta telefonata e la mia codardia. Dovevo rifiutare, dirgli che non aveva senso, che non avrebbe dovuto permettersi di chiamarmi, che non si può tornare indietro. Invece sono qui e so che non riuscirò a consegnare la traduzione entro i termini pattuiti. Non ci sarei riuscito comunque. D’altronde non potevo non andare in ospedale da mia madre e questo pensiero aggrava il mio già pessimo stato d’animo. Come se non bastasse, ci si mette anche il mio passato a inseguirmi. Cazzo è tutto talmente assurdo e fuori luogo! Però è inutile chiedersi da che parte si scappa.

    Eppure …

    Perché sto guardando nella vetrina dell'antiquario? Ho persino attraversato per farlo. Quest’armatura medievale se ne sta al solito lì in piedi, immobile, impolverata, in attesa di un improbabile estimatore a farmi venire la nausea. Ho letto troppi autori esistenzialisti. In un salotto, tra una poltrona di marca e un divano in pelle di design, questa armatura potrebbe fare la sua bella figura, magari con un posacenere di peltro nel palmo di ferro. É lì da decenni. Certo, chi la compra?

    Anziché i jeans, una felpa, il giubbotto blu e le mie Desert Boot, avrei fatto meglio a indossare una corazza. Me la sarei dovuta costruire negli anni. Dio come vorrei tornare indietro. Con lo stomaco sottosopra, attraverso il viale alberato. Uno cretino suona il clacson. Sto per reagire, ma mi sorge un dubbio e, infatti, ho attraversato con il rosso. Il cretino sono io.

    Il semaforo c’è sempre stato? La confusione è totale.

    Il pensiero mi conforta, perché significa che ho accettato l’idea di dover convivere con il caos e mi sento più sicuro, cosa opportuna per un ultra cinquantenne. Mi rendo conto di essere spesso lontano dalla realtà, ma non è poi un male, perché aiuta ad andare avanti.

    Qui al margine del parco, l’illuminazione è soffocata dalle folte chiome dei platani e la penombra mi dà una mano a scrollarmi di dosso la maledetta malinconia che mi ha accompagnato sin qui. La città mi scorre accanto, non lontana, ma abbastanza da lasciarmi lo spazio per respirare. Credo almeno.

    Mi vien voglia di proseguire nel parco e scendere sino alla riva del lago, ma ho promesso di andargli incontro come ho fatto centinaia di volte, strada facendo. Il dubbio che ci possa essere un contrattempo mi perseguita già da quando sono uscito. Scruto nell’oscurità arancione, ma di lui non c’è traccia. Avrei dovuto aspettare, ma in fondo mi stava bene di incontrarlo qui all’altezza del parco. Un albero è più rassicurante di un palo della luce.

    Infatti ho rallentato. Costeggio i giardini e raggiungo la piazza con il suo incrocio disordinato. Qui aspetto il verde del semaforo. L'impazienza riprende di nuovo possesso della mia mente. Guardo dall’altra parte, ma non vedo nessuno. Speravo che questa sosta potesse essere di aiuto, ma so che non c’è speranza. Quando finalmente mi è concesso di attraversare, lo faccio con una breve corsa. Ho ancora secondi preziosi a disposizione, ma sono ormai certo che non lo vedrò arrivare. Eccomi davanti al portone contrassegnato dal numero quattordici. Mi spavento al passaggio di una persona che camminava dietro di me. Aspetto, ma che senso ha? È l’ultima cosa che avrei voluto, ma devo farlo. Alzo la mano sinistra e premo il solito pulsante.

    Trascorrono i secondi che paiono minuti, poi ore. Tiro un sospiro di sollievo. Non dovevo citofonare. Che deficiente che sono. Era sufficiente dire di no al telefono, oppure non presentarsi all’appuntamento, tanto lui che cosa ha fatto? Bene, posso tonarmene a casa. Il cuore mi batte dall’emozione. Mi volto, ma una voce anziana gracchia alle mie spalle:

    – Chi è?

    Incredibile!

    – Buona sera. Sono Erik.

    Maledetta educazione! Ma che cosa ho fatto di male?

    – Ciao. – risponde la voce lentamente. – Sai, Enrico è uscito. Ha detto che tornava più tardi.

    – Grazie, lo aspetto qui. – risponde la mia voce che non ha il coraggio di chiedere almeno come sta.

    Avrò avuto un’educazione per bene, però, a tutto c’è un limite. Non ero pronto a sentire quella voce dopo tutto questo tempo. Certo, avrei anche potuto immaginarmelo. L’imbarazzo sta lentamente scemando. Dov’è Enrico? Deve essere successo qualcosa, altrimenti lo avrei incrociato strada facendo, magari dalle parti di Buster Keaton.

    2

    Sapevo che finiva in questo modo! Quante volte è già accaduto, che non si sia presentato? Però, non dopo una telefonata. Sono uscito per niente. È stata una fatica inutile. Potevo risparmiarmi tutte queste menate sul passato ed evitare di andare a guardare dentro il bar. Non ho mai fatto una cosa del genere. Quando cammino per strada tiro dritto. Sono un idiota. Perché mi ha telefonato e ha insistito per vedermi, se non era sicuro di arrivare all’incontro? Adesso io che faccio? Sto qui impalato come uno scemo?

    Fanculo! Ma è meglio così. Non ho bisogno né di dare spiegazioni, né di cercarle. Soprattutto potrei approfittare per godermi la serata. Qui ci si sottrae meglio. Devo riflettere, ma non su questo marciapiede.

    Vediamo se arriva. Dalla piazza non si vede nessuno. Potrebbe essere qui da un momento all'altro, ma intanto sono costretto ad attendere e non ne ho voglia. Io odio queste situazioni, perché l’attesa è un fastidio. Una volta era anche peggio. Eppure nonostante tutti gli anni trascorsi – e trenta sono pure troppo pochi – le vecchie idiosincrasie non sono del tutto scomparse. Pensavo che non mi sarebbe più accaduto di dover aspettare invano qualcuno. Sì, è successo, ma ormai basta un colpo di cellulare per disdire un appuntamento. Vero, l’ho lasciato a casa, ma lui non conosce il mio numero e poi chissà se ne ha uno.

    Sono fortunato, perché a quest'ora ci sono pochi passanti. L'idea di dover mostrare agli altri che io, Erik Eisendraht, mi trovo in imbarazzo, mi dà un fastidio terribile. Il fatto che nessuno mi conosca e che neppure gli importi qualcosa di me, non modifica di molto la situazione.

    Che ore sono? Le nove meno venti. No, non rientro a casa, non adesso. Se non arriva, come ormai è sicuro, passeggerò un po’. L’aria fresca mi farà bene. Poter scambiare quattro chiacchiere con Enrico, sarebbe stato meglio.

    Che mi salta in mente? Che razza di pensieri sono? É davvero questo il motivo che mi ha spinto ad accettare l’incontro? Certo, avrei potuto sfogarmi un po’ per quello che è successo in ospedale. Enrico mi avrebbe capito.

    Sono disorientato. In ogni caso non passerò più davanti al bar. Questa cosa del tempo non doveva succedermi. Qui attorno non mi pare che ci siano altre stranezze, tutto è come al solito. Anzi, no: il parco dall’altro lato del viale è stato recentemente risistemato e cintato, invece ora è come se fossimo tornati indietro di decenni. Addirittura Le aiuole sono delimitate da quelle assurde strisce di metallo verniciate di verde, fissate a dei blocchetti di legno conficcati nella terra. Mi manca di vedere le automobiline a pedali di ferro che da bambino adoravo e sulle quali mia madre mi concedeva solo raramente di fare un giro, e l’orrore è completo. Quelle appartenevano a un’epoca davvero remota.

    Sta per sopraggiungere una coppia che cammina abbracciata e ondeggia, perché i tacchi della ragazza la costringono a muoversi come un cammello. Mi giro, ostentando disinvoltura. È più forte di me: non posso mostrarmi in questo stato, perché l’attesa non l’ho messa in conto e ciò che non prevedo mi urta. Devo incontrarmi con un vecchio amico ed è quanto la gente può sapere, se ci vedesse insieme, il resto non li riguarda. Tanto meno quel tizio nel bar che giocava a biliardo. Chissà che cazzo voleva da me. Prendermi in giro.

    Che cos’è questo improvviso frastuono di clacson e grida che giunge dalla piazza in fondo al viale? Una rissa, un incidente? La violenza mi spaventa. Il semaforo verde in piazza dà il via libera al fracasso che si avvicina come uno tsunami. Mi assale il panico e mi riparo dietro a un grosso palo della luce. Osservo passare lo sciame chiassoso delle automobili e delle moto, seguiti da un codazzo di motorini che cercano di stare dietro alla carovana. Sono pazzi. Qualcuno è salito sulla ribalta di un furgoncino con dei tamburi sui quali picchia forsennatamente, mentre la gente affacciata dai finestrini e dai tetti aperti delle auto e in sella alle moto urla eccitata.

    Gridano parole senza senso. Vittoria … siamo grandi … viva le donne … non ci fermeranno più … fede, cuore, anima, libertà!. Mi pare di sentire anche esclamazioni di scherno e dileggio nei confronti di non so chi, ma il resto si perde nel rumore dei motorini e delle sirene ad aria compressa e dei tamburi.

    Sono frastornato da questa voglia di festeggiare e poi mi trovo qui da solo con la mia percezione di vulnerabilità che conosco bene. Mi guardo attorno, ma oramai so che non incontrerò Enrico.

    Mi devo allontanare da qui. La cosa migliore è di attraversare e di sedermi su una delle panchine del parco. Ecco lì di fronte sono tutte libere. Questa è pure poco illuminata. Alle mie spalle, a un centinaio di metri da me, una mezza dozzina di uomini è radunata in cerchio. Mi ricordo che una volta si incontravano proprio in quel punto per giocare d’azzardo, o almeno così credevo, ma sono passati decenni. È inquietante. La penombra delle frasche mi rassicura e da qui ho modo di controllare anche il portone dove potrebbe entrare Enrico.

    Questa notte di fine aprile è già tiepida. Tra non molto arriveranno le rondini. Al mattino, quando la città è ancora insonnolita, le sento volteggiare contente sopra i tetti. Mi appaiono brandelli d’immagini di quel giorno assolato di autunno, quando in classe la professoressa di italiano analizzò la poesia del Pascoli, così tragico, che parla della rondine che torna al tetto e viene uccisa con il cibo per i suoi piccoli nel becco. Metafora del padre del poeta ammazzato la notte di San Lorenzo, a detta dell’insegnante, perché come si fa a saperle certe cose. Bisogna approfondire. Approfondire … San Lorenzo, notte di stelle cadenti e di stragi. Oggi, però, è il 30 di Aprile.

    C’è una leggera brezza che sale dal lago e l’aria profuma di erba. È stata un’altra giornata di merda. Qui si sta bene.

    Il primario mi ha spiegato com’è il quadro clinico di mia madre e lo ha fatto anche un po’ bruscamente, ma è vero che io insistevo nel non voler capire. Stavo già pensando che avrei dovuto cercare una badante, con la certezza che lei non l’accetterà. So già che farà un sacco di storie e cercherà di cacciarla. Poi, finalmente, ho ascoltato e ho capito ed è stato buio. Un buio insopportabile, che dura da troppo e dal quale vorrei fuggire. Quante volte lo avrei voluto fare, ma non ne ho mai avuto il coraggio.

    Di nuovo questi imbecilli che strombazzano ed esultano. Ma cosa festeggeranno mai? Non c’è nulla da festeggiare. E poi che fastidio il chiasso delle moto. Sì, festeggiate, fatelo finché siete in grado. Un giorno magari vi toccherà un letto con un materasso anti decubito o una carrozzella con il poggiatesta. Siete giovani e sani e vi comportate da malati. L’infanzia, la maternità e la vecchiaia. Klimt, olio su tela. Voi non siete per nulla raffigurabili.

    Guardo verso il portone numero quattordici nella speranza di vederlo apparire, ma so che è improbabile. Sono tutto sudato. Nella mia testa scorrono le immagini del passato che si confondono con la visione del giocatore di biliardo in quel bar che oggi è tutto diverso e con quella di mia madre che giace in un letto d’ospedale.

    Porto le mani al viso, ma i ricordi diventano più nitidi.

    Frequentiamo la stessa scuola e ci incontriamo tutti i giorni durante le pause. Siamo alle superiori. Da qualche settimana un manipolo di ragazzini della prima media si diverte a farci degli scherzi. Il cortile è diviso in due da una lunga siepe di arbusti pieni di spine lunghe anche un paio di centimetri con cui quei mocciosi ci infastidiscono. Siamo assaliti alle spalle, d’improvviso, in veri e propri agguati. Quelli ridono e gridano dopo ogni attacco, mentre noi imprechiamo e li mandiamo a quel paese.

    Sono soprattutto preoccupato, perché so che il vero obiettivo è Enrico, al quale di tanto in tanto scappa la pazienza e li insegue. Ha un modo di correre un po’ ridicolo. Tiene il busto esageratamente diritto, che sembra che le gambe debbano scappare in avanti per conto loro. Quelli godono un mondo a farsi rincorrere, anche perché, dopo un malaugurato incidente occorso a un bambino, è severamente vietato farlo.

    Una mattina sono particolarmente insopportabili e Enrico perde la pazienza. Quelli scappano passando per la buca piena di sabbia del salto in lungo. Lui non demorde e riesce, purtroppo, ad acchiapparne uno ed è un disastro. Cadono nella sabbia e ne scaturisce una breve lotta senza esclusione di colpi. Enrico ha la peggio in tutti i sensi. Li disseppellisce un professore e siccome lui è il più grande, si becca una ramanzina per il suo comportamento maldestro.

    Mi è capitato diverse volte di vergognarmi di Enrico che è un tipo testardo. Prende tutto alla leggera. Spesso non accetta le opinioni altrui, soprattutto le mie. Eppure stiamo bene insieme.

    Non ricordo da quanto ci conosciamo e nemmeno quando è stata la prima volta che ci siamo parlati. Certamente è successo a scuola. Dev’essere stato il mio compagno di classe Bela che me l’ha presentato. La memoria, come in molte altre occasioni, non mi è d’aiuto. Chiedere a Enrico, poi, sarebbe inutile, perché mi risponderebbe che non è importante ricordare, bensì prevedere il futuro. Io mi sarei arrabbiato e lui si sarebbe messo a ridere, anzi, a ghignare.

    Sì, dev’essere stato Bela, eravamo alle medie. Non ricordo il suo cognome. Veniva in classe ben vestito, di nero, era paffutello e di poche parole e spesso arrivava con il suo violino. Era apolide, cioè uno zingaro, ma l’insegnate, che ci spiegò il significato della parola, non fece il paragone e noi nemmeno ci sognammo di farlo. Era uno di noi: un po’ strano, ma eravamo tutti un po’ strani. È rimasto da noi in classe soltanto qualche mese, poi è improvvisamente sparito. Era molto intelligente, perché nonostante che fosse arrivato ad anno già iniziato, non ebbe difficoltà a seguire le lezioni.

    Comunque è stato lui a presentarmi Enrico, con il quale aveva fatto amicizia in cortile. Credo che il merito fosse di Enrico che era un tipo curioso. Non avrà esitato a chiedergli da dove venisse e come mai girasse con uno strumento. Io non gliel’ho mai chiesto, né a lui, né a Enrico, perciò ignoro se passasse i pomeriggi a suonare chiedendo l’elemosina. Non lo credo. Piuttosto doveva essere uno di quei Rom ricchi.

    Sono assorto in questi pensieri, quando sento che qualcuno si avvicina. Mi giro e vedo quattro che, staccatisi dal gruppo dei giocatori, si allontanano lanciandomi una breve occhiata. La cosa mi tranquillizza. Guardo di nuovo il portone e mi rendo conto di essermi distratto. Potrei non aver visto rincasare Enrico. Sono nervoso. Non è il caso di citofonare un’altra volta a sua madre.

    Cerco una soluzione. Istintivamente mi giro. Del gruppo di giocatori sono rimasti in pochi. Uno mi guarda. Tiene una mano in tasca e con l’altra porta una sigaretta alla bocca. Il losco individuo punta verso di me. Che cosa vorrà? Si ferma a una certa distanza, lascia cadere la sigaretta consumata solo a metà e la spegne con un piede. Poi si allontana.

    Per fortuna il tizio è ormai un’ombra scura. In quel momento un rumore concitato di suole di cuoio sul ghiaietto che copre i vialetti, attira la mia attenzione. Alcuni si strattonano, o meglio due se la prendono con un terzo. Nessuno parla ed è come la scena di un film muto. Poi una spinta molto forte mi fa alzare. In fondo non m’importa molto di quello sconosciuto che si trova in difficoltà, ma la violenza con la quale viene trattato dai due, mi allarma. Si dirigono verso il lago.

    Seguo la scena da lontano. Ho il batticuore. Dovrei allontanarmi, ma come mi è capitato in precedenza con l’uomo del biliardo, rimango qui impalato, anzi, mi viene di seguirli. So che potrebbe essere pericoloso, ma non riesco a fare altrimenti. Intanto hanno convinto il poveretto a camminare e procedono con andatura più sollecita. In prossimità della riva uno dei due si volta, mentre l’altro afferra la vittima per il bavero. L’uomo mi guarda, ma, accertatosi che non c’è nessun altro, torna a occuparsi del malcapitato.

    Ora le spinte diventano botte che quello cerca di schivare. Tenta senza successo di far desistere i suoi avversari dal colpirlo. Questi gli concedono una tregua e lo lasciano indietreggiare, ma non c’è più spazio tra lui e l’acqua.

    Che cosa devo fare? Niente, andarmene. Subito. Sono paralizzato. Sono terrorizzato. Ho un presentimento, un turbamento inspiegabile, come se ciò che sta accadendo mi riguardi. Uno dei due mi ha visto, ma la cosa non lo preoccupa. Mi accorgo di tremare. Il cuore mi batte come una furia. Il sudore mi cola dalle tempie e ho un nodo alla gola. Il poveretto indietreggia. É buio, eppure mi pare di riconoscere il malcapitato che ha i capelli lunghi, scuri, ed è di statura media: ma certo, è Enrico.

    Ho un crampo allo stomaco che mi fa piegare in due e sono costretto ad appoggiarmi a un albero per non cadere. Non sono sicuro che sia davvero lui, perché c’è poca luce, ma ho dei cattivi presagi. Da incosciente mi voglio avvicinare, ma lasciato il sostegno sicuro dell’albero, le gambe mi tradiscono e cado nel prato. Ho solo la forza di mettermi in ginocchio. Poi non posso far altro che assistere al resto della scena.

    L’uomo è ormai presso la riva e i due che indossano giacca e cravatta gli si avvicinano nuovamente minacciosi. Ora prova a difendersi mettendo semplicemente avanti le mani, ma gli aggressori non hanno fretta. Uno inizia a picchiargliele e a farlo vacillare con qualche pugno. Poi lo agguanta per un braccio, lo tira a sé, lo gira e da dietro gli branca la gola con il braccio.

    La vittima si divincola, ma la morsa è inesorabile. L’altro inizia a colpirlo allo stomaco con dei pugni. Cade a terra, ma è afferrato brutalmente per il bavero e per la gamba dei pantaloni e viene scaraventato in acqua. Il secondo lo prende per i capelli e gli caccia la testa sotto.

    Scalcia disperato mentre un rantolo sordo, un gorgoglìo dell’acqua giunge fino alle mie orecchie. Dopo un ultimo fremito, il corpo resta immobile.

    Do di stomaco.

    Quando, dopo essermi pulito la bocca nell’erba, rialzo la testa, i due uomini mi stanno guardando. Si avvicinano e ho la netta sensazione che sia giunto il mio turno. Mi alzo a fatica. Vorrei bere per togliere l’amaro di bocca, però non c’è tempo. Spero che basti allontanarsi, per far desistere i due dall’inseguirmi, ma non è così.

    3

    Mi volto una, due, tre volte, ma quelli senza fretta mi seguono. Allungo il passo. Non mollano. Accelero più che posso. Li ho distanziati, ma a loro non piace. Non mi resta altro che mettermi a correre, perché questi fanno sul serio.

    Raggiungo l’incrocio e il semaforo, che ha appena dato via libera a un’ennesima ondata di macchine. Memore delle mie giovanili imprese atletiche, capisco di potercela fare e come un fulmine attraverso la piazza. Alle mie spalle rumori di clacson e di brusche frenate mi danno coraggio. Con la coda dell’occhio intuisco le difficoltà dei miei inseguitori. Non mi fido di questo successo. É l’occasione di seminarli e scappo. All’angolo di una via a senso unico devo fermarmi per rifiatare. In bocca ho il sapore acido del vomito. Quei due non sono lontani, ma litigano con le auto e i motorini che imprecano contro di

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