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Il silenzio è d'oro
Il silenzio è d'oro
Il silenzio è d'oro
E-book570 pagine6 ore

Il silenzio è d'oro

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Info su questo ebook

In questa raccolta vi sono racconti mistici e altri di tipo erotico. Vi sono testi teatrali messi in scena in varie occasioni, soprattutto durante eventi di beneficenza. E poi ci sono tante poesie. Tante da coprire un vasto arco temporale, anch’esse a tema mistico o sensuale. Ogni pagina della raccolta fornisce numerosi spunti di riflessione e memorie. Sono testi definiti “giovanili” ma contengono una grande maturità espressiva ed emotiva.
LinguaItaliano
EditoreNextBook
Data di uscita29 dic 2017
ISBN9788885949041
Il silenzio è d'oro

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    Anteprima del libro

    Il silenzio è d'oro - Giuseppe De Renzi

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    Giuseppe De Renzi

    IL SILENZIO È D’ORO

    RaccontiTeatroPoesie

    Opere giovanili di Giuseppe De Renzi

    ROMANZO

    logo_NB_interni

    Giuseppe De Renzi

    Il silenzio è d'oro

    ISBN 978-88-85949-04-1

    © 2017 NextBook, Milano

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    PARTE PRIMA

    I RACCONTI

    STRADE

    ALL’OMBRA DELLA GRAZIA

    AMORI AMARI

    A PESO D’ORO

    GIGLIOLA

    Prefazione

    Emozioni, spiritualità ed erotismo, tutto sullo stesso piano. Il titolo di questa serie di racconti, All’ombra della Grazia, nasconde al suo interno una moltitudine di sensazioni di rara bellezza narrativa. Un viaggio, un percorso all’interno dell’animo umano, dove tutte le emozioni, eros, amore, vita, morte, nascita, si uniscono per dare origine ad un mondo di grande spiritualità.

    È bello entrare in questi racconti e passare attraverso gli spazi bianchi fra le parole, immaginando di essere dentro un universo nuovo, dove l’amore è sempre presente, caldo, avvolgente, consolante. Grande potenza evocativa, che lascia il lettore letteralmente attaccato alle storie, incapace di staccare gli occhi dalle parole che sgorgano fresche e nuove.

    Graziano Di Benedetto

    STRADE

    1. La strada di Cremolino

    2. La Route du vin

    3. La strada per Carleveri

    4. Autostrada A26

    5. La strada di San Vito e Stella

     La strada di Cremolino

    1-4 Dicembre 1997

    C'è un solo taxi, fermo alla stazione di Acqui. L'uomo è dentro, seduto al posto di guida, in attesa senza convinzione.

    Il giorno è grigio, mi pare, non ricordo bene. Forse pioviggina. Lo sciopero improvviso del compartimento ferroviario di Genova mi ha costretto a scendere dal treno quando mancavano ancora tre stazioni ad Ovada, dove ho appena preso servizio per il mio primo incarico. Ma non sono arrabbiato. È difficile che di questi tempi io mi arrabbi. Va così. Oggi una cosa, domani un'altra. Lavoro da poco in questa piccola terra ai margini del Piemonte, con Alessandria e Asti alle spalle e già col sentore del mare della Liguria, e non ho uno straccio di stipendio, per ora. Oltre queste colline, ad una sessantina di chilometri, c'è Genova. Torino, dove mi sono appena specializzato in microbiologia, ormai mi sembra lontanissima, anche se ho mantenuto con essa un labile cordone ombelicale. Sono finito qui con la promessa di una consu¬lenza per qualche mese. Oltre non riesco a vedere.

    Sul piazzale della stazione in cui sono rimasto appiedato c'è un autobus fermo. Chiedo a qualcuno se è l'autobus che va ad Ovada. Mi dicono di sì, ma che per gli orari bisogna rivolgersi all'autista, che forse è al bar. Me lo descrivono come un uomo corpulento. E infatti, quando entro, vedo effettivamente un signore grande e grosso che sta prendendo un caffè al bancone. Gli domando se è lui l'autista dell'autobus posteggiato fuori, ma quello mi guarda stranito, rispondendomi che non è lui, e che non ne sa niente. Allora esco dal bar e chiedo al taxista. L'uomo esce dal¬la macchina e mi dice che lo ha visto appena un istante prima entrare nella stazione. Mi invita a seguirlo. Cerca un po' in giro, con me dietro, ma l'autista proprio non c'è.

    Lo guardo sconsolato.

    «Come si fa ad arrivare all'ospedale di Ovada da qui?» gli chiedo.

    Lui allarga le braccia, più disarmato di me.

    «In taxi» risponde.

    «Ce la faccio con cinquantamila?» provo a saggiare io.

    «Credo di sì, più o meno» mi assicura.

    E vabbe' – penso – oggi va così.

    Ho fatto la strada tra Acqui Terme e Ovada con la mia macchina già un paio di volte. È una bella strada che risale serpeggiante tra le colline e poi ne ridiscende, tutta curve e mezzi tornanti. Al di là si sente il mare, invisibile, necessario. Necessario per me, voglio dire, perché ci sono nato e ci sono cresciuto per tutta la vita, prima di decidere di trapiantarmi in Piemonte.

    A me piace molto guidare, ma ho saputo che quelli di qui reputano questa statale brutta e pericolosa. C'è sempre nebbia e neve, in inverno.

    «Non ci sono altre strade, per Ovada?» chiedo al taxista.

    L'uomo sobbalza. Ero stato in silenzio tutto il tempo, e non si aspettava una domanda così all'improvviso.

    «No, non ce ne sono altre. Ma non si preoccupi. Arriveremo presto. Facciamo una scorciatoia» mi risponde.

    Beh – mi dico – non tutto il male vien per nuocere, a quanto pare. Così la conosco anch'io. Potrebbe servirmi.

    Al bivio per Cremolino il taxista invece di proseguire dritto si infila in una stradina stretta che va in giù per una specie di boschetto. È una strada a carreggiata unica. Due macchine ci passano appena, e le curve si fanno più insidiose.

    Ci siamo solo noi, nella nostra livrea bianca, a correre tra quelle colline e quei boschi. In poco tempo tagliamo tutta la valle, e dopo dieci minuti appena il taxista svolta ad un incrocio e come d'incanto ci ritroviamo davanti all'Ospedale Nuovo.

    Scendo, gli do le cinquantamila pattuite, pensando che sono state ben spese.

    Qualche giorno dopo provo a rifare la strada con la mia macchina. Sono le sei di mattina di un giorno freddissimo di fine Novembre. C'è nebbia, o foschia, o nuvole, non so bene, che inumidiscono l'asfalto. La luce del giorno sale poco a poco, rischiarandola. È una strada bellissima. Ne sono quasi inebriato. Troppo, forse, perché senza rendermene conto abbordo un tornante stretto troppo veloce. Riesco a scalare in tempo senza frenare e a prenderlo bene.

    Se tocco i freni ora mi ritrovo dritto al porto di Genova, penso tra me, ridendo.

    Lo ripeto, però: strada bellissima. La prossima volta mi riprometto di farla con più attenzione. Guidare qui è un'emozione.

    Quando arrivo in ospedale dico di aver fatto la strada di Cremolino.

    «Bellissima!» dico, entusiasta.

    «Ah sì, proprio bella!» rispondono loro, pensando che lo stia dicendo con sarcasmo. A loro proprio non piace, con la nebbia e l'asfalto viscido.

    Due giorni dopo torno al mio appartamento a Torino. Nel frattempo ho affittato – ancora senza stipendio! – un monolocale anche ad Acqui, e faccio il pendolare settimanale tra l'uno e l'altro.

    Quella notte dormo lì, poi, la sera dopo, prendo un treno per Milano. Alle undici e trentacinque devo prendere un espresso per Chianciano Terme. Vado ad un congresso dove spero di incontrare il mio precedente primario, al quale devo l'aiuto per trovare la consulenza che sto per assumere. È sempre grazie a lui che ho i biglietti di andata e ritorno di prima classe e la prenotazione assicurata al congresso in un albergo a cinque stelle.

    Dormo in giacca e cravatta sui sediolini tirati giù a mo' di cuccetta in uno scompartimento vuoto. Solo dopo Firenze viene un controllore a svegliarmi, ma poi mi riaddormento subito. Quando riapro gli occhi sono poco dopo Arezzo. Il tempo di rimettermi un po' in sesto e scendo a Chiusi.

    Prendo l'autobus per Chianciano che sono quasi le sette del mattino.

    Sono in Toscana. Non molto lontano da qui c'è la terra di San Francesco e Santa Chiara. Penso a loro perché è l'alba, e la luce che vedo è bella e umile. C'è stato da poco il terremoto che ha toccato la Basilica del santo facendo crollare parte degli affreschi della volta. Io non li ho mai visti, e probabilmente non li vedrò mai più.

    A Chianciano mi faccio lasciare in piazza Italia, un quadrivio fitto fitto di Hotel, e infilo subito l'ingresso dell'Albergo Le Fonti, dove ho la camera prenotata – quasi una suite, mi rendo conto entrando e buttando la giacca sul letto.

    Il congresso si svolge all'Hotel Excelsior, che è dirimpetto al mio, dall'altra parte della strada.

    Incontro il mio vecchio primario durante una delle relazioni del mattino. Mi dice che mi trova in forma, e che mi aiuterà ancora, se dovessi averne bisogno.

    Pranzo durante la pausa del congresso, poi torno all'Excelsior.

    A sera mi avvio solo per le strade deserte e umide di Chianciano. Il cicaleccio e la bella vita estive sono ancora troppo in là da venire, immagino. Del resto, nel piccolo paese di villeggiatura dove sono nato l’atmosfera di questi tempi è la stessa. Conosco bene questo deserto umido invernale.

    Chiedo a un gruppetto di ragazzi se c'è una pizzeria nei dintorni. Me ne indicano una, ma qualcuno dice che si chiama L'orso bianco, mentre gli altri sono convinti che si chiami Il gallo nero.

    Rido, ma li ringrazio ugualmente.

    Il locale non è granché, ma ci si può accontentare.

    Mi siedo solo ad un tavolo in una saletta che dà sulla strada.

    Sono il solo avventore, per ora. Il mio tavolino è davanti ad una finestra chiusa da una tenda bianca. Chiedo al proprietario se si può scostarla.

    L'uomo mi guarda come se vedesse uno fuori di senno.

    «Perché?» chiede.

    «Vorrei vedere la strada» rispondo.

    «La strada?» chiede di nuovo lui.

    «Sì» dico pacifico: «Voglio guardare fuori mentre mangio.»

    «Non si può, è una tenda fissa» dice lui.

    E che cavolo ce l'hai messa a fare?, penso senza dirglielo.

    Ordino la pizza, che non è buonissima, ma insomma, l'importante è mangiare.

    Pago, ed esco.

    Fuori, ridiscendendo la strada verso il mio albergo, vedo degli alberi con del muschio. Lo tocco con il palmo della mano come se non l'avessi mai visto. È umido e morbido. Una sensazione piccola e intensa come fare un tornante con il brivido sotto le ruote bagnate di nebbia, nuvole e rugiada.

    Sorrido.

    «Dio che bello!» dico guardando Chianciano in basso e le colline toscane nel buio davanti a me.

    Di là, da qualche parte, non molto lontano, c'è il mare. Lo sento ovunque, ormai.

    Il giorno dopo, all'una e mezza, prendo un Intercity per Milano. E una volta a Milano salgo su una coincidenza per Torino.

    Poche ore per dormire e il giorno dopo, alle sei del mattino, sono di nuovo in autostrada che guido in direzione di Genova.

    Cavolo che vita! Solo e libero, senza soldi, senza avvenire, senza né passato né presente, che corro e corro ridendo di me.

    In ospedale vengo a sapere che i Direttori Generali delle Aziende Sanitarie del Piemonte sono stati provvisoriamente rimossi dalle loro cariche, e che queste verranno commissariate.

    È come la storia dello sciopero che mi ha appiedato all'improvviso alla stazione. La mia consulenza potrebbe saltare, o essere procrastinata. E io ho solo i soldi a sufficienza per andare avanti due mesi appena.

    «Che faccio, adesso?» mi dico.

    Ma non sono arrabbiato. È difficile che mi arrabbi sul serio, di questi tempi. Va così, oggi. Più che altro mi fido della vita.

    Dopo un po', mentre sto lavorando, mi dicono che il primario di Ovada ha telefonato per rassicurarmi. Domani mattina stessa spera di mettere le mie cose a posto, in qualche modo.

    Il mio primario attuale è una donna. E che donna. Più affidabile delle mie ex fidanzate.

    Esco dall'ospedale e vado via in macchina, anche se ho scoperto che perde liquido dal radiatore.

    Prendo la strada di Cremolino per far prima ed arrivare al mio mini appartamento ad Acqui il più presto possibile.

    Non ho ancora avuto tempo di sistemarlo per bene, ma bisogna sempre pulire a fondo, quando si prende possesso di una casa nuova. Nel bagagliaio ho due spazzoloni, un litro di candeggina e tre o quattro spugne per il bagno.

    Quando finalmente arrivo all'incrocio che da Cremolino immette sulla statale per Acqui mi si mozza il fiato.

    In basso, davanti ai miei occhi, c'è una valle letteralmente sommersa di nuvole al tramonto. Un lago tra le colline fatto di nebbia bianca e turchina con sullo sfondo l'ultimo quarto di sole rosso.

    Le cime delle colline e i paesini più alti emergono come isole in mezzo al mare. Come dorsi di tanti mostri di Loch Ness nel loro lago senza contorni.

    Mai visto nulla di simile.

    Fermo la macchina tenendola accesa davanti al cancello di una villa. Scendo e mi appoggio al guard-rail per guardare l'incantesimo.

    Qualcuno si affaccia dalla villa, impensierito dal rumore del mio diesel, che non sembra essersi ancora stufato di aver percorso migliaia di chilometri con me a bordo. Poi rientra in casa, rassicurato dal vedere solo un ragazzo di poco più di trent'anni appoggiato al guard-rail dall'altra parte della strada che guarda la valle di nuvole, nebbia e sole al tramonto.

    «Vedi piccolo» dico a mezza voce a mio figlio, che non è ancora accanto a me. «Questa è la strada di Cremolino.»

    La route du vin

    Alsazia, 25 Dicembre 1997.

    Una Simca 1000 grigia. Poco più di una scatola su quattro ruote. Mio zio, ultimo dei fratelli di mia madre, tornava in Italia con quell'auto, circa venticinque anni fa.

    Dall'Alsazia, da una piccola cittadina tra Colmar e Strasburgo dove viveva con sua moglie, impiegava un giorno e mezzo – compresa una sosta notturna – per venire a trascorrere qualche giorno di vacanza da noi.

    Allora non c'era ancora il traforo del Gottardo a tagliare le Alpi in due, e doveva compiere un giro più largo. Ma a parte la sua piccola macchina, decisamente poco adatta per i lunghi viaggi, e a parte il passaggio disagevole della frontiera, credo che il motivo principale della penosità di quei trasferimenti fosse un altro.

    Mio zio era sposato con una giovane francesina, e farle fare quasi mille e seicento chilometri di fila su una Simca 1000 non doveva certo metterla di buon umore. Mio zio preferiva fermarsi e fare tappa per far riposare sua moglie, prima che la macchina e se stesso.

    Ricordo bene ogni suo arrivo al nostro paese.

    Appena sapevo che era tornato, andavo a salutarlo nella vecchia casa dei miei nonni materni, e sempre, prima di entrare, guardavo ammirato quella strana macchina dai fari gialli e le toccavo compiaciuto il cofano ancora caldo, come quando si dà una carezza sul muso di un cavallo sudato. Ogni ritorno di mio zio aveva per me qualcosa di eroico.

    Della mia giovane zia di allora invece non ricordo purtroppo assolutamente nulla. Mi hanno detto che era molto carina: très gentille, come direbbero i miei cugini francesi.

    Nemmeno di Frederich, unico figlio di mio zio, ne so molto, se non che già da piccolo avesse un caratterino niente male.

    Quando lo conobbi la prima volta era estate. 

    La mia famiglia allora trascorreva i due mesi centrali di luglio e agosto in una soffitta, perché subaffittavamo la nostra casa ai villeggianti. Eravamo accampati alla meno peggio, ma a me stare lì piaceva. Mi facevano ridere le capocciate che mia madre dava sistematicamente alle travi di legno troppo basse, e adoravo mangiare a pranzo il cocomero tenuto in fresco in una bacinella d'acqua anziché nel frigo.

    Ma Frederich non apprezzò molto l'essere trascinato su per le scale fino a quella porta di legno mezzo sgangherata. Io potevo avere forse dieci anni, lui cinque o sei. E quello che a me sembrava un divertente castello sotto il cielo stellato a lui dovette sembrare un posto immondo.

    Fatto sta che quando mi avvicinai a lui, cordiale e incuriosito, chiedendogli come si chiamasse, lui sfoderò un furioso 'Merde!', che troppo somigliava al corrispettivo italiano perché me ne sfuggisse il senso. Comunque, per essere sicuro, andai a chiedere lumi a mio zio. Hai visto mai che in francese volesse dire qualche altra cosa!

    Povero Frederich, solo ora capisco il suo malcelato disagio.

    Era stato tirato a forza fuori di Francia, rinchiuso per un giorno e mezzo in una scatola di latta e portato a dormire in una casa di vecchi contadini dai vestiti che odoravano di verdura e di cui non capiva un’acca. Finire alla fine in una soffitta dovette essere troppo.

    Non l'ho mai più visto, da allora. Neppure in fotografia. E se dovessi mai incontrarlo per caso per strada ora che ho trentaquattro anni non credo che il richiamo del sangue si farebbe sentire. Assolutamente non lo riconoscerei. Mia zia lo portò via con sé uno o due anni dopo quell'estate, subito dopo il divorzio.

    Io ho sempre saputo che lasciò mio zio perché innamorata di un altro, un francese stavolta, ma qualche tempo fa ho sentito per caso una conversazione familiare in cui qualcuno la giustificava dicendo che mio zio tornava sempre troppo tardi dal lavoro, e troppo stanco, e che invece di dar retta alla sua giovanissima moglie preferiva magari andare a farsi una partita a carte con gli amici.

    Questo, con tutto il dolore possibile, spiegherebbe perché da allora io abbia sempre visto mio zio rifiutarsi di giocare anche al più innocente tressette.

    Comunque sia, dopo aver perduto moglie e figlio, che non ha mai più visto neppure lui, cambiò macchina e cominciò ad arrivare in Italia con una grande e bella Peugeot bianca.

    Quando poi due estati fa andai a trovarlo in Alsazia, mentre tornavamo da Strasburgo a Colmar lungo la strada del vino, passammo dalle parti del paese di sua moglie, e indicandomelo fece con la mano un gesto vago a mezz'aria, misto di rimorso e rimpianto, come per dire che il tempo era andato.

    La Route du Vin mi ha inebriato di ricordi, e qualche volta anche a me verrebbe da fare quel gesto, ma finora io ho perduto assai meno di lui.

    La sua vita è stata una lotta assai più dura della mia, nato forse in una generazione successiva più fortunata.

    Lui invece l’ha sempre scampata per miracolo.

    Quando era poco più di un ragazzo, era andato con un suo coetaneo di famiglia ricca a fare un bagno fuori stagione nello specchio di mare davanti l'antica casa dei miei nonni.

    Forse per l'acqua troppo fredda, o perché troppo temerari, si sentirono male entrambi.

    Furono ripescati da qualcuno e portati sulla spiaggia. Il suo compagno non ce la fece, mentre lui, risvegliandosi ancora stordito, si alzò e se la diede a gambe per paura di essere punito.

    Da quanto ho saputo, la madre del ragazzo morto non gli ha mai perdonato di essersi salvato lui, insulso ultimogenito di contadini, e suo figlio no, a cui avrebbe potuto lasciare un giorno eredità a non finire.

    La vita di mio zio da allora è stata sempre così.

    A quindici anni, o giù di lì, cadde da un'impalcatura dove imparava a fare il manovale e si ruppe irrimediabilmente una gamba. Tra tutti i miei zii, emigrati chi in Francia chi in Australia, l'ho potuto sempre riconoscere anche di lontano per via di quella sua andatura zoppa e oscillante dovuta a quei centimetri che non sono riusciti a riattaccargli.

    Portare la calce sulle spalle ad un'età in cui si dovrebbe andare a scuola lo ha piegato, un po' ingobbito, gli ha svenato le braccia e ingrossato le mani, ma tra tutti i fratelli di mia madre è sempre stato il più bello, qualcosa a metà tra la maliziosa dolcezza di Alain Delon e la durezza di Jean Gabin, forse anche per via dell'influsso francese dovuto al mezzo sangue marsigliese di mia nonna.

    Ma che fosse italiano, però, lo si capiva subito. Dagli abiti della festa, dallo sguardo un po' fiero un po' no, dalla assoluta incapacità, rispetto ai francesi, di prendersi sul serio.

    Dalle sue numerose cadute dalle impalcature delle case che costruiva si salvò sempre per miracolo, una volta atterrando di schiena, e una volta riuscendo a frenare il volo aggrappandosi per un istante ad una trave. Ma la più rovinosa fu quando provò a metter su una sua ditta in proprio. Nei paraggi di Colmar ora ci sono diverse ville in perfetto stile alsaziano costruite dalle sue mani, ma quando capì di non poter riuscire a rimanere a galla da solo tornò a chiedere un lavoro da muratore stipendiato e a ricominciare ad alzare solidi muri in pietra viva dove voleva il capomastro.

    Povero zio, ai miei occhi è stato finanche più eroico della sua Simca 1000.

    Quando io finii le medie, venne a prendermi in Italia per farmi trascorrere le vacanze con lui a Guebwiller.

    Allora aveva già conosciuto e conviveva con colei che sarebbe stata la sua compagna più fedele e buona, zia Juliette, una vedova già con cinque figli che conobbe qualche anno dopo il suo divorzio.

    Zia Juliette è stata la sua vera moglie, e la mia vera zia, anche se loro due decisero di non sposarsi mai.

    Durante quella mia prima vacanza estiva in Francia mi trovai così meravigliosamente che mi innamorai persino di una delle mie cugine appena acquisite: Natalie.

    Aveva tredici-quattordici anni come me, era naturalmente bionda e con gli occhi azzurri chiari, e aveva un neo sulla guancia. Francese fino all'ultima cellula del sangue.

    Ricordo che un pomeriggio mi fece andare con lei fino al piccolo cimitero dove era sepolto il suo vero padre per portargli dei fiori freschi, e sulla via del ritorno le dissi, nel mio francese timidissimo: Je suis très bien avec toi!

    Ora è felicemente sposata con un Alsaziano che sembra un Vichingo, e ha una bambina che più bella non si può.

    Poi, alla fine di quell'estate, mio zio mi riportò indietro, ed io giurai a me stesso che quando sarei stato grande sarei tornato lì per fargli conoscere la donna che avrei deciso di sposare.

    E così feci.

    Due estati fa proposi a Natascia di trascorrere le vacanze in Alsazia, e lei non se lo fece ripetere due volte.

    Fu proprio lei a procurarsi le guide turistiche riguardanti i borghi caratteristici lungo della Route du Vin tra Strasburgo e Colmar. E poi Francia vuol dire Parigi, e in un modo o nell'altro si sarebbe potuto fare un salto sulla Torre Eiffel.

    È stata la vacanza più bella della mia vita.

    Arrivammo a bordo della mia piccola Fiat Uno bordeaux in una splendida giornata di sole, scortati oltre il Reno dalla nuova Peugeot di mio zio, che era venuto assieme a Juliette  a prenderci alla frontiera con la Germania.

    Io ero incantato. Tornavo là dopo vent'anni, e rivedevo gli stessi luminosi paesaggi estivi alsaziani, fatti di campi di granturco e colline a perdita d'occhio sotto un cielo azzurrissimo.

    A Natascia non potevo dire quanto avessi desiderato portare là la mia donna più importante. Non poteva immaginare quanto quel desiderio affondasse le radici nella voglia che avevo di creare un ponte tra ciò da cui ero venuto e ciò verso cui andavo.

    Lei non poteva capire, ma mio zio forse qualcosa intuì.

    Per dormire ci diede una stanza da letto con ad una parete la fotografia dei miei nonni, unica cosa che aveva voluto per sé quando si trattò di spartire coi fratelli le loro poche cose.

    Mia zia in quei giorni si sentì male, ma volle accompagnarci ugualmente in giro per tutta l'Alsazia. Forse già avvertiva la fine vicina, ma voleva che la mia giovane fidanzata non se ne avvedesse, e allo stesso tempo che aprisse gli occhi alla bellezza e al godimento della vita. La trattò come una regina, cosa che più di una volta imbarazzò la stessa Natascia. Mettendosi a suo servizio, sottilmente la più anziana stava passando all’altra le consegne, da donna a donna. Forse, nel vederla così giovane e bella, ricordava l'amore che aveva dato ai suoi compagni e ai suoi figli in una specie di saldatura tra la vita e la morte, quella stessa morte che gli aveva rapito il primo marito e l'ultimo figlio, Claude, morto in un incidente stradale come il padre, e guardandola seduta alla sua tavola o mentre le dava gli asciugamani puliti forse era come se stesse abdicando alla sua femminilità, perché sempre l'amore e la vita sono un dono e un passaggio di consegne.

    Mio zio non ha mai avuto altri figli da lei, forse ormai un po' troppo malandata e in là con gli anni, eppure le case e i borghi lungo la Route du Vin quell’estate erano colmi di fiori dappertutto, e io mentre la percorrevo dentro di me sentivo che l'amore per la vita è un gesto sempre ripetibile, e speravo che anche Natascia serbasse quel sentimento per sempre. 

    Andammo poi anche a Parigi, naturalmente, e sopra la Torre Eiffel; ma io, soprattutto, mi ricorderò di quella gita fino a Strasburgo e ritorno.

    Ora, a due anni di distanza, mi sembra che sia stato tutto quello che potessi avere.

    Natascia non è più con me, zia Juliette è morta, mio zio spera di rivedere un giorno o l'altro almeno suo figlio Frederich, e chissà se mai io riuscirò a tornare sulla Route du Vin.

    La strada per Carleveri

    1 Gennaio 1998

    Enzo non lo ricorda, ma quando diciannove o venti anni fa lo conobbi fu lui ad avvicinarmi per primo. Eravamo durante l'intervallo delle lezioni al nostro primo anno di liceo. L'aula era vuota, io guardavo fuori dalla finestra, e lui mi chiese se volevo essere suo amico.

    Era arrivato da pochi giorni, ad anno scolastico appena iniziato, annunciato all'improvviso da una breve presentazione di una delle professoresse: «Oggi verrà un ragazzo di Torino. Accoglietelo bene».

    Già alle medie inferiori avevo avuto un compagno di quella città. Era stato da noi solo un anno, poi suo padre fu di nuovo trasferito. Si chiamava Pasquale, e di lui ricordo soprattutto tre cose: aveva la pelle più bianca della mia, sorrideva sempre ed era un fenomeno in matematica. Trascorrevo molti pomeriggi con lui, e non abbiamo mai litigato una sola volta.

    Non l'ho mai più visto, ma so che non si è laureato e che fa l'impiegato da qualche parte su al Nord, e fu forse grazie a lui che Enzo mi fu subito simpatico.

    Nessuno di noi due allora sapeva cosa sarebbe venuto fuori dalla nostra amicizia.

    Molti anni più tardi, in una delle sue rade lettere – a differenza di me Enzo non ha mai amato molto scrivere – mi paragonò al ramo di un albero che era cresciuto. Altri rami erano stati tagliati o si erano seccati, mentre io no.

    Da dove arrivasse la linfa che ci ha nutrito è difficile dirlo. Da molte radici comuni, probabilmente, nonostante le nostre differenze di estrazione.

    Suo padre era stato appena promosso dirigente in Fiat e venne mandato per un incarico allo stabilimento di Cassino. Prese alloggio in un appartamento mansardato a Gianola, da cui si vedeva tutto il Golfo di Gaeta.

    Quanti tramonti ho visto, da quella casa.

    Il liceo scientifico più vicino era quello del mio paese. Era un convento di frati affittato per metà allo Stato. Dalle sue finestre si vedeva la spiaggia.

    Enzo arrivava la mattina con un autobus insieme agli altri compagni di Formia, mentre io arrivavo in motorino o a piedi, prendendo qualche passaggio al volo. Non ricordo chi fosse stato il suo primissimo compagno di banco, ma fu tra quel gruppetto di Formia che fece le sue prime amicizie. Marco in primis, detto Rampagos, che con la sua vitalità e faciloneria di napoletano lo costrinse ad un confronto a viso aperto fuori dagli schemi con cui aveva vissuto fino ad allora. Così come il sempre gioviale Massimo Vittori, figlio dell'allenatore degli anni d'oro di Mennea; o anche Alberto, detto Lupo, sardo purosangue indimenticabile soprattutto per me, per il male che ci siamo fatti a vicenda.

    Quegli anni da adolescente trascorsi a contatto stretto con gente così promiscua sono sicuro siano stati tra i suoi più 'umanamente' proficui -se mi è concesso il termine. L'orizzonte che dovette vedere in quel piccolo liceo benedettino credo sia stato l'equivalente di quello, coronato di montagne innevate, che ho veduto io a trent'anni quando sono arrivato in Piemonte.

    Poi, in terzo liceo, successe qualcosa che cambiò il corso delle cose.

    Il mio motto di allora era «versus Life and Love», indicato sulle copertine dei miei quaderni con una freccia che indicava una piccola L chiusa in un cerchietto. Sono stato sempre uno stupido – e stupìto – sentimentale. Il mare luccicante della vita mi attraeva, senza sapere ancora che gli uomini invece crescono col dolore addosso.

    La prima a farmelo capire fu Margherita.

    Mi innamorai di lei in maniera totale. Un amore a cui non ero preparato. Mentre camminavo sicuro di me sulla strada maestra che portava alla conoscenza del mondo, mi imbattei in questa misteriosa ragazza dagli occhi tristi con mille riccioli in testa che adorava i giubbetti di pelle nera.

    Lei era estranea ai miei ludici sensi verso la Vita e l'Amore.

    Mi confessò di essere omosessuale una sera che non dimenticherò mai, dopo aver girato a piedi tutta Gaeta. Per lei, mi disse, la vita era solo pericolo e solitudine. 

    Ma forse mi sbaglio. Forse non fu lei a dirmelo, quanto io ad avvertirlo.

    Sono ora così lontano da lei che posso finalmente guardarmi e giudicare l'impeto di ciò che rappresentò Marghy per me.

    Improvvisamente, la mia visione candida e innocente del destino degli uomini cambiò. Scoprii di colpo la sofferenza altrui, l'inferno in cui a volte quelli vicino a noi si dibattono in silenzio. Imparai che esiste la solitudine di chi – per mille motivi – vede gli altri diversi da se stesso dopo aver visto se stesso diverso dagli altri.

    Ad un tratto, a metà della mia adolescenza, mi incupii. Assolutizzai fino all'estremo quella scoperta, vivendola nella mia mente, più che sulla mia vera pelle, e investii il povero Enzo con le mie elucubrazioni nero pece sul senso di tutte le cose.

    Ogni giorno, per un anno o due, prendevo il mio motorino rosso fuoco e correvo a casa sua dove discutevamo dei massimi sistemi, di Dio e di chissà più che altro. E lui, paziente, ascoltava.

    Nessuno di noi due ha mai avuto bisogno di sudare granché per conquistare un sette un otto o un nove, e avevamo sempre tutto il tempo per fare quello che ci pareva. Quello che ci rimaneva dopo lo studio lo usavamo io a scrivere racconti incomprensibili e lui a giocare a tennis con qualcuno dei suoi compagni di Formia o a studiare inglese alla British School.

    Di Margherita non ne ho saputo quasi più nulla. Vive a Roma, credo. L'ho rincontrata una sola volta, subito dopo il liceo, dopodiché ha tagliato tutti i ponti dietro di sé.

    Marghy per me è stata un contraltare, un angelo nero venuto a segnare la mia vulnerabilità. Quella vulnerabilità che forse stupì Enzo nel momento più alto della nostra amicizia nascente. E in qualche modo, credo di essere stato anch'io a mia volta un contraltare per lui, intelligente e sensibile quanto me, ma più forte e sicuro. L'avermi conosciuto lo ha in qualche modo marchiato, ne sono convinto, e l'avermi visto piangere un giorno davanti al tramonto che si vedeva da casa sua deve aver risuonato come un batacchio nella campana di bronzo puro che è la sua amabilità. 

    Quante volte, da quel giorno, mi ha sorretto. E se sono ora qui a scrivere queste cose con una certa coscienza di quello che sono, in gran parte lo devo a lui. Il mio conto materiale e spirituale con lui sarà difficile da estinguere.

    Poi, al quinto liceo, il padre fu chiamato alla Mirafiori, ed Enzo finì il liceo a Rivoli, più o meno da dove era venuto.

    Appena all'università cominciò a frequentare il laboratorio di ricerca del professor Comoglio. Il suo entourage lavorava giorno e notte in una soffitta all'ultimo piano di uno strano edificio in corso Massimo D'Azeglio. Strano, perché da esso svetta una specie di minareto.

    Il curioso è che solo l'anno scorso, leggendo i racconti del 'Sistema Periodico', ho scoperto che quell' edificio è lo stesso in cui Primo Levi studiava da chimico poco prima che attorno a lui si chiudessero le maglie delle leggi razziali nazifasciste.

    Mi fa un certo effetto sapere ora che Enzo ha lavorato proprio lì, e quando vi passo davanti con la mia macchina provo una specie di profondo rispetto per la storia di questa città. E d'altronde, la mia ammirazione nei confronti di quello che Enzo ha saputo diventare con gli anni nasce proprio da questa coscienza silenziosa, che lui ha mantenuto nel suo codice genetico.

    Mentre io, da una parte, prendevo il treno alle cinque di mattina per andare a Napoli a studiare medicina chiedendomi dove quei binari umidi un giorno mi avrebbero portato, lui dall'altra proseguiva senza vanterie la strada tracciata da altri prima di lui, costruita duramente, giorno dopo giorno, dalla convinzione tutta piemontese che ognuno deve portare il suo peso da solo se vuole giovare a se stesso e alla società.

    Ogni volta che andavo a trovarlo a Torino lui confermava ai miei occhi la sua lenta ma inarrestabile scalata verso le sue alte mete, desiderate e perseguite con caparbietà, mentre io, che continuavo tra un esame e l'altro a scrivere cose per lo più inutili, mi sentivo ogni volta un po' più deluso di me stesso. Tornavo a Scauri, al mio paese dalla luce mutevole al vento, al mio orizzonte sul mare color dell'indaco, e continuavo a chiedermi quali fossero in realtà i miei talenti. 

    Ora il laboratorio di biologia molecolare dove lavora Enzo ha traslocato altrove, al moderno centro per la lotta ai tumori di Candiolo, dalle parti della palazzina di caccia dei Savoia a Stupinigi, e se lui mi parlasse di cosa sperimenta là dentro farei fatica a stargli dietro.

    Lo

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