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Le azioni della pazienza: Impegnare, esplorare, osare
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E-book446 pagine6 ore

Le azioni della pazienza: Impegnare, esplorare, osare

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Info su questo ebook

Il richiamo all’idea di pazienza è comune e frequente nell’esperienza umana: bambini, adulti e professionisti ne intuiscono la presenza poiché ne fanno esperienza. Se ne parla con tale frequenza che si ritiene di conoscerne il significato e il senso. In realtà il significato della pazienza spesso viene frainteso e confuso con dimensioni quali la sopportazione, la disponibilità, la meticolosità, la costanza, la perseveranza. Ne segue una nebulosità semantica in ragione della quale la questione della pazienza deve essere ricostruita nella sua necessaria implicazione con il discorso pedagogico chiarendone l’intenzionalità e le possibili declinazioni. 
LinguaItaliano
Data di uscita3 apr 2020
ISBN9788838249341
Le azioni della pazienza: Impegnare, esplorare, osare

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    Anteprima del libro

    Le azioni della pazienza - Emanuela Guarcello

    Emanuela Guarcello

    LE AZIONI DELLA PAZIENZA

    Impegnare, esplorare, osare

    Tutti i volumi pubblicati nelle collane dell’editrice Studium Cultura ed Universale sono sottoposti a doppio referaggio cieco. La documentazione resta agli atti. Per consulenze specifiche, ci si avvale anche di professori esterni al Comitato scientifico, consultabile all’indirizzo web http://www.edizionistudium.it/content/comitato-scientifico-0.

    Copyright © 2019 by Edizioni Studium - Roma

    ISSN della collana Cultura 2612-2774

    ISBN 978-88-382- 4934-1

    www.edizionistudium.it

    ISBN: 9788838249341

    Questo libro è stato realizzato con StreetLib Write

    http://write.streetlib.com

    Indice dei contenuti

    INTRODUZIONE

    I. IMPEGNARE

    1.1. Capacità di stare

    1.2. Orientamento del ponderare

    1.3. Generazione dell’aspirazione

    II. ESPLORARE

    2.1. Capacità di scoprire

    2.2. Orientamento del porre in questione

    2.3. Generazione dell’auto-determinazione

    III. OSARE

    3.1. Capacità di competere

    3.2. Orientamento del provare

    3.3. Generazione del talento

    CONCLUSIONE

    BIBLIOGRAFIA

    INDICE DEI NOMI

    CULTURA STUDIUM

    CULTURA

    Studium

    174.

    Scienze dell’educazione, pedagogia

    e storia della pedagogia

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    Per uno sguardo

    che promuove risvegli, accompagna reinvenzioni,

    sollecita cambiamenti, impegnati, onesti, arditi

    INTRODUZIONE

    Pazienza, una questione pedagogica

    Il richiamo all’idea di pazienza è comune e frequente nell’esperienza umana: bambini, adulti e professionisti ne intuiscono la presenza poiché ne fanno esperienza. Se ne parla con tale frequenza che si ritiene di conoscerne il significato e il senso. In realtà il significato della pazienza spesso viene frainteso e confuso con dimensioni quali la sopportazione, la disponibilità, la meticolosità, la costanza, la perseveranza. Sono dimensioni che ricorrono entro la costellazione semantica della pazienza, ma non ne sono sinonimi e non ne esauriscono il significato.

    Questa nebulosità può generare un’ambiguità che altera il significato della pazienza e ne compromette il valore. La direzione stessa della pazienza rischia di perdere la propria chiarezza e diviene difficile comprendere il senso che la pazienza può fondatamente assumere nell’esistenza dell’uomo.

    La nebulosità del concetto di pazienza, quindi la sua possibile ambiguità, pone una questione non solo semantica ma anche e soprattutto pedagogica. Il discorso pedagogico è da sempre compromesso con la dimensione della pazienza, in relazione alla scena dell’educare e in relazione al carattere umano dell’educabilità.

    La pazienza è compromessa con l’ educare poiché è parte attiva entro la scena educativa. La pazienza infatti accompagna e sostiene la relazione con la persona orientandone progettualmente la direzione nel rispetto dei tempi di volta in volta necessari affinché l’uomo possa generare il proprio cambiamento.

    La pazienza è compromessa con l’ educabilità poiché è essa stessa parte coinvolta entro un processo di ulteriore definizione. La pazienza infatti non è manifestazione di un istinto o di una dote innata, ma è capacità sempre e ancora in divenire e da perfezionare, educabile sia in relazione al professionista e alla sua competenza pedagogica sia in relazione alla persona e alla sua competenza esistenziale.

    Così compromessa con l’educare e con l’educabilità, la pazienza rischia di prendere parte alla scena educativa portandovi la propria nebulosità. Se nebulosa, la pazienza può essere richiamata, promossa o testimoniata con intenzioni e modalità confuse, contraddittorie, a volte anche lesive per sé e per gli altri.

    La pazienza è infatti spesso rimbalzata e strumentalizzata entro le polarità della celebrazione e del biasimo. Secondo la polarità della celebrazione, la pazienza si manifesterebbe attraverso modalità e in direzione di fini sempre e comunque costruttivi, rimuovendo o negando i rischi di una sopportazione per imposizione, per servilismo o per autocompiacimento. Secondo la polarità del biasimo, la pazienza sarebbe espressione di una mancata prontezza, di una resistenza o di una incapacità di aggredire il reale, di una difficoltà nella gestione immediata di fatti e situazioni. La pazienza quindi sarebbe sinonimo, sgradito, di un eccesso (improduttivo) di lentezza, di esitazione, di debolezza [1] .

    Nel rimbalzare tra queste due polarità, anche in modo strumentale, la pazienza rischia di compromettersi con l’educare non costituendone una promessa per il cambiamento quando piuttosto contaminandolo con significati e direzioni di senso incoerenti con l’educare stesso.

    In ragione delle problematicità emerse, la questione della pazienza deve essere ricostruita nella sua necessaria implicazione con il discorso pedagogico chiarendone l’intenzionalità e le possibili declinazioni. Occorre quindi lavorare a una possibile definizione della pazienza che permetta di chiarire quali sono i confini che la delimitano e le specifiche azioni che la riconoscono all’interno dell’agire dell’uomo e, in particolare, dell’agire educativo.

    L’esercizio di ricostruzione che permetterà questa definizione sarà, anch’esso, esercizio di pazienza che procederà scandagliando i possibili aspetti del concetto, percorrendolo a partire dai caratteri maggiormente evidenti, più visibili, fino ad arrivare progressivamente nelle zone più interne, meno superficiali. La pazienza è infatti «cosa» apparentemente «modesta», piccola, non appariscente. Essa è così profondamente parte della vita umana da ritenerla ormai del tutto nota, codificata, scontata. L’esercizio di ricostruzione dovrà quindi andare-a-fondo per capire e andare-intorno per indagare ogni spazio di questa pazienza che, sebbene così comune e ricorrente nell’esistenza umana, potrebbe forse manifestare la sua «magia» e sorprenderci.

    Se si può ancora ottenere qualcosa con la magia – in un’epoca in cui l’unico vantaggio è il venir meno di tutto ciò che è magico – allora si dovrebbe sicuramente iniziare con le cose più piccole e apparentemente più modeste, con le piccole cose e con le parole meno appariscenti [2] .

    L’esercizio di paziente ricostruzione permetterà una possibile definizione di pazienza a partire dalle sue azioni. Le azioni della pazienza non sono pensate né in una logica di successione (da una prima azione che inizia a un’ultima azione che finisce) né in una logica di alternanza (o un’azione o un’altra) o di concomitanza (azioni in atto separatamente e parallelamente).

    Le azioni della pazienza sono piuttosto pensate in una logica di compenetrazione secondo la quale le azioni partecipano l’una dell’altra ponendosi in un particolare rapporto reciproco definibile attraverso il concetto di matrioška, pensato nei termini con cui lo utilizza Chiara, la protagonista del romanzo di Cristina Comencini, impegnata a scrivere la biografia di Antonia, una scultrice. Nel descrivere il file nel quale è contenuta la biografia, così afferma: «l’ho chiamato Matrioška, perché mi pare che Antonia assomigli a una bambola russa che ne contiene altre più piccole, tutte con i pomelli rossi e gli occhi bistrati» [3] .

    Le parole di Chiara pongono in evidenza il carattere tipico della matrioška: il suo essere un’unità in sé compiuta che contiene al suo interno ulteriori dimensioni che non sono estranee l’una dall’altra ma che, al contrario, si completano vicendevolmente.

    L’immagine della matrioška rende manifesta non solo la logica di compenetrazione sottesa alla relazione tra le azioni della pazienza ma anche il carattere di fecondità che segna il rapporto tra le azioni stesse. L’idea di matrioška richiama lo spazio fertile di un ventre generativo che, andando sempre più all’interno, custodisce un seme (la forma più piccola). Il seme è il nucleo più profondo della matrioška stessa, la sua natura più intima, raggiungibile e conoscibile solo introducendosi entro ognuno degli involucri che lo precedono. Il seme è parte costitutiva della forma esterna (non è altro o diverso) ed esiste simultaneamente ad essa. Al contempo il seme è simbolicamente ciò che viene generato entro quel ventre fecondo, un frutto che non avrebbe avuto esistenza se non a partire dalla prima e più esterna forma e, a seguire, da quelle più interne.

    Tuttavia, se da un lato l’immagine della matrioška permette di restituire il rapporto esistente tra le azioni della pazienza, dall’altro non restituisce la specificità di ciascuna azione. Le azioni della pazienza infatti non si distinguono tra loro unicamente per grandezza o per intensità. Le azioni della pazienza si implicano senza confondersi e si generano una dall’altra senza riprodursi.

    Le azioni della pazienza si distinguono tra loro piuttosto nel senso della metamorfosi.

    La metamorfosi del bruco in farfalla ci offre una metafora interessante: quando il bruco entra nel bozzolo, comincia un processo di autodistruzione del suo organismo di bruco, e questo processo è al tempo stesso quello di formazione dell’organismo di farfalla, che a sua volta è lo stesso e altro dal bruco. Questa è la metamorfosi: La metamorfosi della farfalla è preorganizzata. La metamorfosi [dell’umano] [...] è aleatoria, incerta ed è tributaria dei rischi del caos che gli è tuttavia necessario [4] .

    Definire la pazienza a partire dalle sue azioni permette di restituire un’idea di pazienza compromessa con l’educare sotto l’aspetto della singolarità di ogni azione e sotto l’aspetto dell’unitarietà tra le azioni stesse. Sotto l’aspetto della loro singolarità, ogni azione della pazienza è parte attiva entro la scena educativa e determinante rispetto alla promozione del cambiamento dell’uomo. Sotto l’aspetto della loro unitarietà, la sintesi delle azioni (tra loro implicate) è proposta di una pazienza che abbia il carattere dell’educabilità ed è proposta di un’educazione che, consapevolmente, possa fare della pazienza una possibilità concreta di «risvegliare in noi l’antica tenerezza per il mondo» e così «di rendere il mondo di nuovo umano» [5] .

    Una tenerezza e un’umanità di pazienza, una pazienza che si afferma nelle azioni dell’impegnare, dell’esplorare e dell’osare.

    La pazienza e le azioni che la costituiscono e la affermano..


    [1] M. Pianalto, On patience: Reclaming a Foundational Virtue, Lexington Books, London 2016, p. 4.

    [2] H. Arendt (1938), Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, trad. it. S. Maletta, Jaca Book, Milano 2009, p. 50.

    [3] C. Comencini, Matrioška, Feltrinelli, Milano 2002, p. 75.

    [4] E. Morin (2007), Oltre l’abisso, trad. it. B. Spadolini, Armando, Roma 2010, p. 121.

    [5] H. Arendt (1938), Che cos’è la filosofia dell’esistenza?, cit., p. 51.

    I. IMPEGNARE

    Tara è una ragazza che frequenta l’università di Cambridge per un dottorato di ricerca. La sua storia, particolare e difficile, la ostacola e la affatica in un percorso di studio per il quale avrebbe attitudine e interesse.

    Il mio dottorato stava andando a rotoli.

    [...] il professor Runciman [...] non capiva perché non gli mandavo più nulla da quasi un anno, così quando ci incontrammo nel suo ufficio, un nuvoloso pomeriggio di luglio, mi propose di ritirarmi.

    Il dottorato è terribilmente impegnativo, disse.

    [...] Lasciai il suo ufficio piena di rabbia contro me stessa. Andai in biblioteca e presi una dozzina di libri, che trascinai nella mia stanza e appoggiai sulla scrivania. Ma qualsiasi ragionamento mi dava la nausea [...]. Fu un inverno lungo, quell’anno, il grigiore inframmezzato solo dallo strano senso di vuoto [...]. Poi arrivò la primavera, poi l’estate e finalmente, quando l’estate lasciò il posto all’autunno, scoprii che riuscivo di nuovo a concentrami sulla lettura. Riuscivo ad avere dei pensieri oltre alla rabbia e all’autoaccusa. Ripresi in mano il capitolo che avevo scritto quasi due anni prima ad Harvard. Tornai a leggere Hume, Rousseau, Smith, Godwin, Wollstonecraft e Mill. Cominciai la ricerca. Restrinsi il quesito, lo resi accademico, specifico. Mandai la bozza al professor Runciman e alcuni giorni dopo ci incontrammo nel suo ufficio. [...] Alcune parti sono molto buone, disse. Ora stava sorridendo. Mi stupirei se non ti facesse ottenere il dottorato. Mentre tornavo a casa a piedi col pesante manoscritto, ripensai a quella volta che il professor Kerry aveva cominciato la lezione scrivendo alla lavagna: Chi scrive la storia?. Lì per lì mi era sembrata una domanda strana. [...] Adesso, mentre attraversavo il King’s College all’ombra dell’enorme cappella, la mia vecchia diffidenza mi sembrò quasi buffa. Chi scrive la storia? Pensai. La scrivo io [1] .

    La storia di Tara può essere letta come storia di una pazienza che si esprime nell’impegnare.

    Lo stesso professor Runciman fa riferimento alla dimensione dell’impegno quando afferma che «il dottorato è terribilmente impegnativo». Questa affermazione, nel suo asserire, in realtà pone anche implicitamente una domanda: Sei in grado di assumere questo impegno e vuoi farlo?.

    La domanda invita a una sfida e la sfida dà avvio a un percorso. È un percorso impervio, non immediato e incerto nei modi, nei tempi e nei risultati. È un percorso in cui si deve resistere in una situazione segnata da una fatica difficile da gestire. È un percorso anche in parte subìto e patito perché, tendendo verso un traguardo improbabile, richiede lo sforzo di andare oltre il limite delle proprie possibilità percepite. È un percorso in cui il compito da svolgere (la tesi di dottorato) si complica nella contaminazione con altri problemi (questioni familiari) che opprimono e che rendono molto arduo capire come raggiungere un traguardo già di per sé impegnativo.

    Tara non è chiamata solo a un lavoro di meticolosità e di precisione, a una prestazione particolarmente intensa ma definita, a una prova di concentrazione o di resa fisica. Questi sono tutti compiti non facili, ma circoscritti al raggiungimento di un obiettivo secondo un percorso chiaro e definito nello spazio e nel tempo. Una buona disciplina, una competenza personale nello specifico ambito e un alto livello di organizzazione possono essere ingredienti già significativi per ottenere un buon risultato.

    Non che Tara sia priva di queste capacità, ma nella sua situazione non sono ancora sufficienti. La fatica che le si prospetta è così tanto intensa che la patisce nella sua corporeità, sentendo una rabbia e una nausea dalle quali non può evitare di partire. Rabbia e nausea che, assieme ad altri problemi che lei vive in quel periodo, fanno sì che il cominciare l’impegno non sia un inizio lineare e costante, ma un ricominciare raggomitolato in un groviglio tra dubbio e speranza. L’impegno si avvia infatti entro un tratto, non breve, di disorientamento e di dubbio, segnato dalla tentazione di cedere, tanto è grande la fatica.

    Questa fatica si srotola attraverso le stagioni. Inverno, primavera, estate segnano l’impegno di Tara a stare nel dottorato, a non sottrarsi, a rimanere anche a volte stando apparentemente ferma. Non per compiacere il professor Runciman o la famiglia, non per obbligo imposto dall’esterno ma per pensare e comprendere quale sia per lei il senso di quella fatica e come possa portarla avanti in modo sostenibile e con autentica convinzione.

    Ed è così che arriva l’autunno, un autunno di scoperta e di chiarezza. Con esso avviene la nascita di qualcosa che è scaturito dall’impegno, qualcosa di nuovo che non sarebbe esistito fuori da tutta questa gestazione: non a caso un «pesante» manoscritto. Un manoscritto che porta su di sé, nelle sue caratteristiche, la fatica del percorso che l’ha generato. Non è però solo un manoscritto «pesante», ma è anche un manoscritto generativo, che mentre viene al mondo fa rinascere la persona che gli ha dato vita.

    Tara è cambiata in questi mesi di paziente lavoro, ha scritto la Sua storia, ha faticato e sofferto ma ha compreso e si è compresa, è diventata autenticamente se stessa. Mentre ha generato qualcosa di nuovo ha ridefinito la propria identità. E l’ha fatto non solo per una trasformazione personale.

    «Chi scrive la storia?» le aveva domandato il professor Kerry. Lei ora ha compreso: «La scrivo io». Il «lungo» percorso, per molto tempo vuoto di conferme ma pieno di domande, ha generato la risposta. Tara ha dato vita a una sua storia (frutto di esperienza, conoscenza e ragionamento personale) che è anche Storia per altri, una storia che completa il proprio senso nella possibilità di fare dell’impegno un dono per l’umanità.

    La storia di Tara mette così in scena un impegnare che, letto all’interno di una visione pedagogica, si può comporre di tre atti.

    Nel primo atto l’impegnare esprime un legame. L’impegnare lega a stare, a rimanere a lungo prima di andare oltre e non permette di prevedere tempi, modi e risultati. Infatti l’impegnare della pazienza è del tutto estraneo a qualsiasi visione lineare o univoca, che pretende di condurre sé stessi dalla partenza all’arrivo già solo per via della propria presenza assidua nel percorso. Tuttavia, se l’impegnare della pazienza non è espressione di una causalità lineare, è altrettanto vero che non è neanche, parafrasando Giovanni Maria Bertin, un impegnare abbandonato a una casualità ingovernabile [2] . L’impegnare della pazienza deve andare oltre a entrambe le posizioni e lo fa in un secondo atto.

    Nel secondo atto l’impegnare riflette sulla situazione e sullo sforzo che essa comporta. Anche se nato da una costrizione esterna, l’impegnare della pazienza non è un eseguire o un compiacere. È un impegnare critico, poiché riflette sul significato dell’impegno e giudica se ciò che esso richiede è promettente ed è commisurato alle proprie possibilità. In questo modo l’impegnare, se permane, esprime il personale interesse a coinvolgere sé stessi nell’impegno. L’impegnare permette così di esprimere, come sostiene Franco Cambi, le proprie potenzialità e capacità [3] , in un lavoro continuativo e concreto volto a rendere sempre più autentico l’impegno e a orientarlo verso una direzione di senso.

    Nel terzo atto l’impegnare, lentamente e faticosamente, concepisce una nascita. L’impegnare infatti dà vita a un pegno, a una promessa da mantenere. Chi si impegna, facendo ogni sforzo pur senza garanzie di risultato, crea un vincolo di obbligazione con il compito da svolgere. Questo vincolo è il pegno, ossia un patto che si firma tra la situazione o la persona che ha motivato l’impegno e sé stessi. È un dare la propria parola come promessa di impegno (dare in pegno) nell’accezione contraria al dilagante puoi fare questo? oppure ti propongo quell’altro, accompagnati dal fatidico non ti preoccupare, senza impegno.... Questo senza impegno si caratterizza per la volontà di non creare un legame, un’aspettativa, una promessa né da parte di chi propone né da parte dell’interlocutore. Entrambi dichiarano fin da subito la possibilità o fin anche l’intenzione di tirarsi indietro a fronte di condizioni più vantaggiose altrove o se costretti a sforzi non preventivati.

    Pur se in talune circostanze questo è un atteggiamento prudente e valido, l’impegnare della pazienza agisce in direzione contraria: genera sempre un patto tra sé e altri e promette seriamente di tener fede alla parola data. Il promettere rende se stessi debitori nella logica di un obbligo che ci si assume: si è debitori per la propria promessa fatta all’altro e a sé stessi.

    Questa promessa è provata dalla presenza di un simbolo o di un prodotto che possa suggellare l’avvenuto impegno. La promessa è quindi un pegno sia perché è sancita in un patto (promessa dichiarata) sia perché è accertata da una prova (per Tara era il pesante manoscritto) che fa della promessa dichiarata una promessa mantenuta. La prova non deve necessariamente corrispondere a un risultato ottenuto o al pieno soddisfacimento delle aspettative. È la prova del realizzarsi dell’impegno verso il risultato, non del risultato stesso, a volte ancora lontano o difficilmente arrivabile [4] .

    Il pegno dell’impegnare paziente non è un pegno classico perché non sottende la logica del munus antropologico segnato dalla reciprocità dello scambio [5] . L’impegnare della pazienza, nel suo essere pegno, non dona scambiando ma collegando. È infatti un pegno che dona all’altro e al mondo e lo fa, sosterrebbe Antonio Bellingreri, a fondo perduto [6] . Il pegno dona ciò che è nato dall’impegno e per questo non è mai chiuso nelle strette maglie di un interesse solo personale [7] : è sempre una promessa-a, un dono-a, un impegno-per. È un impegno per qualcosa che vale [8] ; è un impegno che è volto «a realizzare sé stessi realizzando gli altri» [9] .

    A partire da questi tre atti, la riflessione sulla pazienza come azione dell’impegnare lavorerà per chiarire attraverso quale capacità l’impegnare si manifesta, come e in quale direzione esso è orientato e che cosa quindi può generarsi grazie a questo percorso di impegno.


    [1] T. Westover (2018), L’educazione, trad. it. S.R. Sperti, Feltrinelli, Milano 2018, pp. 355-60.

    [2] «L’impegno è [...] negazione della certezza e negazione del dubbio, problematicità dell’uno e dell’altro». G.M. Bertin, Etica e pedagogia dell’impegno, Marzorati, Milano 1953, p. 108.

    [3] Viene ripreso da Cambi il concetto dell’«impegno a farsi sé stessi, sviluppando in ciascuno le più proprie capacità e/o potenzialità [...] guardando alla ricchezza di umanità che ciascuno porta iscritta in sé». F. Cambi, Educazione e/o formazione? Tra distinzione, gerarchia e dialettica, in G. Bertagna (a cura di), Educazione e formazione. Sinonimie, analogie e differenze, Studium, Roma 2018, p. 131.

    [4] L’impegno ha sempre a che fare, sotto un certo aspetto, con l’utopia. Nella cornice della riflessione problematicista, l’utopia è da intendersi come tensione, come possibilità di un progetto profondamente sentito e importante rispetto alla propria esistenza. M.G. Contini (a cura di), Tra impegno e utopia. Ricordando Giovanni M. Bertin, CLUEB, Bologna 2005.

    [5] Marcel Mauss avverte «Se la carità, in quanto dono indifferenziato, non prevede un dono di ritorno, anche perché non è indirizzata a un particolare destinatario, è allora davvero disinteressata. Nulla è meno gratuito del dono [...] l’obbligo di restituire è uno degli atti fondamentali del dono». M. Aime, Da Mauss al MAUSS, in Saggio sul dono. Forma e motivo delle società arcaiche, M. Mauss (1924), trad. it. F. Zannino, Einaudi, Torino 2002, p. XVIII. In particolare, il munus è il concetto che esprime questo carattere di non gratuità del dono: «il munus è un dono, ma un dono segnato da un proprio carattere di reciprocità rimasto implicito (in conformità con la sua radice indoeuropea che denota lo scambio)». F. Jullien (2008), L’universale e il comune, trad. it. B. Piccioli Fioroni-A. De Michele, Laterza, Bari 2010, p. 24. R. Esposito, Communitas, Einaudi, Torino 1998.

    [6] «Il donare è» afferma Antonio Bellingreri «esso stesso ragione di sé; porta in sé, non in altro, la ragione che lo fonda. La compiuta giustificazione del dono è pertanto nel dono stesso: nella ricchezza che esso porta a chi è termine del dono. [...] il dono non è per altro». A. Bellingreri, Per una pedagogia dell’empatia, Vita e Pensiero, Milano 2005, p. 222.

    [7] «Il dono è quindi una pratica che avvicina, superando la chiusura autocentrata, individualistica e troppo spesso narcisistica» È «manifestazione di apertura, di fiducia e di prossimità – come espressione della qualità umana delle relazioni». I. Loiodice, Il dono, la cura, l’educazione, in «MeTis. Mondi educativi. Temi, immagini e suggestioni», 8, 1, 2018, p. 21.

    [8] Luisa Santelli Beccegato ritiene che la dimensione valoriale possa rappresentare la vera base di rinnovamento per un’opera educativa adeguata alla complessità del tempo attuale. L. Santelli Beccegato (a cura di), Bisogno di valori: per un rinnovato impegno educativo nella società contemporanea, La Scuola, Brescia 1991, pp. 5-7.

    [9] «La razionalità dell’impegno nella costruzione di rapporti intersoggettivi comporta coraggio, inteso come lucidità e affermazione antiegocentrica del sé e soprattutto disponibilità, sia sul piano intellettuale che su quello affettivo». G.M. Bertin-M.G. Contini, Educazione alla progettualità esistenziale, Armando, Roma 2004, p. 166.

    1.1. Capacità di stare

    1.1.1. Sulla capacità di stare come capacità di resistere

    La pazienza si afferma come azione dell’impegnare, in primis, in quanto si fa testimonianza della capacità di stare nelle «avversità» [1] . La capacità di stare [2] emerge con chiarezza e prende corpo nell’intreccio tra le forme verbali greche che traducono la parola pazienza: ἀνέχω ( anecho), ὑπομένω ( hupomeno), καρτερέω ( kartereo) e μακροθῡμέω ( makrothymeo) [3] .

    La prima, vicina alla dimensione della sopportazione e al suo perdurare, evoca l’espressione comune del portare pazienza, sollevarla, sopportare il peso delle condizioni che ne esigono la presenza. L’ἀνοχή ( anechein) esprime i concetti del «tenere in alto» [4] e del mantenere su di sé che, sebbene interessanti in relazione alla portata e alla forza della sopportazione stessa (non farsi abbattere), possono sottendere un’idea di immobilità. Lo stare implica certo una condizione di stabilità, saldezza, radicamento, ma non necessariamente statica e priva di obiettivi concreti.

    Maggiormente segnato dalla dimensione dell’attesa [5] , l’ὑπομονή ( hupomone) è la capacità di «tenere la posizione», non retrocedere e trattenere l’impeto [6] . È un termine che si impone parallelamente al diffondersi dello stoicismo e richiama le gesta del guerriero greco della falange oplitica, che tiene salda la propria posizione per salvare gli altri, proteggendo con lancia e scudo metà del corpo del compagno. È uno stare che, pur riproponendo la condizione di sopportazione e mantenimento, sottende una spinta alla resistenza attiva, volta a un obiettivo e partecipata dall’impeto, sebbene trattenuto. È uno stare che sa di movimento composto ma internamente irrequieto volto a promuovere una qualche trasformazione.

    Più esplicito ancora sul versante dell’azione, è lo stare proprio delle riflessioni dell’etica ellenica arcaica (dalle origini fino ad Aristotele) che definiscono la pazienza come καρτέρησις ( karteresis). Essa esprime forza, κράτος( kratos), e capacità di dominarsi per agire efficacemente nel momento giusto [7] . È propria di chi «sa insistere, trattenere, rimandare» [8] ed è rappresentata dagli eroi omerici Ettore e Ulisse in relazione alla loro capacità di stare nella battaglia ricorrendo all’attesa e alla difesa per comprendere il momento e il modo più opportuno per sopravanzare rispetto all’avversario. Questa forma di stare implica perseveranza e costanza di agire con precisione nella direzione del bene anche lontano nel tempo. La perseveranza è una spinta all’azione nonostante le indolenze che provengono dall’interno, mentre la costanza riguarda le difficoltà imposte dall’esterno [9] . Tuttavia se questa forma di stare fosse identificata ed esaurita entro i confini della perseveranza e della costanza, perderebbe il suo essere paziente. Costanza e perseveranza, con forme e modalità differenti, intervengono, sosterrebbe Mario Ceruti, in circostanze complicate ma non complesse [10] .

    Le circostanze entro le quali opera la pazienza sono invece complesse poiché implicano, a differenza di quanto accade nella perseveranza e nella costanza, «l’incombere dello scacco e con esso l’ampiezza, il respiro grande e profondo, il coraggio generoso di sopportazione di ciò che è altro, soprattutto di ciò che è enigmaticamente altro, dell’altro che non si spiega» [11] .

    Costanza e perseveranza rappresentano una forma di per-sistenza, un fare e rifare, un avanzamento impervio o uno sforzo difficile ma non improbabile per mantenere l’esistente o per ottenere un risultato non necessariamente trasformativo. Costanza e perseveranza, così come tenacia, persistenza e permanenza, intervengono nello stare ma non esauriscono «l’area semantica della pazienza» [12] , non ne sono sinonimi e non ne rappresentano l’essenza.

    Infatti, lo stare paziente è espresso meglio da due dimensioni che lo costituiscono: la fermezza e la fortezza.

    La fermezza è uno stare che accoglie la difficoltà, il fallimento, l’oscurità con un atteggiamento di salda arrendevolezza, propria di colui che coraggiosamente rimane in vista di trasformare e permane proprio nella fede per l’impermanenza della difficoltà. Tuttavia rimane non in qualsiasi modo e a qualsiasi condizione: sta perché in fondo lo sceglie e fa sua, in modo originale, questa fermezza salda e arrendevole. È una fermezza che, nel fermare lo stare (stabilizzarlo, equilibrarlo), lo firma [13] rendendolo autentica espressione personale che definisce sé stessi nel patire e attraverso esso.

    La fortezza è uno stare che esprime forza, virtù cardinale propria di colui che affronta difficoltà temibili con ardore, non cedendo definitivamente alla paura e alla tentazione di fuga dai pericoli: «La pazienza [...] è il modo della fortezza. [...] Ma nessuno ha il diritto di pretendere la capitolazione dell’altro. [...] Per questo chi è paziente è longanime» [14] .

    La dimensione della longanimità riconduce all’ultima forma linguistica greca che traduce la parola pazienza: μακροθῡμία ( makrothymia). La makrothymia è una qualità attribuita a Dio e da lui manifestata attraverso la capacità di tollerare gli errori degli uomini e di attendere un loro cambiamento nella direzione desiderata [15] . La makrothymia, ossia la lentezza all’ira e letteralmente la lunghezza d’animo, è coinvolta nello stare della pazienza poiché esprime l’intenzione di trattenere l’impeto della rabbia contro l’altro, comprendendolo e in qualche modo accettandolo per quello che è, nell’attesa di una sua trasformazione [16] .

    Così delineata, nell’intreccio tra le dimensioni precedentemente espresse, la capacità di stare della pazienza trova il proprio nucleo nel re-sistere [17] . Dalla radice latina sisto (far stare, fermare), la particella " re conferisce allo stare" anche l’accezione dell’opporre resistenza (resistere) e dell’alzarsi di nuovo, del risorgere.

    Il resistere è quindi la capacità di stare in un rapporto fermo, forte e lungo con ciò che dall’esterno preme. Il resistere pone inoltre in evidenza il movimento che deve compiere la persona paziente per reggere e insieme per contrastare la particolare difficoltà della situazione che sta vivendo. Il resistere è quindi un movimento relazionale con ciò che preme con forza sulla persona (la difficoltà, il problema), a volte la ferisce o la pervade intensamente.

    Resistere infatti non è distanza o impermeabilità rispetto all’esterno, ma è al contrario spazio di contatto: è sempre un resistere-a, che pone la persona in relazione con la difficoltà, ed è anche un resistere-per che coltiva l’impegno verso una direzione. Nulla nella costanza, nella perseveranza, nella tenacia, nella sopportazione evidenzia in maniera inequivocabile la dimensione del resistere nel confronto con ciò che da fuori incombe: l’urto, il peso, lo scontro, lo strappo [18] .

    Il resistere esprime la capacità non solo di reggere ciò che preme ma anche di opporsi, di ribellarsi, di non sottomettersi in modo incondizionato o incosciente a ciò che minaccia la propria o altrui dignità e di creare, sostiene Miguel Benasayag, nuove e più costruttive forme di stare [19] . Infatti la pazienza è votata, da un lato, ad assecondare (lo sforzo, la fatica, la sofferenza) e, dall’altro lato, a opporsi faticosamente e a volte disperatamente [20] .

    Questi due movimenti, tra loro contrari, che traducono il resistere hanno in comune la stessa necessità etica: agire il proprio stare nell’impegno per il valore [21] . All’interno di una cornice teorica che da un lato ha il pensiero di Alasdair MacIntyre e dall’altro ha quello di Paul Ricœur, il valore rappresenta un ideale degno ed eccellente che si pone, nella sua intensità emotiva, come principio di giudizio e di azione. Il valore è infatti espressione di ciò che suscita impegno per la sua irrinunciabilità e universalità e che, nella sua bontà, permette di dare all’esistenza un senso sempre più umano, per sé stessi, per gli altri e per il mondo [22] .

    Lo stare paziente è così un resistere chiaramente non individualistico o distaccato. Al contrario è un resistere che si compromette con l’ esistere, con le sue contraddizioni che ne esprimono la complessità e, a volte, ne celano gli enigmi. Questo esistere è per Ramoso, il protagonista del racconto di Gaetano Mollo, una capacità di stare

    decisamente, anche se lentamente. Era questo il modo in cui si sentiva espandere [23] .

    Il resistere si compromette così con un esistere che non sta ai margini o sulla superficie, ma procede lentamente e con difficoltà verso la generazione e rigenerazione di sé.

    1.1.2. Lo spazio della corporeità

    La capacità di stare della pazienza ha uno spazio nel quale si origina e si compie. Al fine di comprenderne la natura è necessario richiamare il significato etimologico della parola pazienza, che riconduce al concetto del patire nelle sue accezioni di subire, soffrire e di provare una passione, un sentimento [24] . È proprio il patire, insito nella pazienza, che fa della corporeità lo spazio dello stare.

    È infatti nella corporeità che il patire è vissuto e sperimentato, che si origina e si compie. Il corpo sente il patire come difficoltà dell’impegno e come passività [25] della sopportazione e il suo sentire fa della pazienza un’ esperienza incarnata [26] . Lo stare paziente ha avvio in questo spazio dove, come suggerisce Emmanuel Levinas, «la corporeità del soggetto è la pena dello sforzo, l’avversità originaria della fatica» [27] .

    Il patire della pazienza, entro lo spazio della corporeità, non è passivo in quanto subalterno, non è un sopportare in modo inerme o rassegnato. Se così fosse la resistenza dello stare non avrebbe ragion d’essere in forma attiva e propositiva. È un patire che si riferisce alla condizione dell’essere sotto (sub-ire) l’influenza di un sentimento. La pazienza accoglie impressioni, sensazioni, sentimenti filtrandoli attraverso un corpo concavo [28] che sappia stare, resistere e patire, volendosi contaminare. Questo subire nella pazienza è quindi accoglienza che non si

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