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Lo specchio magico: Pensieri e parole di un formatore riflessivo
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E-book247 pagine3 ore

Lo specchio magico: Pensieri e parole di un formatore riflessivo

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Info su questo ebook

Una guida innovativa per la crescita professionale del formatore
Per ogni adulto che lavora l’identità professionale è dimensione molto importante per la costruzione di una salda identità personale. Ma questa identità professionale quando può dirsi raggiunta?
Ogni adulto, di tanto in tanto, dovrebbe passare davanti allo “specchio”, esercitare la pratica riflessiva e nel fare questo ripercorrere la propria storia, rinfrescare le proprie competenze e sviluppare capacità di ricezione e di attenzione nei confronti degli altri.
Quante richieste, quante dimensioni da monitorare, certo non si tratta di un processo facile, spesso si tratta di mettere in crisi se stessi, le credenze e le convinzioni che si consideravano vere, imperturbabili.
La ricerca degli autori parte da alcune domanda di senso che non possono abbandonare il professionista della formazione: che senso ha il “fare formazione” e la relazione con l’altro nella crescita e nel percorso formativo del professionista? In che modo i luoghi della formazione possono essere ‘sfruttati’ in positivo per il sé e per l’identità professionale? In che modo il formatore cambia e in che modo la relazione diviene per lui strumento di crescita, sprone verso la maturità?
Il formatore cresce ed apprende nell’azione, cambia e migliora nella stessa pratica formativa, nell’hic et nunc e nella riflessione che compie su di esso.
Parallelamente il formatore può raggiungere la propria maturità professionale solo se, oltre a conoscere se stesso, la definizione di sé, entra in armonia con le definizioni che gli altri creano, le immagini che gli altri riflettono.
Questo arduo, lungo, ma intrigante processo verso la professionalità richiede, da parte del formatore, una costante mediazione tra interno ed esterno.
Interno – esterno di cosa, di chi? Non si può negare che queste due dimensioni assumono nella formazione molteplici significati e dimensioni, anche se in questo lavoro abbiamo gli autori hanno cercato di approfondirne uno in particolare, quello che risulta essere basilare rispetto all’intero processo formativo: interno – esterno del sé.
Martin Buber afferma: ‘colui il quale sa molto sul conto degli altri può essere dotto. Ma chi conosce se stesso è più intelligente’.
È proprio da qui che ha inizio la riflessione condotta dagli autori: la conoscenza di sé è una dimensione necessaria per riuscire a condurre se stessi, gli altri e il contesto al vero cambiamento. Una ricerca appassionata dove cinema e letteratura, filosofia e pratica zen fanno da sfondo alla ricerca di un’identità sempre mutevole e cangiante.
LinguaItaliano
Data di uscita10 set 2013
ISBN9788898473120
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    Anteprima del libro

    Lo specchio magico - Andrea Ceriani

    Presentazione

    La parola che ci interroga sul senso del nostro agire nel mondo, è sempre portatrice di incertezza, di giochi  di luce ed ombra.

    Potremo mai veramente rispondere a questa domanda?

    Il nostro io razionale può essere detentore di questo senso, o deve anch’esso interrogare sentimenti, emozioni, bussare alle porte dell’inconscio, levare lo sguardo al cielo, sperando in benevole aperture?

    La domanda sul senso rimane comunque vitale, creativa e necessaria per la condizione umana e non dovrebbe abbandonare nessuno, non il professionista della formazione.

    E’ una domanda che sta a cuore a tanti esponenti del mondo del pensiero e della cultura: Gregory Bateson nel suo Memorandum, pubblicato in Mente e Natura, si chiedeva come formatori siamo saggi?.

    Per tradizione, il formatore incontra le persone in aula, quindi dentro un luogo istituzionalmente identificato come luogo di apprendimento.

    Le scienze della formazione hanno abbandonato i vecchi paradigmi dell’apprendimento, metaforicamente raffigurato come un processo di travaso da un contenitore pieno ad un contenitore vuoto o semivuoto, per arrivare attraverso le teorie delle neuroscienze e della fisica, alla rappresentazione dell’apprendimento come complessa alchimia relazionale.

    L’apprendimento dei contesti di vita è cosa che deve essere discussa non come fatto interno, ma come questione di relazione fra creature.

    Vorrei soffermarmi sulle riflessioni che gli autori ci offrono proprio sulle relazione del formatore con le persone che incontra in aula.

    La consapevolezza della parzialità del proprio punto di vista come antidoto psicologico alla tentazione del potere manipolativo sull’altro.

    La coscienza che tale parzialità è un richiamo alla responsabilità e non al relativismo.

    I sentieri che il formatore deve percorrere nella conoscenza di sé e nel rapporto che instaura con l’altro, mentre lavora, si fanno impervi…è meglio non essere soli, stare in dialogo interiormente, ma anche con altri concreti…

    L’Istituto di formazione per il quale lavoro, propone corsi di formazione formatori, nei quali il tentativo è proprio quello di aprire uno scambio sulla propria professionalità.

    Sono percorsi in cui i formatori riflettono su due ambiti.

    Quello degli strumenti che le metodologie e tecniche didattiche mettono a disposizione per una efficace comunicazione. E’ l’area del controllo, del pensiero manipolativo e lineare di cui parlava Heidegger. La cassetta degli attrezzi.

    C’è poi quello della relazione con l’altro. Alcuni autori – con espressione efficace e suggestiva – parlano dei rischi della relazione.

    Si scopre in maniera sempre nuova come l’intelligenza razionale sia indispensabile, tuttavia insufficiente e come sia necessaria qualla forma di intelligenza che Pascal chiamava spirito di finezza, oggi ribattezzata come intelligenza emotiva.

    Mi ha sempre dato meraviglia cogliere come possa cambiare il clima d’aula. All’inizio si percepisce un certo freddo, una distanza talvolta diffidente, talvolta giudicante in cui sembrano risuonare le parole vediamo che cosa hai da dirmi e da darmi che io già non conosco..puoi conquistarmi…puoi cambiarmi?

    Sembra agire un processo in cui l’apprendimento è vissuto come un prendere qualcosa da qualcuno, un po’ passivamente.

    Poi accade qualcosa….l’ascolto diviene più attivo…i volti più aperti…

    L’energia in campo non sembra più essere solo quella del formatore, appartiene a tutti, c’è un gruppo e si coglie che il processo è divenuto uno scambio.

    Che cosa rende possibile questo eros? Io credo sia la possibilità di scambiare intorno alle proprie esperienze, di dare e ricevere contributi, certo in maniera adeguata e mediata con il contesto, tuttavia autentica e creativa.

    A che condizione ciò è possibile?

    Forse proprio a condizione che chi si occupa di formazione, continui a nutrire la propria anima con i molti saperi che l’umanità contraddittoria e ferita ci mette a disposizione: l’arte, la letteratura, la filosofia, il cinema e tanto altro ancora.

    A condizione che le due intelligenze – quella razionale e quella emotiva – si compenetrino senza che l’una eserciti tirannia sull’altra.

    Alla fine di ogni percorso il formatore ha il cuore abitato da sentimenti diversi ed anche contrastanti:  il senso di svuotamento oppure la ricchezza dello scambio, la sensazione di essere stato svalutato oppure quello di essere stato accolto, di essere stato inutile o buon influenzatore.

    Cuore leggero o cuore pesante.

    Proprio perché la relazione è contemporaneamente il mezzo e il fine del lavoro del formatore, è importante mantenere vivo un atteggiamento creativo verso la propria professione, non sospendere il cammino della conoscenza di sé, impossibile, ma imprescindibile, tentare l’incontro senza temere il conflitto.

    C’è poi l’importante aspetto del rapporto del formatore con le richieste dell’organizzazione. I committenti di formazione chiedono interventi che supportino il conseguimento degli obiettivi dell’azienda o dell’istituzione, confidano nella possibilità di generare cambiamenti di cultura o di atteggiamento e – talvolta – investono la formazione di aspettative non realistiche.

    Siamo nel terreno del delicato rapporto del formatore con i limiti della sua azione. Nel terreno del delicato rapporto del formatore con le sue possibilità di influenzamento, dell’altro e del gruppo nel suo complesso.

    Della frustrazione che può generarsi in una professione in cui la visibilità dei risultati non è immediata o non è a breve termine.

    Di nuovo la conoscenza di sé e la coscienza dei limiti della propria azione è fondamentale. Fondamentale per agire uno stile di relazione che trae la sua credibilità dalla capacità di testimoniare alcuni valori, di renderli esperienziali: collaborazione, generosità nello scambio, capacità di riconoscere l’altro sono alcuni.

    Valori di natura etica di cui le organizzazioni hanno bisogno per identificarsi e progredire, per poter sviluppare prassi orientate al servizio e alla cura del prodotto.

    Anche su questo aspetto gli autori fanno un lavoro importante nel dare stimoli creativi all’identità del formatore, cogliendone limiti e contraddizioni, ma anche spazi valoriali e di crescita.

    Paolo Pinna *

    * Dirigente Éupolis Lombardia - Istituto superiore per la ricerca, la statistica e la formazione di Regione Lombardia. Membro del Consiglio Nazionale A.I.F.

    Introduzione

    Venga adunque il cortegiano a far musica come a cosa per passare tempo e quasi sforzato, e non in presenza di gente ignobile, né di gran moltitudine; e benché sappia ed intenda ciò che fa, in questo ancor voglio che dissimuli il studio e la fatica che è necessaria in tutte le cose che si hanno a far bene, e mostri estimar poco in sé stesso questa condizione, ma, col farla eccellentemente, la faccia estimar assai dagli altri.

    Baldesar Castiglione, Il libro del corteggiano, Sansoni, Firenze, 197, II, 12 

    Si fa spesso fatica a ripercorrere i momenti, gli aspetti che portano il professionista ad essere degno di questo appellativo, le condizioni che nell’intimo, creano e definiscono una certa maturità professionale.

    Per l’adulto, per il lavoratore, l’identità professionale è dimensione molto importante per la costruzione di una salda identità personale, ma questa identità professionale quando può dirsi raggiunta?

    Ogni adulto, ogni lavoratore dovrebbe di tanto in tanto passare davanti allo specchio, esercitare la pratica riflessiva, e nel fare questo, ripercorrere la propria storia, rinfrescare le proprie competenze e sviluppare capacità di ricezione e di attenzione nei confronti degli altri.

    Quante richieste, quante dimensioni da monitorare, certo non si tratta di un processo facile, spesso si tratta di mettere in crisi se stessi, le credenze e le convinzioni che si consideravano vere, imperturbabili.

    Il lavoro che ci siamo proposti di sviluppare parte da una domanda di senso che non può abbandonare il professionista della formazione: che senso ha l’aula*, la relazione con l’altro, nella crescita e nel percorso formativo del professionista, in che modo l’aula può essere ‘sfruttata’ in positivo per il sé e per l’identità professionale?

    Ovviamente la risposta non può essere univoca, né tantomeno semplice e lineare in quanto non è in sé semplice e lineare nemmeno la questione in gioco.

    H. von Foerster afferma ‘non c’è passaggio di informazione perché l’informazione non esiste. È nella mia testa e posso sintonizzarmi con un altro, come in una danza, dopo la quale ne so più di prima . Questa danza è un dialogo parlato, scritto o letto con qualcuno. L’informazione è il modo in cui si cambia dopo il coinvolgimento con questo qualcuno’.

    Questa è la dimensione di partenza, mettendo in evidenza alcune dimensioni pratiche in cui il formatore deve impratichirsi tanto dal farle proprie quanto nel trasformarle in autentico atteggiamento.

    In che modo il formatore cambia e in che modo la relazione diviene per lui strumento di crescita, sprone verso la maturità?

    Il formatore cresce ed apprende nell’azione, cambia e migliora nella stessa pratica formativa, nell’hic et nunc e nella riflessione che compie su di esso.

    L’agire diviene cardine di apprendimento, ma non dobbiamo dimenticare le due caratteristiche fondamentali dell’agire per l’esperto della formazione: la competenza e l’appartenenza.

    Nella prima dimensione rientra la tendenza all’autonomia, all’indipendenza e al controllo personale sugli eventi della propria vita, la capacità di conoscersi. L’apprendimento legato a questa componente umana include l’acquisizione di significati, strategie e di competenze. Il senso dell’appartenenza si lega ad un apprendimento inteso come scambio di valori, volto all’acquisizione di strategie e competenze necessarie per l’agire interpersonale e cooperativo. Questo tipo di apprendimento riduce nel soggetto la sensazione di isolamento e procura senso di sicurezza, e se ben sfruttato, diviene momento di ri – conoscenza intesa appunto come ritorno sulla conoscenza di sé. Il comportamento adulto è caratterizzato tanto dall’indipendenza quanto dall’interdipendenza.

    Morin suggerisce una bella metafora (che riprenderemo anche più avanti nel testo): ‘nelle parole crociate si raggiunge la concretezza di ogni parola, sia nell’adeguamento alla sua definizione, sia nella sua congruenza con le parole che comprendono lettere in comune; quindi la concordanza generale che si stabilisce tra tutte le parole costituisce una verifica d’insieme che conferma la legittimità delle diverse parole inscritte’.

    Parallelamente il formatore può raggiungere la propria maturità professionale solo se, oltre a conoscere se stesso, la definizione di sé, entra in armonia con le definizioni che gli altri creano, le immagini che gli altri riflettono.

    Questo arduo, lungo, ma intrigante processo verso la professionalità richiede, da parte del formatore, una costante mediazione tra interno ed esterno.

    Interno – esterno di cosa, di chi? Non si può negare che queste due dimensioni assumono nella formazione molteplici significati e dimensioni, anche se nel nostro lavoro abbiamo cercato di approfondirne uno in particolare, quello che risulta essere basilare rispetto all’intero processo formativo: interno – esterno del sé.

    M. Buber afferma: ‘colui il quale sa molto sul conto degli altri può essere dotto. Ma chi conosce se stesso è più intelligente’. 

    È proprio da qui che ha inizio la nostra riflessione. La conoscenza di sé è una dimensione necessaria per riuscire a condurre se stessi, gli altri e il contesto al vero cambiamento.

    Narciso attraverso questa auto - conoscenza può modificare la propria natura, può trasformarsi.

    Parallelamente questo discorso diviene significativo nel momento in cui ha inizio il confronto con l’esterno da sé. La prima tappa per conoscere gli altri e farci conoscere dagli altri è la conoscenza di sé, è il coraggio di specchiarsi e leggere il riflesso prodotto per quello che veramente è; lo specchio non mente. Questo aspetto diviene reale nel momento della relazione.

    Sono dunque i modi della relazione a determinare, nella pratica effettiva, la tensione tra interno ed esterno del sé.

    Tale indicazione offre la possibilità di due sottolineature d'eccezione.

    La prima è identificabile nel concetto di non neutralità, che inevitabilmente scaturisce dalla svolta indeterminista che nega l’esistenza di dimensioni assolute, immodificabili.

    Il formatore entra nella dinamica di gruppo e compie un’azione formativa che ha delle motivazioni di fondo, che si basa inevitabilmente su principi, criteri e vissuti da cui il formatore non può prescindere.

    Il formatore porta in aula insieme alla propria persona, al proprio carattere e modo d’essere, il proprio punto di vista. Per questo l’azione formativa da lui gestita è inevitabilmente segnata da un particolare taglio teorico – pratico e un particolare modo di interpretare gli avvenimenti.

    A questa prima dimensione, che diventa in realtà un dato di fatto, ne consegue la seconda, definibile come impegno costante e necessità riflessiva da parte del formatore: il principio di responsabilità.

    Il formatore deve essere costantemente consapevole che la sua osservazione parte da un punto di vista soggettivo e quindi arbitrario che può essere condiviso o invalidato da un altro osservatore che esamina il medesimo fenomeno.

    Il formatore, dunque, oltre ad accettare che la comprensione rimanga per definizione parziale e legata al proprio io, deve sviluppare il senso di consapevolezza, ovvero deve riconoscere quali sono le prospettive che egli mette in gioco e sapere che queste prospettive non sono le uniche esistenti, né tantomeno quelle giuste in assoluto.

    Ciò comporta una buona convivenza con lo stato di incertezza e col senso di responsabilità, che si trasforma anche in spinta verso un costante aggiornamento e approfondimento dei temi nei quali è considerato esperto.  Come dice Schopenhauer, ‘la conoscenza dell’uomo è un campo nel quale non si è mai finito di imparare e anche il più esperto può sempre accorgersi di essere incorso in un errore’.

    Dimensione fondante l’intero processo formativo e unica ‘certezza’, è dunque la precarietà, l’incertezza e la mancanza.

    L’unica cosa che non cambierà mai è il cambiamento dice saggiamente Eraclito, che non era certo esperto in processi formativi, ma già aveva capito che quando il formatore si trova nel gruppo l’unica realtà che conta è quella che accade sotto i suoi occhi, e che lui contribuisce a creare.

    L’hic et nunc è unico ed irripetibile, proprio da ciò deriva la sua assoluta importanza, nonché la necessità di acquisire un’elevata sensibilità di lettura e azione nel contingente, contemporaneamente alla capacità di gestire l’ansia che questa dimensione inevitabilmente genera.

    La capacità di fare i conti con questa mancanza, di abitarla, diventa necessaria per il formatore, che riesce ad accettarla solo se nutre vera passione per la  sua professione.

    Morin afferma: ‘non abbiamo ancora incorporato il messaggio di Euripide: attendersi l’inatteso. (…) Il XX secolo ha scoperto la perdita del futuro, cioè la sua imprevedibilità. (…) l’avvenire resta aperto ed imprevedibile. (…) Lo ripetiamo ancora una volta: la conoscenza è una navigazione in un oceano di incertezze attraverso arcipelaghi di certezze’.

    Tutto ciò si traduce, nella pratica, come accettazione dei meccanismi di retroazione, come lettura intelligente ed efficace del feedback, nonché come necessità, per il formatore, di pieno coinvolgimento nel gruppo di lavoro e nel processo formativo stesso.

    Il lavoro vuole toccare vari aspetti teorici e metodologici, approdando ad un’idea formativa che vede il luogo formativo, come un sistema di spazi vitali, in cui tutti i partecipanti, incluso il formatore, si modificano nella relazione interpersonale ed intersoggettiva.

    A tutti coloro che ci leggeranno l’avvertenza che imprecisioni ed errori sono solo da attribuire agli autori.


    * Nel testo useremo il termine aula in un significato molto ampio. Non vogliamo certo affermare che la formazione si svolge solo e soltanto in un’aula con pareti, porte e finestre. La pratica formativa degli ultimi vent’anni ormai ci ha dimostrato che si può fare formazione praticamente ovunque. Con questo termine vogliamo da un lato rendere omaggio ad uno dei luoghi per eccellenza del fare formazione, dall’altro rappresentare tutti i luoghi nei quali si svolge un’azione formativa. Pertanto il significato che viene attribuito al termine aula è da intendersi in senso estensivo piuttosto che restrittivo.

    1. SPECCHI, IMMAGINI, RIFLESSI E MITI

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    M. C. Escher, Specchio magico, 1946, litografia, 23 x 44,5

    1.1. Lo specchio e la specularità

    Lo specchio, come definirlo? Come inserirlo nella trama narrativa e simbolica che riguarda le azioni formative?

    Quante proprietà co–esistono nel concetto di specularità?

    I due dipinti 1 ci suggeriscono l’esistenza di proprietà inconciliabili o, viceversa, suggeriscono due modalità parallele per conoscere se stessi?

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    Lo specchio, oggetto in apparenza banale e conosciuto nasconde suggestioni, studi e idee dello stesso diverse e spesso per noi insolite.

    Cos’è lo specchio? Un oggetto che riflette, è la prima risposta che sorge in modo spontaneo. Ma da dove viene questa sua proprietà? E soprattutto, quali sono le caratteristiche che lo rendono oggetto affascinante ed in bilico tra ordinarietà e straordinarietà?

    "Qualunque sia la sua forma o la sua destinazione, lo specchio è sempre un prodigio dove realtà ed illusione si sfiorano e si confondono. Il suo primo effetto fu di rivelare all’uomo la propria immagine. Rivelazione fisica e morale, che affascinò i filosofi. Socrate e Seneca raccomandavano lo specchio come strumento per conoscere se stessi. Una sola parola esprime la ‘riflessione’ che avviene nel pensiero e nello specchio.

    Immagine di un’immagine, simulacro staccato dal corpo e reso visibile su uno schermo, alter ego, fantasma, ‘doppio’ del soggetto che ne condivide il destino, il riflesso e il suo oggetto sarebbero indissolubilmente uniti da legami mistici, e da sempre la loro assoluta identità è sembrata dipendere da un miracolo che nessun artista è mai riuscito ad eguagliare". 2

    Le proprietà simboliche dello specchio si aprono anche ad alcune riflessioni di carattere semiotico: "lo specchio dà all’uomo la possibilità unica di vedersi, di vedere il proprio volto, i propri occhi, fornendo, al medesimo tempo, il pretesto per un dialogo con se stesso. Da ciò derivano molte importanti potenzialità semiotiche: emerge il tema del doppio, incredibilmente ricco di potenzialità intrinseche; la riflessione come fenomeno fisico si ricollega alla riflessione – azione del pensiero, dell’autocoscienza. Nasce anche l’indagine

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