Storie complicate: La scuola al di là delle riforme
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Le difficoltà di apprendimento, i disturbi nella capacità di lavorare e di avere relazioni con gli altri, i comportamenti distruttivi e autodistruttivi degli allievi “difficili” sono approfonditi attraverso la presentazione dei percorsi di supervisione e di formazione a carattere psicologico, affrontati dai docenti di ogni ordine di scuola, per imparare a pensare e narrare quelle situazioni che appaiono bloccate e senza speranza. Lo scopo è quello di rendere più comprensibili e più utilizzabili nella pratica didattica i contributi teorici e metodologici presenti nel testo.
Fra una realtà sempre più complessa e il susseguirsi di riforme incalzanti, diventano cruciali le capacità di osservazione e di dialogo con l’allievo, con il collega e con il genitore, per costruire una relazione più libera da quei preconcetti e da quelle convinzioni che impediscono talvolta di sentire e pensare.
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Anteprima del libro
Storie complicate - Bartolomea Granieri
Premessa
Questo libro tratta delle relazioni, talvolta assai difficili, che i docenti devono gestire nel lavoro con quei bambini o adolescenti che presentano problemi comportamentali e psicologici spesso così dirompenti e incontenibili da suscitare sconcerto e impotenza negli stessi adulti. Sempre di più, infatti, gli insegnanti chiedono aiuto per entrare in rapporto con quegli allievi che esprimono indifferenza ostinata, aggressività distruttiva o autodistruttiva, oppositività polemica, apatia e passività, tristezza e depressione o, al contrario, eccitata iperattività e forme di onnipotenza. Il disagio e l’aggressività possono esprimersi anche attraverso forme erotizzate di comunicazione – corporea o verbale – che appaiono eccessive o aliene rispetto al contesto scolastico.
Queste problematiche non pregiudicano solo le possibilità di apprendimento e di relazione degli allievi difficili
, ma molto spesso condizionano il gruppo classe e fanno sentire i docenti in difficoltà di insegnamento
. Parallelamente, sembrano ridursi le possibilità di pensiero e di collaborazione con i colleghi e con le altre figure professionali coinvolte. Si intensificano rigidità e preconcetti; pessimismo e dimenticanza rendono le progettualità educative discontinue e talora aleatorie, mentre prevale il bisogno di difendersi dall’incontro autentico con l’altro, incontro vissuto come inutilmente impegnativo ed emotivamente dispendioso.
Il mio intento è quello di individuare e descrivere strumenti e percorsi che permettano agli insegnanti – nelle situazioni che appaiono bloccate e senza speranza – di intravedere impreviste aperture di senso da cui partire per nuovi dialoghi con gli allievi, con i colleghi e con le famiglie. A questo scopo riporterò molte presentazioni di casi¹ e riferimenti alla mia esperienza di psicologa e formatrice per rendere più comprensibili e utilizzabili operativamente suggestioni teoriche e modalità di lavoro.
Desidero, in primo luogo, riflettere con il lettore sui dubbi e le domande che gli insegnanti, molto spesso, formulano e che ho potuto condividere con loro sia in qualità di formatrice all’interno di gruppi di supervisione (tanto pluriprofessionali, quanto formati da soli docenti), sia di relatrice in occasione di convegni, sia di dirigente scolastico. In particolare mi interessa rintracciare il cammino con cui gli adulti ritrovano e condividono la speranza di un nuovo lavoro con l’allievo problematico: speranza e progettualità che nella quotidianità sembravano perse.
L’ambito privilegiato di analisi è la scuola intesa come spazio istituzionale ma anche interistituzionale, poiché la fragilità di taluni allievi o di intere classi richiede che docenti e dirigenti interagiscano non solo con i genitori, ma anche con altre professionalità: educatori, assistenti sociali, neuropsichiatri, psicologi, logopedisti e fisioterapisti.
Nel corso del testo, mi riferirò ad una particolare tipologia di formazione che si è sviluppata attraverso un percorso di supervisione rivolto agli insegnanti di diversi ordini di scuola. Nel gruppo i docenti hanno portato le narrazioni scritte riguardanti proprio quegli allievi che sentivano come ingestibili. Progressivamente, le descrizioni sono diventate meno generiche e distanziate e sono state messe a fuoco le interazioni corporee, i dialoghi verbali e le dinamiche affettive in gioco. Un flusso di eventi e di parole che coinvolge i singoli allievi, il gruppo classe e gli stessi adulti.
La scelta di percorsi pluriennali non è stata casuale, poiché consente ai partecipanti di sviluppare la capacità di osservare e riflettere con sufficiente continuità tanto sui casi problematici quanto su se stessi in relazione ad essi. Durante l’anno scolastico, non sono stati programmati molti incontri (non è necessario strafare), ma il dato saliente è stata proprio la continuità che, di anno in anno, ha consentito di recuperare una durata
in genere messa in pericolo dai tempi, dalle emergenze e dalle vischiosità della realtà scolastica e istituzionale.
D’altro canto, anche nel lavoro con gli allievi, con le famiglie e con gli interlocutori di altre istituzioni sono necessari tempo e costanza per mitigare asprezze e paure e rilanciare la capacità di condividere dubbi, pensieri e decisioni, premessa irrinunciabile per ogni trasformazione. Il fattore antieducativo per eccellenza, peraltro non solo a scuola, è infatti la discontinuità che, nel lungo percorso, insidia la qualità di pensiero degli individui e dei gruppi frammentandoli e bloccandone progettualità importanti o riducendole a puri rituali.
L’esperienza formativa conferma la necessità di spazi condivisi in cui i diversi attori educativi possano pensare insieme – con coraggio e fiducia reciproca – alle emozioni e ai sentimenti vissuti nel lavoro quotidiano. La complessità di alcune situazioni, infatti, rende particolarmente faticoso il confronto fra gli adulti, poiché è difficile evitare che le diverse visioni, che pur colgono aspetti differenti e talvolta addirittura antitetici dell’allievo, producano antagonismo e divisione. Nel gruppo di supervisione si impara che il collega non è sempre un nemico o un giudice, anche quando ha opinioni divergenti; il confronto non deve necessariamente implicare la svalutazione o l’accusa.
Nel libro sottolineo la necessità di formare docenti in situ-azione
, interessati e capaci di comprendere i fatti psichici per il senso che essi hanno
nel contesto delle relazioni, in una particolare classe, all’interno di una scuola collocata in uno specifico territorio. Docenti, quindi, che possano vivere l’incontro con l’altro con sufficiente apertura mentale, senza difendersi eccessivamente con pregiudizi, teorie e parole.
La cornice teorica di riferimento è di matrice psicoanalitica, ma accoglie i contributi più recenti delle neuroscienze e della psicologia cognitiva che confermano come la persona costruisca costantemente il suo funzionamento mentale – cognitivo e affettivo – a partire dalle esperienze relazionali, soprattutto quelle precoci, e come, in massima parte, questa costruzione avvenga attraverso processi psichici inconsapevoli. Le capacità di apprendimento e di consapevolezza sono, anche nella prospettiva cognitivista, funzione delle relazioni interpersonali
. È la storia personale e sociale a influenzare le qualità individuali e le possibilità di cambiamento.
Su questo sfondo, la crescita si configura come frutto dell’interazione e del dialogo con adulti emotivamente partecipi e attenti. Un dialogo di cui spesso non hanno potuto fruire – né a casa, né a scuola – molti degli allievi presentati come problematici, spesso profondamente segnati da ambienti e incontri che non hanno potuto fornire l’attenzione e il sostegno necessari.
Quando i docenti, nel gruppo di supervisione, sono in grado di modulare preconcetti e paure rispetto alla storia di questi allievi, allora emergono esperienze di vita, spesso non percepite o non riconosciute dalle stesse famiglie, oggettivamente difficili quando non insostenibili, impregnate di sentimenti di dolore, di rabbia e di sconcerto. Lutti, continui cambiamenti di situazione, accudimenti superficiali o abbandonici, offese e ingiustizie più o meno lievi, ma comunque reali possono portare il bambino e il futuro adolescente a un funzionamento mentale distruttivo e autodistruttivo. Egli potrà convincersi, ad esempio, che non vale la pena di attendere l’aiuto e la protezione dell’adulto, assumerà un atteggiamento sospettoso e permaloso, sarà pronto a identificare un colpevole di turno, si sentirà spinto talvolta ad aggredire per primo nel timore di essere ferito e vivrà le regole come un rinnovato segnale dell’oppressione autoritaria dell’adulto. Alternativamente tenderà a farsi del male per denunciare il proprio star male, poiché sente che non vi è altro modo per essere visto; o rinuncerà a sviluppare qualunque interesse, poiché troppe volte non ha potuto contare su quella stabilità e su quello sguardo che permettono alle persone e ai loro interessi di crescere.
Come nella vita, anche a scuola si tratta di alimentare e monitorare con sufficiente costanza relazioni di qualità, vale a dire adeguate ad aiutare gli allievi – ma anche gli adulti tutti – a modulare i propri stati d’animo e le proprie condotte. Si conferma una prospettiva relazionale ed educativa fondata sull’osservazione e sull’ascolto radicati nell’immedesimazione con l’altro, quali vie regie per elaborare un pensiero educativo capace di trasformare le emozioni in conoscenza e operatività trasformative.
In ogni ordine di scuola, soprattutto con i bambini e i ragazzi più fragili, una predittività didattica rassegnata e saccente, che oggettivizza e percepisce come immodificabili le caratteristiche dell’allievo e della sua famiglia, può essere superata. È, invece, importante scommettere sulla sensibilità e l’affidabilità emotiva del docente, allenando la disponibilità a lasciarsi transitare dalle emozioni che si sviluppano nell’incontro con l’allievo, la famiglia, il collega, a partire da quello che l’altro dice e fa. Si genera così quella capacità professionale che consente di stare nell’esperienza per permettersi di intravedere un’immagine, un pensiero, un ricordo che diano un significato a quello che sta capitando e suggeriscano un campo di possibile sviluppo.
1 Per i casi riportati sono debitrice ai docenti che hanno partecipato ai miei gruppi di formazione. Naturalmente i nomi e alcuni dati sono stati modificati.
Ringraziamenti
Vorrei ringraziare le numerose persone che hanno contribuito alla realizzazione di questo libro: Franco Borgogno importante figura di riferimento nel mio iter formativo; Antonella Granieri interlocutrice instancabile e senza riserve; Paola Sandrone critica attenta e incorruttibile; Alessandra Pavetto generoso e insostituibile sostegno nell’impegno della rilettura del testo.
Rivolgo un pensiero affettuoso a Giorgio Blandino con cui ho discusso e scritto sulla scuola.²
Un grazie particolare alle mie collaboratrici Giulietta Magro e Silvana Valenzano, a Gianna Piovan e a coloro che mi hanno sostenuto, con affidabilità e competenza, nel lavoro di gestione della scuola, permettendomi di conciliare gli impegni professionali con la stesura del libro.
Infine devo la mia gratitudine profonda a mio marito Jean Paul e a mia figlia Erika che hanno sopportato stoicamente le assenze, le ansie e le fatiche ineludibili nella scrittura.
2 Vedasi Blandino, Granieri (1995, 2002), Raffaello Cortina Editore.
Capitolo 1
Classi difficili
Noi desideriamo [...] produrre trasformazioni,
ma a tratti siamo frettolosi e diffidenti nell’affrontare i risultati
e non valorizziamo a sufficienza il punto da cui ciascuno parte
che può essere molto lontano dalle mete auspicate [...].
quelle che non abbiamo raggiunto noi.
F. Borgogno
Ogni caso deve essere studiato attentamente
perché non vi sono due bambini eguali nel mondo,
anche se vi sono due bambini
che hanno entrambi difficoltà in matematica.
D.W. Winnicott
1.1 Fare differenze, fare preferenze
Il quadro istituzionale dell’autonomia scolastica conferma l’attualità di un insegnamento individualizzato; una scuola autonoma a livello organizzativo e didattico mira, infatti, alla:
realizzazione della flessibilità, della diversificazione dell’efficienza e dell’efficacia del servizio scolastico, all’integrazione e al miglior utilizzo delle risorse e delle strutture, all’introduzione di tecnologie innovative e al coordinamento con il contesto territoriale [...] secondo finalità di ottimizzazione delle risorse umane, finanziarie, tecnologiche, materiali [...] (Art. 21 Legge Bassanini/97, Comma 8).
Questi presupposti sono stati sostanzialmente confermati dagli ultimi ministri dell’Istruzione. Letizia Moratti afferma:
Il nostro impegno ha al centro i bisogni, gli interessi, le aspirazioni degli studenti [...] Diventa prioritario dare ai ragazzi [...] motivazione, sicurezze, serenità [...] pari opportunità di istruzione e accesso alla cultura [...] (Dichiarazioni programmatiche, 2001).
A sua volta il ministro Fioroni ribadisce:
Se c’è un punto su cui non possiamo non trovarci d’accordo è che il nostro compito è quello di educare la persona
. Un essere unico ed irripetibile. Ogni bambino, ogni ragazzo ha la necessità di essere educato, [...] ha bisogno di essere aiutato a scoprire il valore di se stesso, delle cose e della realtà. Questa persona unica ed irripetibile può essere educata a conoscere, accettare, tirar fuori e costruire sé, solo entrando in rapporto con la realtà che la circonda. E la realtà è fatta di persone, di fatti, di eventi, del presente e del passato [...]. Solo se non si rinuncia ad educare istruendo si può mettere veramente a frutto l’unicità e l’irripetibilità di ogni singolo individuo. La nostra scuola deve essere un luogo in cui nelle diversità e nelle differenze si condivide l’unico obiettivo che è la crescita della persona (Intervento Seminario, Cultura, Scuola, Persona
, 3 aprile 2007).
In realtà, i docenti – quando nei gruppi di formazione e supervisione si affrontano le reali problematiche implicate in una didattica individualizzata – esclamano: Ma noi non possiamo fare preferenze, non possiamo trascurare, per alcuni allievi, gli altri
. Realizzare un’offerta formativa diversificata, anche se obiettivo dichiarato di tutti i POF³, è sentito come qualcosa di imbarazzante che può rendere meno equa la gestione della classe.
Paradossalmente, se si parla di insegnamento individualizzato sul piano semplicemente cognitivo e dei contenuti, emerge la preoccupazione di far soffrire o demotivare l’allievo, qualora si scelga di sottolineare una sua differenza, assegnandogli altre attività rispetto ai compagni o escludendolo fisicamente dalla classe – cosa che spesso avviene, quando si porta fuori l’allievo
per permettergli di concentrarsi meglio e di ricevere un sostegno didattico tempestivo. Invece, se si considera la portata emotiva che caratterizza l’insegnamento individualizzato – con le richieste di attenzione e sostegno che esso pone al docente – allora emerge il timore di danneggiare il resto della classe e di fare preferenze
non ripartendo in modo equo la propria attenzione fra tutti gli allievi. Insomma o è il singolo allievo a rischiare di essere dimenticato ed emarginato o il resto della classe.
In realtà, ai fini del lavoro educativo, la contrapposizione fra l’attenzione al gruppo e l’impegno verso il singolo è apparente, poiché il più delle volte, se l’allievo in difficoltà è tenuto nella mente dell’adulto, integrato e non espulso, sperimenterà un maggior agio con ricadute importanti sul suo senso di integrazione nel gruppo classe. A sua volta, il gruppo dei pari potrà fare esperienza di un compagno magari con aspetti difficili ma tollerabili, poiché minori saranno le sue proiezioni di sentimenti aggressivi sul gruppo: le difficoltà dell’allievo trovano un significato e un nome nella mente di un adulto, sono perciò meno inquietanti e comunque condivisibili. Quando può nascere un legame fra docente e allievo sulle difficoltà, nasce una nuova prospettiva educativa: insieme potranno trovare nuove strategie e condotte per affrontare le proprie frustrazioni e l’allievo avvertirà in modo meno dirompente la tendenza a contrapporsi al gruppo o all’adulto. Non basta individuare le difficoltà e narrarle all’allievo, ma è indispensabile creare un legame sufficientemente stabile nel tempo, che gli permetta di non vivere le parole dell’insegnante come predica ripetitiva o umiliante.
Come ci spiega Winnicott, dare attenzione e ascolto al disagio di ciascun individuo rafforza il gruppo, che a sua volta può sostenere il singolo:
Dieci persone, che siano personalmente ben integrate, sovrappongono in una certa misura le loro dieci integrazioni". Ogni individuo integrato nel gruppo contribuisce a consolidare l’unità e la coesione del gruppo [...] (Winnicott, 1984, p. 246).
All’estremo opposto:
Gli individui [...] cominciano, ognuno per proprio conto, a conseguire una integrazione, servendosi [...] della protezione offerta dal gruppo (Winnicott, 1984, pp. 247-248).
In questo senso l’insegnamento individualizzato come attenzione alle differenti potenzialità degli allievi – prima di essere una scelta raffinata di tecniche didattiche – è la presa in carico della dimensione relazionale ed emotiva di un gruppo in cui sono presenti fisiologiche diversità, fisiche e psichiche, in una situazione di valutazione esplicita e implicita.
A tal proposito, vale la pena ricordare che la parola differenza
deriva dal termine latino differentia a sua volta mutuato dal greco diaphorà: dia che significa attraverso
e phero che significa io porto
. Il termine differenza
è ricco di aspetti dinamici ed evolutivi: l’insegnante porta, sostiene l’allievo aiutandolo a transitare, nel campo gruppale, da posizioni di bisogno assoluto
di protezione e contenimento a zone di maggior autonomia e condivisione. Se l’allievo può sentire sia sul piano cognitivo che sul piano emozionale la continuità dell’attenzione del docente, i sensi di inadeguatezza e di dubbio possono meglio incontrarsi con vissuti di speranza e di fiducia verso se stesso e verso l’ambiente. Ciò si riverbererà sul gruppo che, a sua volta, potrà diventare più coeso e integrato.
In questo senso, la gestione del gruppo richiede uno sguardo adulto capace di cogliere il singolo sullo sfondo di un insieme di individui che cresce e di monitorare i vissuti di gelosia che sono sempre in agguato fra membri di un gruppo di pari che lottano per spartirsi l’attenzione dell’adulto. È proprio questo aspetto più conflittuale che preoccupa i docenti quando temono di fare preferenze; preferenza
infatti deriva dal verbo latino praeferre che non solo significa com’è evidente preferire
, ma anche portare avanti
, anteporre
e tradire
. Tuttavia, il problema si pone quando si percepisce l’evoluzione del singolo e del gruppo come una serie di momenti e di luoghi concreti, slegati fra loro, perdendo la possibilità di dare un significato prospettico ed evolutivo a quello che capita in classe. Tutto si appiattisce, come se le difficoltà di simbolizzazione e astrazione degli allievi in difficoltà contagiassero gli insegnanti quando provano a realizzare interventi mirati.
Dal punto di vista istituzionale, una scuola su misura
non è solo possibile, ma, per così dire, prescritta
. Peccato che ancora oggi, nella migliore delle ipotesi, l’insegnamento individualizzato venga visto per lo più come una scelta di tecniche e di strumenti didattici mirata a compensare difficoltà sul piano delle abilità individuali. Si invocano la moderna pedagogia e i più recenti studi di psicologia dello sviluppo per consigliare il sempreverde mastery learning o il polivalente computer, o infine la didattica dei laboratori, che permetterebbero di potenziare capacità di scoperta, comprensione e memorizzazione, l’autogestione di ritmi di apprendimento e di attenzione, nonché l’attivazione di strategie metacognitive.
Nella peggiore delle ipotesi, poi, si considera come prova di uno sguardo individualizzato l’antica nota
sul diario. Così, in sede di scrutinio, quando la preside di una scuola media di I grado chiede ai docenti che propongono di fermare un allievo di seconda quali interventi individualizzati siano stati messi in atto, si sente rispondere: Guardi quante volte abbiamo avvisato la famiglia sul diario!
.
I problemi vengono appiattiti sul piano rassicurante delle strumentazioni, o delegati comunque alla famiglia; modalità che già nel passato si sono rivelate insufficienti, se pensiamo che solo il 40% della popolazione italiana adulta ha un diploma di scuola secondaria.
In realtà, qualsiasi intervento non basta, anzi può risultare pericoloso, oltre che improduttivo, se è utilizzato magicamente per evitare di affrontare più da vicino, senza mediazioni e distanziamenti, l’ansia e l’impotenza che gli insegnanti, i genitori e la stessa società provano di fronte a un congruo numero di allievi che, già nella scuola di base, pur in assenza di disabilità o di patologie organiche o di condizioni di svantaggio socioculturale,⁴ non apprendono.
Sempre di più si evidenzia quello che già una lettura psicoanalitica aveva suggerito: molte difficoltà di apprendimento non sono che la punta dell’iceberg e rimandano a problematiche affettive e relazionali profonde (Blandino, Granieri, 1995). Aspetto questo confermato dalla recente ricerca nella psicologia sperimentale e nella scienza cognitiva (Bucci, 1997), secondo cui le modalità di elaborazione delle informazioni e degli stimoli visivi e verbali si fondano, in realtà, su complessi schemi e calcoli
emozionali e si formano nell’interazione con le persone che si prendono cura del soggetto, fin dal principio della vita. Non solo i processi di percezione e di pensiero presentano aspetti emotivi e intellettivi strettamente intrecciati, ma spesso si producono, in buona misura, al di fuori della coscienza.
Parlare di insegnamento individualizzato vuol dire, quindi, tener presente che il processo di apprendimento è sempre un fatto relazionale e, in quanto tale, commisurato alle personalità dell’allievo, del docente e al campo⁵ relazionale che viene a crearsi fra loro. Questo processo di apprendimento è attraversato da emozioni e vissuti di diverso tipo: amore, curiosità, voglia di esplorare, desiderio di andare verso il nuovo, ma anche confusione, paura di essere inadeguati, sensazione di essere perseguitati dal compito e da chi lo rappresenta, impulsività...
In definitiva non si può prescindere dal considerare quei fattori, per così dire, interni agli allievi e ai docenti. Invece, nel normale lavoro educativo (come in tutte le professioni rivolte a sostenere la crescita e la salute, mentale o fisica, delle persone) il pericolo più diffuso è quello di privilegiare unilateralmente la prospettiva esterna, nel nostro caso quella che potremmo chiamare socio-didatticistica
.
Alla luce di una lettura psicoanalitica, mi riferirò, dunque, non solo a un punto di vista esterno che privilegia le azioni, i trattamenti osservativi e didattici che si compiono sull’allievo, ma piuttosto a una prospettiva dove la competenza pedagogica e didattica si gioca con l’allievo e si radica su una più generale capacità relazionale del docente, formata sia sul piano emotivo sia sul piano cognitivo.
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