L’uomo di poche parole
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Anteprima del libro
L’uomo di poche parole - Pierluigi Quarta
Pierluigi Quarta
L’uomo di poche parole
Copyright© 2020 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via dei Casai, 6 – 38123 Trento
www.edizionidelfaro.it
info@edizionidelfaro.it
Prima edizione digitale: aprile 2020
ISBN 978-88-6537-477-1 (Print)
ISBN 978-88-5512-934-3 (ePub)
ISBN 978-88-5512-935-0 (mobi)
Ogni riferimento a persone, fatti o cose è puramente casuale
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Il libro
Questo libro è formato da tre parti. La prima è il racconto L’uomo di poche parole
. Il protagonista, passato a miglior vita
, si trova in un particolare stato di sospensione che non comprende e si aggrappa ai ricordi della sua peggior vita
prima che svaniscano, come sospetta. Si tratta di un contadino analfabeta nato nel 1899 in un paesino vicino Lecce e morto in un altro paese della stessa zona nel 1974. Avrei dovuto scrivere tutto in dialetto salentino, l’unica lingua a lui nota. Per una migliore leggibilità è stato tradotto
in italiano. Si sono lasciate solo alcune espressioni in lingua originale per il fascino del loro suono. I fatti storici citati sono presi dalle cronache dei tempi nei quali si svolgono le fasi del racconto. Naturalmente sono visti dal protagonista con la luce di cui poteva disporre per illuminarli. Sono veri tutti i detti e le parole del dialetto salentino riportate in corsivo. Sono presi dalla memoria e forse oggi alcuni e alcune non sono più in uso. La seconda parte è composta da trenta racconti brevissimi. In realtà non sono nemmeno racconti. Sono solo delle istantanee senza pellicola di situazioni varie. I racconti possono essere immaginati dal lettore a suo piacimento. Seguono tre gruppi di aforismi. È una suddivisione fittizia. Poteva anche essere tutt’altra o non esserci per niente. Da inguaribile musicista l’autore ha voluto fare un riferimento alla teoria musicale. In musica il concetto di tonalità sottintende una gerarchia tra le note che la compongono. Sono uno che ama ascoltare, sono affascinato dai suoni e poco infastidito dai rumori. Mi sono dedicato per quasi tutto il mio tempo alla musica, e continuerò a farlo finché posso, perché questa tenta di dare delle regole e delle non-regole. I suoni sono la sintesi e io, amando la sintesi, cerco di mettere un po’ di musica in quello che scrivo
.
L’autore
Pierluigi (Piero) Quarta, nato a Roma nel 1955, musicista onnivoro, con un occhio di riguardo al jazz, ha iniziato lo studio del sassofono alla fine degli anni ’70 con Mario Raja e l’arrangiamento jazz con Gerardo Iacoucci e Giancarlo Gazzani. È autore di musiche per spettacoli teatrali, danza, per Big bands di jazz ed altre formazioni. Ha collaborato con la rivista di spettacolo Prove Aperte
nella quale ha curato la rubrica Professione Arrangiatore
. Ha suonato in programmi radiofonici con Sonny Fortune e Harvie Swartz, con la Braxwood Orchestra e con la Maggiolina Jazz Urkestra di Roma, con la quale collabora in veste di sax baritono, compositore e arrangiatore. Ha recentemente inciso un CD di proprie composizioni con il trio Down Time con Roberto Spadoni alla chitarra e Andrea Avena al contrabbasso. Svolge un’intensa attività didattica come insegnante di sassofono, armonia, arrangiamento, teoria e musica d’insieme in varie scuole di Roma e dintorni, attività didattica nell’ambito della quale ha elaborato varie dispense tecniche
e un libro (Mi spronava alla calma
).
"Gli piace parlare di niente
perché è l’unica cosa di cui sa tutto".
Oscar Wilde
L’uomo di poche parole
Istruzioni per l’uso (facoltative)
Questo libro è una raccolta di spezzoni di frasi carpite a un uomo che non ama parlare. È un uomo che ama ascoltare, è affascinato dai suoni e poco infastidito dai rumori. Mi ha chiesto lui di parlarvi di questo suo lavoro. Si è dedicato per quasi tutto il suo tempo alla musica perché questa tenta di dare delle regole al mondo dei suoni e conta di continuare a farlo. Cerca di mettere un po’ di musica anche nei racconti che sono necessariamente corti, data la sua indole. Non ama insistere nelle descrizioni.
Sono quello che conosce meglio di tutti quest’uomo, anche se la sua parte più consistente mi è ancora ignota e non la scoprirò mai.
In merito a questo libro mi ha suggerito di dire a chi lo leggerà di utilizzare una velocità prossima a quella con cui lui lo ha pensato, scritto e riletto. È una velocità prossima a 72 di metronomo (72 battiti al minuto), più vicina alla frequenza cardiaca media a riposo e più veloce di quella che utilizziamo per misurare in secondi il trascorrere del tempo. Lui pensa che dire una cosa del genere sia comprensibile anche da chi non sa niente di musica. Io glielo lascerei credere. Lui dice che in questo modo sarà forse più efficace l’effetto dei contenuti, semmai ve ne fossero, e forse sarebbe percettibile il suono interno delle parole che ha usato.
Per finire vi informo che il libro è scritto per poterlo leggere sia in maniera mordi e fuggi, con morsi dati a caso in modo da incastonare la lettura nei ritagli di tempo, sia in modo tradizionale, dalla prima all’ultima pagina, così da poterselo togliere di torno in breve tempo.
A vostro piacimento potete seguire queste indicazioni, anche solo per curiosità, o ignorarle del tutto. Tanto il tempo no rubato
per leggerle, lui ve lo ha già rubato.
Un altro me stesso.
Dedica
Dedico questi scritti a mio padre e a mia madre, non necessariamente in questo ordine. Semplicemente uno se ne è andato prima e l’altra dopo. Non hanno lasciato un vuoto. Hanno lasciato una mancanza.
Mio padre ha confermato il detto popolare: l’allievo supera il maestro
. Nella sua vita è riuscito a dire meno parole di suo padre, che era taciturno.
Mia madre nella sua vita ha detto tutte le sue parole e anche tutte quelle che non ha detto mio padre.
Li ringrazio perché mi hanno messo al mondo. E ringrazio il mondo perché mi ha tenuto, finora, anche se non sapeva dove mettermi.
I miei genitori erano salentini, come quasi tutti i miei avi. Io sono nato a Roma, dopo un fortuito incontro nella città eterna dei due genitori salentini, trasferitisi in tempi diversi, che non si erano mai incontrati prima. Ho sempre vissuto a Roma, adoro la romanità
. Roma mi ha adottato, come fa con quasi tutti. A Lei non interessa se ci sei nato o se sei di passaggio, magari per tutta la vita. Per Lei tu sei sempre e solo un granello, uguale a tutti gli altri. Un granello di polvere che per un attimo ha la fortuna di non essere spazzato via dal vento e può adagiarvisi sopra.
Pur essendo invaghito di Roma, e lo sarò per sempre perché è insostituibile, sento di essere salentino. Il mio seme è lì. Nel Salento ci vado di rado ormai e ogni volta lo ritrovo uguale a come ce l’ho dentro. Non mi sorprende, mi calma e non mi lascia mai.
Recentemente sono stato anche in Africa, in Zimbabwe. Ho visto lo stesso colore rosso della terra. Volevo farmi inghiottire da quella terra, così familiare. Ma l’Africa è troppo grande per me, non me la merito. Il Salento è più protettivo, sa cullare la mia mente che lì si fa ritrovare.
La cosa che accomuna queste due terre è che bastano poche parole e il giusto rispetto, per farne parte.
L’uomo di poche parole¹
I
Sto qui. Immerso in un fascio di luce che non vedo. Immagino che sia una luce perché ho un ricordo preciso legato a quando il mio corpo ha cessato di vivere. Dal buio degli occhi chiusi il fastidio che avevo in petto si è avvicinato sempre di più, come un treno che transita in stazione senza fermarsi. Il rumore del dolore ha squarciato la federa nera degli occhi chiusi e in un istante la luce giallina si è insinuata nelle ferite del buio, fino a spazzarlo via del tutto.
È una luce fredda, che non acceca. Anche queste sono cose che immagino, che traggo da quell’ultimo punto di contatto, perché non ho più i sensi. Però ho la sensazione di pensare e non so come e perché lo faccio. Articolo pensieri aggrappato a quell’ultimo ricordo, all’abbandono del mio corpo.
Ora capisco perché da vivo si usano parole come spirito
o anima
. Servono ai vivi per descrivere qualcosa che non si conosce, qualcosa non legato alla vita che ci deve pur essere. Per tutta la vita ho sentito dire sempre le stesse cose e sempre allo stesso modo. Sicuramente non sono uno spirito santo. Sono uno spirito comune, credo. Anche il verbo credere
ora mi fa sorridere. Da vivo non ho quasi mai sorriso. Non ero un tipo spiritoso, di compagnia. Non ero scontroso, ero solo un taciturno con una maschera che teneva a distanza le persone. Ero un uomo di poche parole.
I ricordi di quello che fui costretto a vivere da ragazzo mi fecero chiudere in me stesso. Adesso penso sia quello il motivo. Situazioni troppo assurde per i vivi. L’orrore pietrifica, non si ha voglia di raccontarlo. E il carattere delle persone non c’entra.
Quei ricordi ora mi tengono legato con un filo a quello che ero. Non so quanto questo filo sia forte, non so quanto questo stato durerà. Non so cosa ci sarà dopo e nemmeno se ci sarà un dopo. Queste sono tutte cose che nei vivi creano ansia, accelerazioni che bruciano la serenità. Qui, in assenza di sensi, l’ansia non ha senso. Il concetto di durata appartiene alla vita, non alla non-vita. Mi viene di nuovo da sorridere ripensando ora a quante sciocchezze intrappolano i vivi. E mi sorprendo di come mi viene facile sorridere, in questo stato.
Mi ricordo che da vecchio, avrò avuto poco più di sessant’anni, uno dei miei figli portò a casa mia uno scatolone che chiamavano televisione
e dentro si vedevano e si sentivano parlare le persone come al cinema. Dato che per il male alle ossa non potevo più andare in campagna, mi avevano portato qualcosa per passare il tempo. A me sarebbe bastata la radio, che già avevo in casa da qualche tempo, ma quella novità mi stupì favorevolmente, mi fece uscire dal torpore nel quale mi ero abbandonato da quando non potevo più lavorare. Forse per quello me la portarono.
Imparai un sacco di cose nuove, alcune secondo me utili, altre completamente inutili, la maggior parte. Ricordo che tra le cose che mi interessarono particolarmente ci fu una trasmissione in cui spiegavano la Divina Commedia di Dante Alighieri. Chiamavano questo poeta sommo
e imparai che questa parola voleva dire che stava in cima a tutti. Non aveva niente a che vedere con le somme dei numeri che già conoscevo prima di imparare a leggere e scrivere. L’argomento della Divina Commedia parlava di quello che qualche volta diceva il prete la domenica mattina. Il prete diceva le stesse cose sempre allo stesso modo. Tutti i preti che lo hanno preceduto e quelli che lo seguiranno diranno sempre le stesse cose allo stesso modo. Dante seguiva un altro percorso. Ora capisco la