Un amore senza confini. L’addio del branco
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Anteprima del libro
Un amore senza confini. L’addio del branco - Virginio Giovagnoli
INTRODUZIONE
Non c’è fantasia senza un pizzico di realtà. Non c’è realtà senza un minimo di fantasia. La mia avventura per la vita continua. Questo nuovo romanzo, che potrebbe essere il finale di una vita piuttosto agitata ma intensa d’amore, racchiude al suo interno, violenza, passione e ferocia, sogni dolci e incubi. La morte mi segue passo dopo passo per quasi trent’anni, lungo tutto il percorso del tempo in cui i miei tre romanzi si svolgono. Diverse volte sono riuscito a gabbarla, ma sento che sta cercando la sua rivincita. Spero che la forza dell’amore prevalga, perché solo l’amore può vincere la morte.
Il primo libro di questa serie, Io capobranco nel mirino della mafia, lo sintetizzerei così: nel 1986 sono accusato di un efferato delitto commesso dalla mafia; per sfuggire alle forze dell’ordine mi do alla macchia e, dopo un susseguirsi di eventi e concause, divento l’alfa di un branco di lupi. Un sequestro per ritorsione altererà gli eventi, ma…
Nella mia lunga latitanza incontro, in una cascina ristrutturata, una giovane donna di nome Eva, e fra noi due nasce una tenera e dolce storia d’amore, che porterà alla nascita di una figlia di nome Speranza, e a un susseguirsi di fatti imprevedibili.
Nel frattempo la mafia, con la complicità di politici corrotti e personaggi del malaffare, torna a farsi sentire; nasce così una nuova storia dal titolo: Amore dolore incubi o follia -Il nuovo branco-.
Storia che si svilupperà negli stessi ambienti di un tempo, ma, data la mia avanzata età, si farà per me più dura e aspra la lotta per il ritorno alla normalità, e come dice il titolo stesso, sarà piena di dolore. I miei incubi notturni, o anche solo i momenti di riposo diurni, saranno popolati da fate, folletti (Far Gorta e Far Darrig) e Trolls. Il tutto mi procurerà attimi di forti stress e dolorosi spasmi allo stomaco che mi porteranno a rasentare la follia.
Eccovi il finale del secondo romanzo: nonostante tutto, capivo che quanto mi era accaduto aveva potuto generare simili fenomeni e che questi erano dovuti a situazioni paradossali e stressanti in cui mi ero venuto a trovare in quei lunghi mesi. Quello che non sono mai riuscito a capire é come e dove siano finiti quei trentadue giorni: dal diciassette luglio al diciassette agosto del 2012, oltre a quei due, quando mi sono trovato vicino al fosso Canaiolo (nel parco naturale del Sasso Simone e Simoncello). É pur vero che si possono avere per i motivi più disparati amnesie difficilmente recuperabili, ma la cicatrice dello sparo subìto la porto tuttora ben visibile sul petto, e non può essersi trattato di un sogno. Non ho mai sentito dire che una persona si svegli, sempre trovandosi in mezzo a un bosco, dopo trenta giorni guarito da una ferita d’arma da fuoco. Qualcuno dovrà pure avergliela curata, ma chi? È anche vero che esiste il possibile nell’impossibile, ma permettetemi tutti i miei dubbi. Per quello che riguarda quella frase, La morte de miu figghiu te la farò scuntare
come atto di accusa nei miei confronti, sulla spiaggia di Gallipoli, una riflessione ancora mi viene spontanea: certo che la perdita di un figlio può portare alla pazzia. È un dolore che ti cancella dal mondo, e dentro quel dolore ti ci puoi perdere come in un labirinto di disperazione. Forse questa è la vera spiegazione che si può dare alle parole dette da quella persona, ed è stata solo una casualità che io in quel momento mi fossi trovato a passeggiare su quella spiaggia. Almeno voglio sperare e credere che sia così, ma la certezza chi me la dà? Rimane una speranza che solo il tempo potrà certificare. Se fosse stato veramente lui? E se fosse ancora vivo?
La storia continua, ed è un amore, come dice il titolo: senza confini, e non c’è forza più grande nella vita. Il tormento procurato da certi personaggi mafiosi che sembrano tornare dal passato per vendicarsi dei torti subiti, secondo il loro modo distorto di vedere e concepire la vita, sembra non avere mai fine.
OGNI RIFERIMENTO A NOMI PERSONAGGI O FATTI
REALMENTE ACCADUTI È PURAMENTE CASUALE
O DI FANTASIA
L’autore
Virginio Giovagnoli
MALINCONIA E PREOCCUPAZIONI
È primavera inoltrata. Maggio con tutti i suoi profumi e colori sta finendo. Io tutti i pomeriggi, e spesso anche di sera, vado sulla piana di Campo e mi fermo un po’ in compagnia del mio branco. Ci sono ancora tutti: la madre di tutte e due le cucciolate, di nome Lupa, e il maschio generatore, Zampagrossa. Ai loro primi cinque nati ho dato i nomi di Primo e Secondo, due maschi belli e robusti. Alle tre femmine, per le loro specifiche caratteristiche, le ho chiamate: Luna, Stella e Zannabianca. Agli altri sette della seconda cucciolata non ho assegnato nessun nome, perché ormai hanno imparato a ubbidire e mi capiscono appena faccio loro un semplice e diretto gesto. Non sempre, ma sovente, mi attardo nelle ore notturne per andare a caccia assieme. Mi sento tranquillo, sereno, direi quasi felice. Quel sogno che cullavo fin da bambino, è andato oltre alla realtà e all’immaginazione della mia già fervida fantasia. Molto spesso ripercorro la strada nei boschi che mi porta fino alla cascina di Eva, nella quale ha fatto installare l’impianto a gas con il bombolone per avere l’acqua calda nei mesi estivi. Me lo aveva accennato diverse volte che con l’elettricità le sembrava troppo dispendioso.
Ormai andare là è diventata per me una piacevole abitudine. Rivedere quella casa mi dà la sensazione che lei sia lì ad aspettarmi, anche se ancora dovrò attendere la fine dell’anno scolastico di mio figlio Luigino, e il fermo universitario di mia figlia Speranza, entrambi avuti con Eva. La ragazza, più che vent’enne fu concepita durante la mia latitanza, e il maschietto nel 2001 in un incontro d’addio. Per questo io e mia moglie, nonostante le avvenute spiegazioni dei momenti contingenti, viviamo separati in casa.
I primi di giugno il caldo comincia a farsi sentire, così dopo cena raggiungo il branco. Mi sento addosso una strana agitazione, anche Zampagrossa e Primo, che mi seguono come protettori inseparabili, non sono tranquilli, e continuano a fissarmi come a volermi dire qualche cosa. Smetto di arrovellarmi il cervello e decido di partire. Ho intenzione di visitare la zona tutt’intorno alla casa dei miei incontri segreti, avuti nei giorni più bui della latitanza, così per un semplice sfizio, e prima che abbia inizio la caccia notturna.
Seguito dai miei lupi, sorpasso il piccolo torrente che la separa dal bosco, con le prime ombre della sera. Appena sono a pochi metri dalla strada che porta all’abitazione di Eva, intravedo un’ombra che si aggira furtiva a curiosare nei paraggi, mentre un’auto è ferma proprio davanti al cancelletto del giardino. Il mio sesto senso mi consiglia di non farmi notare, perciò senza indugiare, mi appiattisco tra la vegetazione, seguito da tutto il branco. È troppo lontano ed è scuro per poterlo riconoscere o prendere nota del numero della targa del mezzo. Aspetto ancora un po’. Finalmente lo vedo salire e partire, così usciamo dal bosco e ci avviciniamo, ormai per pura e semplice curiosità ma qualche pensiero, all’apparenza assurdo, comincia a frullarmi in testa. Ma no! Impossibile che sia lui
, dico a me stesso. Sarebbe il colmo, cosa vado a pensare, anche se lo fosse dovrebbe trovarsi a Gallipoli. No! Cosa accidenti deve venirmi in mente poi. Non voglio rovinarmi l’esistenza. Meglio non pensarci più. Per sicurezza domani telefonerò a Eva cercando di non farla agitare, altrimenti saremo in due a preoccuparci
. La sera durante la caccia notturna, la mia mente è altrove, fortuna che i lupi da qualche mese si sono abituati senza di me, e se la cavano più che bene. Preoccupato e sovrappensiero come sono, non faccio caso a nulla e mi fermo appoggiandomi al tronco di un grosso albero. Rimugino a tal punto che comincio a parlare con me stesso ad alta voce mettendo in allarme eventuali prede. È morto o no questo maledetto Giacomo Coccia?
.
Questo poco raccomandabile personaggio era stato a capo dello squadrone della morte della Sacra Corona Unita, negli anni Ottanta e Novanta, quando io ero ricercato per omicidio. Poi, sparito, non ne seppi più nulla fin quando non ne sentii di nuovo parlare nel 2010, proprio da Eva e da mia figlia Speranza, per tutto quello che stava loro accadendo. Allora viveva a Roma ed era intrallazzato con personaggi poco rispettabili: ex della così detta banda della Magliana e faccendieri romani senza scrupoli. Intanto anche Stella e Luna si sono fermate e avvicinate a me continuando a fissarmi sconsolate, forse capiscono che qualche cosa mi sta tormentando. Sorrido e le sprono a continuare. Riusciamo a rintracciare una preda sulla dorsale che da ca’ La Porcia porta a Piand’Olivo, ma per colpa mia ormai è diventata imprendibile. Infatti, ha preso la strada che scende a destra della casa e ritorna verso il paese di Belforte. Arrivata giù al fossato, risale nuovamente, entrando nella pineta, da dove sparisce come per magia. Primo non si fa ingannare e ne percepisce ancora l’odore, ma io sono troppo stanco perché li segua. Le mie gambe non ne vogliono più sapere, così desisto. Mi fermo e mi siedo su di un sasso del rudere, piuttosto ansimante. «Bene», dico a Zampagrossa, «ora mi avvio verso casa, non ce la faccio proprio più, ci vediamo domani sulla piana, alle prime ore della sera, e cercherò di essere più presente. Voglio tornare alla cascina per delle conferme su quello che ho visto. Ho bisogno di certezze». Un abbaio, un ululato, e il branco scompare in un istante come inghiottito dalla nebbia. Da lontano intravedo il campanile, mentre l’orologio batte le ore: è mezzanotte. Mi corico stanco. Mi giro e rigiro sul letto senza riuscire a prendere sonno. Quella figura appena intravista continua a farmi agitare. Indubbiamente quel sesto senso che appartiene a molti di noi è difficile che si sbagli, e questo mi preoccupa molto, direi troppo. Comincio a fare la spola da casa mia fino nei pressi del torrente per diversi giorni, uscendo allo scoperto solo dopo aver fatto ispezionare i dintorni dal branco. Finalmente, verso la fine di giugno intravedo di nuovo una figura maschile aggirarsi nei pressi della cascina in modo piuttosto sospettoso. Mi avvicino il più possibile per prendere il codice alfanumerico della targa, e un fremito mi scuote: ancora una maledetta Mercedes, con vetri oscurati, che si allontana velocemente sparendo lungo l’interpoderale con le prime ombre della sera. Maledizione!
Impreco piuttosto adirato, anche questa volta non sono riuscito a leggerne la targa, ma la rassomiglianza di quel volto, intravisto mentre apriva lo sportello e si accendeva la luce, mi è piuttosto famigliare. Faccio un giro intorno alla cascina rimuginando e cercando di riportare alla mente i volti delle persone con le quali ho avuto a che fare nei mesi passati. Un brivido ghiacciato mi percorre la schiena. Quel viso assomiglia in modo impressionante ai due giovani fratelli Rotundo che ho incontrato sull’Aspromonte. Ricordo bene che il primo, Giuseppe, il più piccolo, è stato dilaniato dai miei lupi mentre cercava di filarsela dal nascondiglio sotterraneo uscendo dal cunicolo segreto. Antonino, invece, catturato e tenuto da me prigioniero, ha provato in tutti i modi a farmi cadere in un agguato per cercare di vendicarne la morte. Proprio in quel frangente l’ho freddato con un colpo di pistola ed è caduto nella fiumara Amendolea.
INCUBI
Devo assolutamente riuscire a scoprire chi é. Potrebbe essere un loro parente, o addirittura il padre, forse anche lui è un malavitoso. La mia vita e quella dei miei famigliari sarebbe in pericolo se fosse veramente chi spero non sia
, dico fra me e me, piuttosto perplesso.
Finisce anche giugno. Le mie preoccupazioni aumentano di giorno in giorno e con loro tornano a farsi sentire i crampi allo stomaco. Di notte ancora una volta le ore di riposo cominciano a essere poche. Il pensiero degli incubi avuti in passato torna a farmi paura e a dominare la mia mente. Forse
, penso, è meglio che vada a trascorrere una quindicina di giorni del mese di luglio a Gallipoli con Eva e i ragazzi, e tornare su con loro in agosto. Potrebbero trovarsi nuovamente in pericolo
. Ormai deciso telefono.
«Pronto, Speranza sei tu? Che cosa ne dici se vengo giù, a trascorrere un po’ di tempo al mare con voi?».
«Ne saremmo felicissimi! Avevamo pensato di chiedertelo, ma credevamo di essere troppo invadenti, o che avessi già degli impegni con le nipotine».
«Allora, rimaniamo d’accordo così? Partirò lunedì della prossima settimana, questa è quasi finita. In questi tre giorni che mi rimangono, sistemerò alcune cose, e sbrigherò delle faccende in sospeso».
«Benissimo! Lo farò sapere alla mamma così ti verrà a prendere alla stazione ferroviaria di Lecce come l’altra volta», mi risponde con entusiasmo.
Convinto di aver preso una saggia decisione, desidero passare le ultime due sere a cacciare con il branco. Le notti sono calde e si sta bene all’aperto in mezzo ai boschi. Cambiano, ma con le preoccupazioni e l’angoscia ritornano anche loro: i miei incubi. Sono le ventuno di venerdì cinque luglio. Preparo lo zainetto con un po’ di provviste, e vado fino sulla piana di Campo, la così detta sala da ballo
. Sento la necessità di rilassarmi e possibilmente lasciar correre certi pensieri che mi assillano. Il mio ululato si espande nei boschi riportandomi l’eco. Solo una quindicina di minuti e sono tutti lì con me. La caccia è abbondante e i lupi sazi. Tutt’intorno domina il silenzio. Sento in lontananza i ritocchi dell’orologio di un campanile: sono le tre del mattino. Cerco un posto nascosto e ben riparato, e mi sdraio sopra il mio sacco a pelo, mentre loro si acquattano vicini a me; si rintaneranno solo alle prime luci dell’alba. I due maschi Primo e Zampagrossa sicuramente si fermeranno fino al mio risveglio, non mi lasciano mai solo. Sei ore in continuo movimento di sali e scendi da una collina all’altra stancano, così in pochi attimi mi addormento, almeno credo. Improvvisa, francamente non del tutto inaspettata, una voce piuttosto cavernosa: «Cosa ci fai piccoletto in casa mia?».
«Casa tua? Che cosa accidenti dici? Non vedi che siamo in mezzo a un bosco sulla dorsale sopra Borgo Pace?». Giro lo sguardo intorno, e…ha proprio ragione lui.
No! Oddio! Sono di nuovo finito dentro uno dei miei incubi
, rimugino nervosamente. Di nuovo lui, il Troll incontrato alcuni mesi fa sul monte Carpegna, sempre disgustosamente brutto. Una specie di essere alto più di due metri: un collo tozzo di pochi centimetri al quale è attaccata una testa enorme. Naso grosso e orecchie lunghe a punta. I piedi sembrano due racchette da neve. La coda è davvero strana: striscia sul fondo della puzzolente caverna ed è completamente sprovvista di peli. Ormai ho fatto l’abitudine alla sua comparsa, e dopo il primo attimo di sbigottimento cerco di fare un po’ di conversazione, del resto non so cos’altro fare in simili circostanze.
«Vuoi spiegarmi come mai ti ritrovo ogni volta che mi appisolo cercando di riposare un po’?».
«Che cosa vuoi che m’interessi quando e perché ti succede. Voglio solo sapere che cosa ci fai in casa mia», mi risponde piuttosto seccato.
«Perché sei sempre così poco ben disposto nei miei confronti? Non mi pare di averti fatto mai del male in nessun modo, dunque?».
«Vorrei proprio vedere! M’infastidisce trovarti sempre fra i piedi senza sapere il perché. Sei piuttosto invadente, lo sai?».
«Che cosa accidenti dici? Sei tu che mi procuri sempre stress entrando nel mio dormiveglia, o addirittura quando sto riposando. Vorrei sapere come mai e perché. Questa storia comincia veramente a stancare anche me».
«Meglio lasciar perdere. Vattene e stai attento: ancora non lo sai, ma nei prossimi giorni avrai una montagna di guai», mi risponde cambiando completamente atteggiamento.
«È pur vero che ormai mi ci sono abituato, ma non puoi dirmi di che genere saranno?», gli domando curioso.
Già altre volte in passato mi ha messo in guardia da certi pericoli, anche se ho sempre creduto fossero solo sogni, o meglio incubi, dovuti a situazioni piuttosto angosciose.
Ora anche i Trolls si mettono a rimare le loro premonizioni, che comunque per me sono sempre fonte di guai
, borbotto non senza una certa preoccupazione. Neanche il tempo di una semplice riflessione che il tono della voce cambia completamente. Non è più lui a parlare.
«Scusi, ma dovrebbe capirlo da solo che rimanendo qui, qualche cacciatore vedendo muoversi dei cespugli potrebbe sparare, e mi creda sarebbero guai per entrambi, ma in particolare per lei. Se fosse colpito, probabilmente sarebbe ucciso. Ho visto un tale, uno sconosciuto che era pronto a farlo, ma vedendo me ha lasciato stare, e se n’è andato piuttosto in fretta. A essere sincero mi è parso un comportamento e un cacciatore alquanto strano, non aveva neanche il cane. Come farà a stanare le beccacce, poi. Altro non so dirle».
«Come dice? Oddio! Abbia pazienza, ha perfettamente ragione. Mi sono addormentato per riposarmi un po’, e ora vedo che sono addirittura le otto».
Ripensandoci, non stavo parlando con nessun Troll, ma con un signore che stava facendo una passeggiata assieme al suo compagno a quattro zampe.
«La caccia credo che sia chiusa in questo periodo, o mi sbaglio?», gli domando.
«No, ha perfettamente ragione. Non capisco come mai quello girasse armato di fucile. Presumo che quel tale pronto a sparare non fosse un cacciatore, e neanche un suo amico, immagino, vero?».
«Già! Lo penso anch'io».
«Mi dispiace, forse sarà stato un guardiacaccia o magari una guardia giurata, non so cosa dirle», mi risponde con un esile tono di voce, ma visibilmente preoccupato per me.
«Lo spero, però non ci giurerei. Senta, per cortesia, sa descrivermi la persona che ha visto?», gli domando con apprensione.
«No! L’ho intravisto un attimo ed ero lontano una decina di metri».
Posso solo dirle che era alto all’incirca un metro e ottanta, capelli brizzolati, nient’altro».
«Capisco! Arrivederci e grazie di tutto».
Mi saluta con un sorriso e in meno che non si dica scompare in mezzo alla boscaglia seguito dal suo Bull Terrier.
Accidenti che fretta, altro che passeggiata, questo se la sta svignando per la paura. La faccenda non convince neanche lui
, bisbiglio emettendo una smorfia. Ancora mezzo addormentato cerco di connettermi con il mio cervello che pare momentaneamente assente. Mi stiracchio un po’ per sgranchirmi le ossa, faccio uno sbadiglio o due e via. Un mulinello di pensieri comincia ad agitare tutti i miei dubbi e le mie preoccupazioni. Ricordo che anche quello visto alla cascina di Eva era all’incirca di quell'altezza e con lo stesso colore di capelli. Chi diavolo può essere? C’è senza dubbio qualcuno che continua ad avercela con me. Come si spiega poi che siano in tanti a conoscere la casa della mia compagna? Perché mai stanno sempre gironzolando attorno da quelle parti, cercando di non farsi notare
, mormoro con una certa agitazione dentro. Il sabato e la domenica prima della partenza faccio ancora un giretto nei pressi della cascina per controllare, ma non trovo e non vedo nulla di sospetto. La sera del dieci luglio prendo il Frecciabianca a Pesaro. Lo scompartimento è stranamente vuoto. Mi metto vicino al finestrino, appoggio la testa sullo schienale, cerco di rilassarmi. Il costante ta ta ta tan del treno sembra conciliarmi il sonno. Appena il tempo di chiudere gli occhi che la voce di una mia vecchia conoscenza, il Far Gorta, incontrato diverse volte in mezzo ai boschi dell’entroterra marchigiano e aretino, mi fa trasalire riportandomi una realtà ben diversa avuta in altri incontri, mentre andavo a caccia o a passeggio.
«Che accidenti ci fai qui? Ora ti sei messo a chiedere elemosine anche sui treni? Andiamo proprio bene! A dire la verità sono contento. Finalmente ti sei evoluto, ma hai fatto il biglietto o giri a sbafo?», gli domando piuttosto curioso, sorridendo.
«Che cosa stai dicendo? Svegliati! Non vedi che siamo in uno stradino di campagna? Voglio solo sapere se hai qualche cosa da darmi da mangiare, visto che ora non ne porti quasi mai con te», mi risponde con il suo solito modo non proprio garbato. Mi stropiccio ripetutamente gli occhi. Non è possibile, ha proprio ragione
, dico fra me e me. Effettivamente ci troviamo in campagna, su di una strada, una specie di mulattiera scoscesa, costeggiata da entrambi i lati
da un’alta siepe di rovi.
«Mi sai dire come diavolo ci sono finito qui in mezzo, e dove porta questa strada? Non conosco questo posto e non so effettivamente, dove sto andando. Sono davvero confuso. Mi sembrava di aver preso il treno che va a Lecce, invece. Dove accidenti mi trovo e che cosa ci faccio qui? Sono sicuro che tu, come al solito, c’entri in qualche modo. Allora vuoi rispondermi o no? Sei forse arrabbiato con me o cos’altro?».
«No! Ci mancherebbe. Le chiedo scusa. Potrebbe cortesemente