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Un amore senza confini. L’addio del branco
Un amore senza confini. L’addio del branco
Un amore senza confini. L’addio del branco
E-book301 pagine4 ore

Un amore senza confini. L’addio del branco

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Info su questo ebook

Mi sono domandato spesso scrivendo questo romanzo, in una trilogia di libri, se sia la realtà a superare la fantasia o viceversa. Inventiva e verità possono convivere in perfetta sintonia perché unite si compensano. Non c’è creatività senza un minimo di realtà. Non c’è realtà senza un pizzico di fantasia. Questo libro racchiude nel suo interno: amore e passione. La ferocia e l’intelligenza di un branco di lupi guidati dal loro Alfa umano. Sogni dolci e incubi. La morte sempre in agguato, che dopo essere stata gabbata tante volte, cerca la rivincita. Una donna innamorata ma pronta a tutto per salvare i propri figli, anche a sacrificare altre vite.

Spero che la forza dell’amore prevalga, perché solo l’amore può vincere la morte.

Leggendo questo libro puoi vivere o rivivere tutti i tuoi sogni.
LinguaItaliano
Data di uscita15 apr 2020
ISBN9788831668255
Un amore senza confini. L’addio del branco

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    Un amore senza confini. L’addio del branco - Virginio Giovagnoli

    INTRODUZIONE

        Non c’è fan­ta­sia sen­za un piz­zi­co di real­tà. Non c’è real­tà sen­za un mi­ni­mo di fan­ta­sia. La mia av­ven­tu­ra per la vi­ta con­ti­nua. Que­sto nuo­vo ro­man­zo, che po­treb­be es­se­re il fi­na­le di una vi­ta piut­to­sto agi­ta­ta ma in­ten­sa d’amo­re, rac­chiu­de al suo in­ter­no, vio­len­za, pas­sio­ne e fe­ro­cia, so­gni dol­ci e in­cu­bi. La mor­te mi se­gue pas­so do­po pas­so per qua­si trent’an­ni, lun­go tut­to il per­cor­so del tem­po in cui i miei tre ro­man­zi si svol­go­no. Di­ver­se vol­te so­no riu­sci­to a gab­bar­la, ma sen­to che sta cer­can­do la sua ri­vin­ci­ta. Spe­ro che la for­za dell’amo­re pre­val­ga, per­ché so­lo l’amo­re può vin­ce­re la mor­te.

        Il pri­mo li­bro di que­sta se­rie, Io ca­po­bran­co nel mi­ri­no del­la ma­fia, lo sin­te­tiz­ze­rei co­sì: nel 1986 so­no ac­cu­sa­to di un ef­fe­ra­to de­lit­to com­mes­so dal­la ma­fia; per sfug­gi­re al­le for­ze dell’or­di­ne mi do al­la mac­chia e, do­po un sus­se­guir­si di even­ti e con­cau­se, di­ven­to l’al­fa di un bran­co di lu­pi. Un se­que­stro per ri­tor­sio­ne al­te­re­rà gli even­ti, ma…

    Nel­la mia lun­ga la­ti­tan­za in­con­tro, in una ca­sci­na ri­strut­tu­ra­ta, una gio­va­ne don­na di no­me Eva, e fra noi due na­sce una te­ne­ra e dol­ce sto­ria d’amo­re, che por­te­rà al­la na­sci­ta di una fi­glia di no­me Spe­ran­za, e a un sus­se­guir­si di fat­ti im­pre­ve­di­bi­li.

    Nel frat­tem­po la ma­fia, con la com­pli­ci­tà di po­li­ti­ci cor­rot­ti e per­so­nag­gi del ma­laf­fa­re, tor­na a far­si sen­ti­re; na­sce co­sì una nuo­va sto­ria dal ti­to­lo: Amo­re do­lo­re in­cu­bi o fol­lia -Il nuo­vo bran­co-.

    Sto­ria che si svi­lup­pe­rà ne­gli stes­si am­bien­ti di un tem­po, ma, da­ta la mia avan­za­ta età, si fa­rà per me più du­ra e aspra la lot­ta per il ri­tor­no al­la nor­ma­li­tà, e co­me di­ce il ti­to­lo stes­so, sa­rà pie­na di do­lo­re. I miei in­cu­bi not­tur­ni, o an­che so­lo i mo­men­ti di ri­po­so diur­ni, sa­ran­no po­po­la­ti da fa­te, fol­let­ti (Far Gor­ta e Far Dar­rig) e Trolls. Il tut­to mi pro­cu­re­rà at­ti­mi di for­ti stress e do­lo­ro­si spa­smi al­lo sto­ma­co che mi por­te­ran­no a ra­sen­ta­re la fol­lia.

        Ec­co­vi il fi­na­le del se­con­do ro­man­zo: no­no­stan­te tut­to, ca­pi­vo che quan­to mi era ac­ca­du­to ave­va po­tu­to ge­ne­ra­re si­mi­li fe­no­me­ni e che que­sti era­no do­vu­ti a si­tua­zio­ni pa­ra­dos­sa­li e stres­san­ti in cui mi ero ve­nu­to a tro­va­re in quei lun­ghi me­si. Quel­lo che non so­no mai riu­sci­to a ca­pi­re é co­me e do­ve sia­no fi­ni­ti quei tren­ta­due gior­ni: dal di­cias­set­te lu­glio al di­cias­set­te ago­sto del 2012, ol­tre a quei due, quan­do mi so­no tro­va­to vi­ci­no al fos­so Ca­na­io­lo (nel par­co na­tu­ra­le del Sas­so Si­mo­ne e Si­mon­cel­lo). É pur ve­ro che si pos­so­no ave­re per i mo­ti­vi più di­spa­ra­ti am­ne­sie dif­fi­cil­men­te re­cu­pe­ra­bi­li, ma la ci­ca­tri­ce del­lo spa­ro su­bì­to la por­to tut­to­ra ben vi­si­bi­le sul pet­to, e non può es­ser­si trat­ta­to di un so­gno. Non ho mai sen­ti­to di­re che una per­so­na si sve­gli, sem­pre tro­van­do­si in mez­zo a un bo­sco, do­po tren­ta gior­ni gua­ri­to da una fe­ri­ta d’ar­ma da fuo­co. Qual­cu­no do­vrà pu­re aver­glie­la cu­ra­ta, ma chi? È an­che ve­ro che esi­ste il pos­si­bi­le nell’im­pos­si­bi­le, ma per­met­te­te­mi tut­ti i miei dub­bi. Per quel­lo che ri­guar­da quel­la fra­se, La mor­te de miu fig­ghiu te la fa­rò scun­ta­re co­me at­to di ac­cu­sa nei miei con­fron­ti, sul­la spiag­gia di Gal­li­po­li, una ri­fles­sio­ne an­co­ra mi vie­ne spon­ta­nea: cer­to che la per­di­ta di un fi­glio può por­ta­re al­la paz­zia. È un do­lo­re che ti can­cel­la dal mon­do, e den­tro quel do­lo­re ti ci puoi per­de­re co­me in un la­bi­rin­to di di­spe­ra­zio­ne. For­se que­sta è la ve­ra spie­ga­zio­ne che si può da­re al­le pa­ro­le det­te da quel­la per­so­na, ed è sta­ta so­lo una ca­sua­li­tà che io in quel mo­men­to mi fos­si tro­va­to a pas­seg­gia­re su quel­la spiag­gia. Al­me­no vo­glio spe­ra­re e cre­de­re che sia co­sì, ma la cer­tez­za chi me la dà? Ri­ma­ne una spe­ran­za che so­lo il tem­po po­trà cer­ti­fi­ca­re. Se fos­se sta­to ve­ra­men­te lui? E se fos­se an­co­ra vi­vo?

        La sto­ria con­ti­nua, ed è un amo­re, co­me di­ce il ti­to­lo: sen­za con­fi­ni, e non c’è for­za più gran­de nel­la vi­ta. Il tor­men­to pro­cu­ra­to da cer­ti per­so­nag­gi ma­fio­si che sem­bra­no tor­na­re dal pas­sa­to per ven­di­car­si dei tor­ti su­bi­ti, se­con­do il lo­ro mo­do di­stor­to di ve­de­re e con­ce­pi­re la vi­ta, sem­bra non ave­re mai fi­ne.

    OGNI RI­FE­RI­MEN­TO A NO­MI PER­SO­NAG­GI O FAT­TI

    REAL­MEN­TE AC­CA­DU­TI È PU­RA­MEN­TE CA­SUA­LE

    O DI FAN­TA­SIA

    L’au­to­re

    Vir­gi­nio Gio­va­gno­li

    MALINCONIA E PREOCCUPAZIONI

        È prima­ve­ra inol­tra­ta. Mag­gio con tut­ti i suoi pro­fu­mi e co­lo­ri sta fi­nen­do. Io tut­ti i po­me­rig­gi, e spes­so an­che di se­ra, va­do sul­la pia­na di Cam­po e mi fer­mo un po’ in com­pa­gnia del mio bran­co. Ci so­no an­co­ra tut­ti: la ma­dre di tut­te e due le cuc­cio­la­te, di no­me Lu­pa, e il ma­schio ge­ne­ra­to­re, Zam­pa­gros­sa. Ai lo­ro pri­mi cin­que na­ti ho da­to i no­mi di Pri­mo e Se­con­do, due ma­schi bel­li e ro­bu­sti. Al­le tre fem­mi­ne, per le lo­ro spe­ci­fi­che ca­rat­te­ri­sti­che, le ho chia­ma­te: Lu­na, Stel­la e Zan­na­bian­ca. Agli al­tri set­te del­la se­con­da cuc­cio­la­ta non ho as­se­gna­to nes­sun no­me, per­ché or­mai han­no im­pa­ra­to a ub­bi­di­re e mi ca­pi­sco­no ap­pe­na fac­cio lo­ro un sem­pli­ce e di­ret­to ge­sto. Non sem­pre, ma so­ven­te, mi at­tar­do nel­le ore not­tur­ne per an­da­re a cac­cia as­sie­me. Mi sen­to tran­quil­lo, se­re­no, di­rei qua­si fe­li­ce. Quel so­gno che cul­la­vo fin da bam­bi­no, è an­da­to ol­tre al­la real­tà e all’im­ma­gi­na­zio­ne del­la mia già fer­vi­da fan­ta­sia. Mol­to spes­so ri­per­cor­ro la stra­da nei bo­schi che mi por­ta fi­no al­la ca­sci­na di Eva, nel­la qua­le ha fat­to in­stal­la­re l’im­pian­to a gas con il bom­bo­lo­ne per ave­re l’ac­qua cal­da nei me­si esti­vi. Me lo ave­va ac­cen­na­to di­ver­se vol­te che con l’elet­tri­ci­tà le sem­bra­va trop­po di­spen­dio­so.

    Or­mai an­da­re là è di­ven­ta­ta per me una pia­ce­vo­le abi­tu­di­ne. Ri­ve­de­re quel­la ca­sa mi dà la sen­sa­zio­ne che lei sia lì ad aspet­tar­mi, an­che se an­co­ra do­vrò at­ten­de­re la fi­ne dell’an­no sco­la­sti­co di mio fi­glio Lui­gi­no, e il fer­mo uni­ver­si­ta­rio di mia fi­glia Spe­ran­za, en­tram­bi avu­ti con Eva. La ra­gaz­za, più che vent’en­ne fu con­ce­pi­ta du­ran­te la mia la­ti­tan­za, e il ma­schiet­to nel 2001 in un in­con­tro d’ad­dio. Per que­sto io e mia mo­glie, no­no­stan­te le av­ve­nu­te spie­ga­zio­ni dei mo­men­ti con­tin­gen­ti, vi­via­mo se­pa­ra­ti in ca­sa.

    I pri­mi di giu­gno il cal­do co­min­cia a far­si sen­ti­re, co­sì do­po ce­na rag­giun­go il bran­co. Mi sen­to ad­dos­so una stra­na agi­ta­zio­ne, an­che Zam­pa­gros­sa e Pri­mo, che mi se­guo­no co­me pro­tet­to­ri in­se­pa­ra­bi­li, non so­no tran­quil­li, e con­ti­nua­no a fis­sar­mi co­me a vo­ler­mi di­re qual­che co­sa. Smet­to di ar­ro­vel­lar­mi il cer­vel­lo e de­ci­do di par­ti­re. Ho in­ten­zio­ne di vi­si­ta­re la zo­na tutt’in­tor­no al­la ca­sa dei miei in­con­tri se­gre­ti, avu­ti nei gior­ni più bui del­la la­ti­tan­za, co­sì per un sem­pli­ce sfi­zio, e pri­ma che ab­bia ini­zio la cac­cia not­tur­na.

    Se­gui­to dai miei lu­pi, sor­pas­so il pic­co­lo tor­ren­te che la se­pa­ra dal bo­sco, con le pri­me om­bre del­la se­ra. Ap­pe­na so­no a po­chi me­tri dal­la stra­da che por­ta all’abi­ta­zio­ne di Eva, in­tra­ve­do un’om­bra che si ag­gi­ra fur­ti­va a cu­rio­sa­re nei pa­rag­gi, men­tre un’au­to è fer­ma pro­prio da­van­ti al can­cel­let­to del giar­di­no. Il mio se­sto sen­so mi con­si­glia di non far­mi no­ta­re, per­ciò sen­za in­du­gia­re, mi ap­piat­ti­sco tra la ve­ge­ta­zio­ne, se­gui­to da tut­to il bran­co. È trop­po lon­ta­no ed è scu­ro per po­ter­lo ri­co­no­sce­re o pren­de­re no­ta del nu­me­ro del­la tar­ga del mez­zo. Aspet­to an­co­ra un po’. Fi­nal­men­te lo ve­do sa­li­re e par­ti­re, co­sì uscia­mo dal bo­sco e ci av­vi­ci­nia­mo, or­mai per pu­ra e sem­pli­ce cu­rio­si­tà ma qual­che pen­sie­ro, all’ap­pa­ren­za as­sur­do, co­min­cia a frul­lar­mi in te­sta. Ma no! Im­pos­si­bi­le che sia lui, di­co a me stes­so. Sa­reb­be il col­mo, co­sa va­do a pen­sa­re, an­che se lo fos­se do­vreb­be tro­var­si a Gal­li­po­li. No! Co­sa ac­ci­den­ti de­ve ve­nir­mi in men­te poi. Non vo­glio ro­vi­nar­mi l’esi­sten­za. Me­glio non pen­sar­ci più. Per si­cu­rez­za do­ma­ni te­le­fo­ne­rò a Eva cer­can­do di non far­la agi­ta­re, al­tri­men­ti sa­re­mo in due a pre­oc­cu­par­ci. La se­ra du­ran­te la cac­cia not­tur­na, la mia men­te è al­tro­ve, for­tu­na che i lu­pi da qual­che me­se si so­no abi­tua­ti sen­za di me, e se la ca­va­no più che be­ne. Pre­oc­cu­pa­to e so­vrap­pen­sie­ro co­me so­no, non fac­cio ca­so a nul­la e mi fer­mo ap­pog­gian­do­mi al tron­co di un gros­so al­be­ro. Ri­mu­gi­no a tal pun­to che co­min­cio a par­la­re con me stes­so ad al­ta vo­ce met­ten­do in al­lar­me even­tua­li pre­de. È mor­to o no que­sto ma­le­det­to Gia­co­mo Coc­cia?.

    Que­sto po­co rac­co­man­da­bi­le per­so­nag­gio era sta­to a ca­po del­lo squa­dro­ne del­la mor­te del­la Sa­cra Co­ro­na Uni­ta, ne­gli an­ni Ot­tan­ta e No­van­ta, quan­do io ero ri­cer­ca­to per omi­ci­dio. Poi, spa­ri­to, non ne sep­pi più nul­la fin quan­do non ne sen­tii di nuo­vo par­la­re nel 2010, pro­prio da Eva e da mia fi­glia Spe­ran­za, per tut­to quel­lo che sta­va lo­ro ac­ca­den­do. Al­lo­ra vi­ve­va a Ro­ma ed era in­tral­laz­za­to con per­so­nag­gi po­co ri­spet­ta­bi­li: ex del­la co­sì det­ta ban­da del­la Ma­glia­na e fac­cen­die­ri ro­ma­ni sen­za scru­po­li. In­tan­to an­che Stel­la e Lu­na si so­no fer­ma­te e av­vi­ci­na­te a me con­ti­nuan­do a fis­sar­mi scon­so­la­te, for­se ca­pi­sco­no che qual­che co­sa mi sta tor­men­tan­do. Sor­ri­do e le spro­no a con­ti­nua­re. Riu­scia­mo a rin­trac­cia­re una pre­da sul­la dor­sa­le che da ca’ La Por­cia por­ta a Piand’Oli­vo, ma per col­pa mia or­mai è di­ven­ta­ta im­pren­di­bi­le. In­fat­ti, ha pre­so la stra­da che scen­de a de­stra del­la ca­sa e ri­tor­na ver­so il pae­se di Bel­for­te. Ar­ri­va­ta giù al fos­sa­to, ri­sa­le nuo­va­men­te, en­tran­do nel­la pi­ne­ta, da do­ve spa­ri­sce co­me per ma­gia. Pri­mo non si fa in­gan­na­re e ne per­ce­pi­sce an­co­ra l’odo­re, ma io so­no trop­po stan­co per­ché li se­gua. Le mie gam­be non ne vo­glio­no più sa­pe­re, co­sì de­si­sto. Mi fer­mo e mi sie­do su di un sas­so del ru­de­re, piut­to­sto an­si­man­te. «Be­ne», di­co a Zam­pa­gros­sa, «ora mi av­vio ver­so ca­sa, non ce la fac­cio pro­prio più, ci ve­dia­mo do­ma­ni sul­la pia­na, al­le pri­me ore del­la se­ra, e cer­che­rò di es­se­re più pre­sen­te. Vo­glio tor­na­re al­la ca­sci­na per del­le con­fer­me su quel­lo che ho vi­sto. Ho bi­so­gno di cer­tez­ze». Un ab­ba­io, un ulu­la­to, e il bran­co scom­pa­re in un istan­te co­me in­ghiot­ti­to dal­la neb­bia. Da lon­ta­no in­tra­ve­do il cam­pa­ni­le, men­tre l’oro­lo­gio bat­te le ore: è mez­za­not­te. Mi co­ri­co stan­co. Mi gi­ro e ri­gi­ro sul let­to sen­za riu­sci­re a pren­de­re son­no. Quel­la fi­gu­ra ap­pe­na in­tra­vi­sta con­ti­nua a far­mi agi­ta­re. In­dub­bia­men­te quel se­sto sen­so che ap­par­tie­ne a mol­ti di noi è dif­fi­ci­le che si sba­gli, e que­sto mi pre­oc­cu­pa mol­to, di­rei trop­po. Co­min­cio a fa­re la spo­la da ca­sa mia fi­no nei pres­si del tor­ren­te per di­ver­si gior­ni, uscen­do al­lo sco­per­to so­lo do­po aver fat­to ispe­zio­na­re i din­tor­ni dal bran­co. Fi­nal­men­te, ver­so la fi­ne di giu­gno in­tra­ve­do di nuo­vo una fi­gu­ra ma­schi­le ag­gi­rar­si nei pres­si del­la ca­sci­na in mo­do piut­to­sto so­spet­to­so. Mi av­vi­ci­no il più pos­si­bi­le per pren­de­re il co­di­ce al­fa­nu­me­ri­co del­la tar­ga, e un fre­mi­to mi scuo­te: an­co­ra una ma­le­det­ta Mer­ce­des, con ve­tri oscu­ra­ti, che si al­lon­ta­na ve­lo­ce­men­te spa­ren­do lun­go l’in­ter­po­de­ra­le con le pri­me om­bre del­la se­ra. Ma­le­di­zio­ne! Im­pre­co piut­to­sto adi­ra­to, an­che que­sta vol­ta non so­no riu­sci­to a leg­ger­ne la tar­ga, ma la ras­so­mi­glian­za di quel vol­to, in­tra­vi­sto men­tre apri­va lo spor­tel­lo e si ac­cen­de­va la lu­ce, mi è piut­to­sto fa­mi­glia­re. Fac­cio un gi­ro in­tor­no al­la ca­sci­na ri­mu­gi­nan­do e cer­can­do di ri­por­ta­re al­la men­te i vol­ti del­le per­so­ne con le qua­li ho avu­to a che fa­re nei me­si pas­sa­ti. Un bri­vi­do ghiac­cia­to mi per­cor­re la schie­na. Quel vi­so as­so­mi­glia in mo­do im­pres­sio­nan­te ai due gio­va­ni fra­tel­li Ro­tun­do che ho in­con­tra­to sull’Aspro­mon­te. Ri­cor­do be­ne che il pri­mo, Giu­sep­pe, il più pic­co­lo, è sta­to di­la­nia­to dai miei lu­pi men­tre cer­ca­va di fi­lar­se­la dal na­scon­di­glio sot­ter­ra­neo uscen­do dal cu­ni­co­lo se­gre­to. An­to­ni­no, in­ve­ce, cat­tu­ra­to e te­nu­to da me pri­gio­nie­ro, ha pro­va­to in tut­ti i mo­di a far­mi ca­de­re in un ag­gua­to per cer­ca­re di ven­di­car­ne la mor­te. Pro­prio in quel fran­gen­te l’ho fred­da­to con un col­po di pi­sto­la ed è ca­du­to nel­la fiu­ma­ra Amen­do­lea.

    INCUBI

    De­vo as­so­lu­ta­men­te riu­sci­re a sco­pri­re chi é. Po­treb­be es­se­re un lo­ro pa­ren­te, o ad­di­rit­tu­ra il pa­dre, for­se an­che lui è un ma­la­vi­to­so. La mia vi­ta e quel­la dei miei fa­mi­glia­ri sa­reb­be in pe­ri­co­lo se fos­se ve­ra­men­te chi spe­ro non sia, di­co fra me e me, piut­to­sto per­ples­so.

    Fi­ni­sce an­che giu­gno. Le mie pre­oc­cu­pa­zio­ni au­men­ta­no di gior­no in gior­no e con lo­ro tor­na­no a far­si sen­ti­re i cram­pi al­lo sto­ma­co. Di not­te an­co­ra una vol­ta le ore di ri­po­so co­min­cia­no a es­se­re po­che. Il pen­sie­ro de­gli in­cu­bi avu­ti in pas­sa­to tor­na a far­mi pau­ra e a do­mi­na­re la mia men­te. For­se, pen­so, è me­glio che va­da a tra­scor­re­re una quin­di­ci­na di gior­ni del me­se di lu­glio a Gal­li­po­li con Eva e i ra­gaz­zi, e tor­na­re su con lo­ro in ago­sto. Po­treb­be­ro tro­var­si nuo­va­men­te in pe­ri­co­lo. Or­mai de­ci­so te­le­fo­no.

    «Pron­to, Spe­ran­za sei tu? Che co­sa ne di­ci se ven­go giù, a tra­scor­re­re un po’ di tem­po al ma­re con voi?».

    «Ne sa­rem­mo fe­li­cis­si­mi! Ave­va­mo pen­sa­to di chie­der­te­lo, ma cre­de­va­mo di es­se­re trop­po in­va­den­ti, o che aves­si già de­gli im­pe­gni con le ni­po­ti­ne».

    «Al­lo­ra, ri­ma­nia­mo d’ac­cor­do co­sì? Par­ti­rò lu­ne­dì del­la pros­si­ma set­ti­ma­na, que­sta è qua­si fi­ni­ta. In que­sti tre gior­ni che mi ri­man­go­no, si­ste­me­rò al­cu­ne co­se, e sbri­ghe­rò del­le fac­cen­de in so­spe­so».

    «Be­nis­si­mo! Lo fa­rò sa­pe­re al­la mam­ma co­sì ti ver­rà a pren­de­re al­la sta­zio­ne fer­ro­via­ria di Lec­ce co­me l’al­tra vol­ta», mi ri­spon­de con en­tu­sia­smo.

    Con­vin­to di aver pre­so una sag­gia de­ci­sio­ne, de­si­de­ro pas­sa­re le ul­ti­me due se­re a cac­cia­re con il bran­co. Le not­ti so­no cal­de e si sta be­ne all’aper­to in mez­zo ai bo­schi. Cam­bia­no, ma con le pre­oc­cu­pa­zio­ni e l’an­go­scia ri­tor­na­no an­che lo­ro: i miei in­cu­bi. So­no le ven­tu­no di ve­ner­dì cin­que lu­glio. Pre­pa­ro lo zai­net­to con un po’ di prov­vi­ste, e va­do fi­no sul­la pia­na di Cam­po, la co­sì det­ta sa­la da bal­lo. Sen­to la ne­ces­si­tà di ri­las­sar­mi e pos­si­bil­men­te la­sciar cor­re­re cer­ti pen­sie­ri che mi as­sil­la­no. Il mio ulu­la­to si espan­de nei bo­schi ri­por­tan­do­mi l’eco. So­lo una quin­di­ci­na di mi­nu­ti e so­no tut­ti lì con me. La cac­cia è ab­bon­dan­te e i lu­pi sa­zi. Tutt’in­tor­no do­mi­na il si­len­zio. Sen­to in lon­ta­nan­za i ri­toc­chi dell’oro­lo­gio di un cam­pa­ni­le: so­no le tre del mat­ti­no. Cer­co un po­sto na­sco­sto e ben ri­pa­ra­to, e mi sdra­io so­pra il mio sac­co a pe­lo, men­tre lo­ro si ac­quat­ta­no vi­ci­ni a me; si rin­ta­ne­ran­no so­lo al­le pri­me lu­ci dell’al­ba. I due ma­schi Pri­mo e Zam­pa­gros­sa si­cu­ra­men­te si fer­me­ran­no fi­no al mio ri­sve­glio, non mi la­scia­no mai so­lo. Sei ore in con­ti­nuo mo­vi­men­to di sa­li e scen­di da una col­li­na all’al­tra stan­ca­no, co­sì in po­chi at­ti­mi mi ad­dor­men­to, al­me­no cre­do. Im­prov­vi­sa, fran­ca­men­te non del tut­to ina­spet­ta­ta, una vo­ce piut­to­sto ca­ver­no­sa: «Co­sa ci fai pic­co­let­to in ca­sa mia?».

    «Ca­sa tua? Che co­sa ac­ci­den­ti di­ci? Non ve­di che sia­mo in mez­zo a un bo­sco sul­la dor­sa­le so­pra Bor­go Pa­ce?». Gi­ro lo sguar­do in­tor­no, e…ha pro­prio ra­gio­ne lui.

    No! Od­dio! So­no di nuo­vo fi­ni­to den­tro uno dei miei in­cu­bi, ri­mu­gi­no ner­vo­sa­men­te. Di nuo­vo lui, il Troll in­con­tra­to al­cu­ni me­si fa sul mon­te Car­pe­gna, sem­pre di­sgu­sto­sa­men­te brut­to. Una spe­cie di es­se­re al­to più di due me­tri: un col­lo toz­zo di po­chi cen­ti­me­tri al qua­le è at­tac­ca­ta una te­sta enor­me. Na­so gros­so e orec­chie lun­ghe a pun­ta. I pie­di sem­bra­no due rac­chet­te da ne­ve. La co­da è dav­ve­ro stra­na: stri­scia sul fon­do del­la puz­zo­len­te ca­ver­na ed è com­ple­ta­men­te sprov­vi­sta di pe­li. Or­mai ho fat­to l’abi­tu­di­ne al­la sua com­par­sa, e do­po il pri­mo at­ti­mo di sbi­got­ti­men­to cer­co di fa­re un po’ di con­ver­sa­zio­ne, del re­sto non so cos’al­tro fa­re in si­mi­li cir­co­stan­ze.

    «Vuoi spie­gar­mi co­me mai ti ri­tro­vo ogni vol­ta che mi ap­pi­so­lo cer­can­do di ri­po­sa­re un po’?».

    «Che co­sa vuoi che m’in­te­res­si quan­do e per­ché ti suc­ce­de. Vo­glio so­lo sa­pe­re che co­sa ci fai in ca­sa mia», mi ri­spon­de piut­to­sto sec­ca­to.

        «Per­ché sei sem­pre co­sì po­co ben di­spo­sto nei miei con­fron­ti? Non mi pa­re di aver­ti fat­to mai del ma­le in nes­sun mo­do, dun­que?».

        «Vor­rei pro­prio ve­de­re! M’in­fa­sti­di­sce tro­var­ti sem­pre fra i pie­di sen­za sa­pe­re il per­ché. Sei piut­to­sto in­va­den­te, lo sai?».

    «Che co­sa ac­ci­den­ti di­ci? Sei tu che mi pro­cu­ri sem­pre stress en­tran­do nel mio dor­mi­ve­glia, o ad­di­rit­tu­ra quan­do sto ri­po­san­do. Vor­rei sa­pe­re co­me mai e per­ché. Que­sta sto­ria co­min­cia ve­ra­men­te a stan­ca­re an­che me».

    «Me­glio la­sciar per­de­re. Vat­te­ne e stai at­ten­to: an­co­ra non lo sai, ma nei pros­si­mi gior­ni avrai una mon­ta­gna di guai», mi ri­spon­de cam­bian­do com­ple­ta­men­te at­teg­gia­men­to.

    «È pur ve­ro che or­mai mi ci so­no abi­tua­to, ma non puoi dir­mi di che ge­ne­re sa­ran­no?», gli do­man­do cu­rio­so.

        Già al­tre vol­te in pas­sa­to mi ha mes­so in guar­dia da cer­ti pe­ri­co­li, an­che se ho sem­pre cre­du­to fos­se­ro so­lo so­gni, o me­glio in­cu­bi, do­vu­ti a si­tua­zio­ni piut­to­sto an­go­scio­se.

    Ora an­che i Trolls si met­to­no a ri­ma­re le lo­ro pre­mo­ni­zio­ni, che co­mun­que per me so­no sem­pre fon­te di guai, bor­bot­to non sen­za una cer­ta pre­oc­cu­pa­zio­ne. Nean­che il tem­po di una sem­pli­ce ri­fles­sio­ne che il to­no del­la vo­ce cam­bia com­ple­ta­men­te. Non è più lui a par­la­re.

    «Scu­si, ma do­vreb­be ca­pir­lo da so­lo che ri­ma­nen­do qui, qual­che cac­cia­to­re ve­den­do muo­ver­si dei ce­spu­gli po­treb­be spa­ra­re, e mi cre­da sa­reb­be­ro guai per en­tram­bi, ma in par­ti­co­la­re per lei. Se fos­se col­pi­to, pro­ba­bil­men­te sa­reb­be uc­ci­so. Ho vi­sto un ta­le, uno sco­no­sciu­to che era pron­to a far­lo, ma ve­den­do me ha la­scia­to sta­re, e se n’è an­da­to piut­to­sto in fret­ta. A es­se­re sin­ce­ro mi è par­so un com­por­ta­men­to e un cac­cia­to­re al­quan­to stra­no, non ave­va nean­che il ca­ne. Co­me fa­rà a sta­na­re le bec­cac­ce, poi. Al­tro non so dir­le».

    «Co­me di­ce? Od­dio! Ab­bia pa­zien­za, ha per­fet­ta­men­te ra­gio­ne. Mi so­no ad­dor­men­ta­to per ri­po­sar­mi un po’, e ora ve­do che so­no ad­di­rit­tu­ra le ot­to».

    Ri­pen­san­do­ci, non sta­vo par­lan­do con nes­sun Troll, ma con un si­gno­re che sta­va fa­cen­do una pas­seg­gia­ta as­sie­me al suo com­pa­gno a quat­tro zam­pe.

    «La cac­cia cre­do che sia chiu­sa in que­sto pe­rio­do, o mi sba­glio?», gli do­man­do.

        «No, ha per­fet­ta­men­te ra­gio­ne. Non ca­pi­sco co­me mai quel­lo gi­ras­se ar­ma­to di fu­ci­le. Pre­su­mo che quel ta­le pron­to a spa­ra­re non fos­se un cac­cia­to­re, e nean­che un suo ami­co, im­ma­gi­no, ve­ro?».

        «Già! Lo pen­so an­ch'io».

        «Mi di­spia­ce, for­se sa­rà sta­to un guar­dia­cac­cia o ma­ga­ri una guar­dia giu­ra­ta, non so co­sa dir­le», mi ri­spon­de con un esi­le to­no di vo­ce, ma vi­si­bil­men­te pre­oc­cu­pa­to per me.   

        «Lo spe­ro, pe­rò non ci giu­re­rei. Sen­ta, per cor­te­sia, sa de­scri­ver­mi la per­so­na che ha vi­sto?», gli do­man­do con ap­pren­sio­ne.

    «No! L’ho in­tra­vi­sto un at­ti­mo ed ero lon­ta­no una de­ci­na di me­tri».

    Pos­so so­lo dir­le che era al­to all’in­cir­ca un me­tro e ot­tan­ta, ca­pel­li briz­zo­la­ti, nient’al­tro».

    «Ca­pi­sco! Ar­ri­ve­der­ci e gra­zie di tut­to».

    Mi sa­lu­ta con un sor­ri­so e in me­no che non si di­ca scom­pa­re in mez­zo al­la bo­sca­glia se­gui­to dal suo Bull Ter­rier.

        Ac­ci­den­ti che fret­ta, al­tro che pas­seg­gia­ta, que­sto se la sta svi­gnan­do per la pau­ra. La fac­cen­da non con­vin­ce nean­che lui, bi­sbi­glio emet­ten­do una smor­fia. An­co­ra mez­zo ad­dor­men­ta­to cer­co di con­net­ter­mi con il mio cer­vel­lo che pa­re mo­men­ta­nea­men­te as­sen­te. Mi sti­rac­chio un po’ per sgran­chir­mi le os­sa, fac­cio uno sba­di­glio o due e via. Un mu­li­nel­lo di pen­sie­ri co­min­cia ad agi­ta­re tut­ti i miei dub­bi e le mie pre­oc­cu­pa­zio­ni. Ri­cor­do che an­che quel­lo vi­sto al­la ca­sci­na di Eva era all’in­cir­ca di quell'al­tez­za e con lo stes­so co­lo­re di ca­pel­li. Chi dia­vo­lo può es­se­re? C’è sen­za dub­bio qual­cu­no che con­ti­nua ad aver­ce­la con me. Co­me si spie­ga poi che sia­no in tan­ti a co­no­sce­re la ca­sa del­la mia com­pa­gna? Per­ché mai stan­no sem­pre gi­ron­zo­lan­do at­tor­no da quel­le par­ti, cer­can­do di non far­si no­ta­re, mor­mo­ro con una cer­ta agi­ta­zio­ne den­tro. Il sa­ba­to e la do­me­ni­ca pri­ma del­la par­ten­za fac­cio an­co­ra un gi­ret­to nei pres­si del­la ca­sci­na per con­trol­la­re, ma non tro­vo e non ve­do nul­la di so­spet­to. La se­ra del die­ci lu­glio pren­do il Frec­cia­bian­ca a Pe­sa­ro. Lo scom­par­ti­men­to è stra­na­men­te vuo­to. Mi met­to vi­ci­no al fi­ne­stri­no, ap­pog­gio la te­sta sul­lo schie­na­le, cer­co di ri­las­sar­mi. Il co­stan­te ta ta ta tan del tre­no sem­bra con­ci­liar­mi il son­no. Ap­pe­na il tem­po di chiu­de­re gli oc­chi che la vo­ce di una mia vec­chia co­no­scen­za, il Far Gor­ta, in­con­tra­to di­ver­se vol­te in mez­zo ai bo­schi dell’en­tro­ter­ra mar­chi­gia­no e are­ti­no, mi fa tra­sa­li­re ri­por­tan­do­mi una real­tà ben di­ver­sa avu­ta in al­tri in­con­tri, men­tre an­da­vo a cac­cia o a pas­seg­gio.

    «Che ac­ci­den­ti ci fai qui? Ora ti sei mes­so a chie­de­re ele­mo­si­ne an­che sui tre­ni? An­dia­mo pro­prio be­ne! A di­re la ve­ri­tà so­no con­ten­to. Fi­nal­men­te ti sei evo­lu­to, ma hai fat­to il bi­gliet­to o gi­ri a sba­fo?», gli do­man­do piut­to­sto cu­rio­so, sor­ri­den­do.

    «Che co­sa stai di­cen­do? Sve­glia­ti! Non ve­di che sia­mo in uno stra­di­no di cam­pa­gna? Vo­glio so­lo sa­pe­re se hai qual­che co­sa da dar­mi da man­gia­re, vi­sto che ora non ne por­ti qua­si mai con te», mi ri­spon­de con il suo so­li­to mo­do non pro­prio gar­ba­to. Mi stro­pic­cio ri­pe­tu­ta­men­te gli oc­chi. Non è pos­si­bi­le, ha pro­prio ra­gio­ne, di­co fra me e me. Ef­fet­ti­va­men­te ci tro­via­mo in cam­pa­gna, su di una stra­da, una spe­cie di mu­lat­tie­ra sco­sce­sa, co­steg­gia­ta da en­tram­bi i la­ti

    da un’al­ta sie­pe di ro­vi.

    «Mi sai di­re co­me dia­vo­lo ci so­no fi­ni­to qui in mez­zo, e do­ve por­ta que­sta stra­da? Non co­no­sco que­sto po­sto e non so ef­fet­ti­va­men­te, do­ve sto an­dan­do. So­no dav­ve­ro con­fu­so. Mi sem­bra­va di aver pre­so il tre­no che va a Lec­ce, in­ve­ce. Do­ve ac­ci­den­ti mi tro­vo e che co­sa ci fac­cio qui? So­no si­cu­ro che tu, co­me al so­li­to, c’en­tri in qual­che mo­do. Al­lo­ra vuoi ri­spon­der­mi o no? Sei for­se ar­rab­bia­to con me o cos’al­tro?».

    «No! Ci man­che­reb­be. Le chie­do scu­sa. Po­treb­be cor­te­se­men­te

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