Schegge di marmo. Ovvero “il cimento dell’armonia e dell’invenzione”
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L’opera è largamente di origine inventiva, ma non mancano, ben riconoscibili, elementi che fecero parte della realtà storica. Gli Autori, una coppia che scrive sotto pseudonimo, hanno lavorato a quattro mani per produrre questa loro opera prima, che confidano gradevole e stimolante per il lettore.
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Anteprima del libro
Schegge di marmo. Ovvero “il cimento dell’armonia e dell’invenzione” - M. e G. Garnetti
M. e G. Garnetti
Schegge di marmo
Ovvero il cimento dell’armonia e dell’invenzione
Copyright© 2020 Edizioni del Faro
Gruppo Editoriale Tangram Srl
Via dei Casai, 6 – 38123 Trento
www.edizionidelfaro.it
info@edizionidelfaro.it
Prima edizione digitale: aprile 2020
ISBN 978-88-5512-074-6 (Print)
ISBN 978-88-5512-914-5 (ePub)
ISBN 978-88-5512-915-2 (mobi)
In copertina: Foto di Susanne Jutzeler, suju-foto – Pixabay
Il cimento dell’armonia e dell’invenzione
del sottotitolo è il titolo di una raccolta musicale di Antonio Vivaldi
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Il libro
I protagonisti di questa storia, Lorenzo e Aurora, due medici, raccontano come si è sviluppata la loro vita professionale, ospedaliera per alcuni decenni, poi libero professionale. A essa si intrecciano, a un cero punto, la loro relazione personale, nonché le figure e gli eventi più significativi delle rispettive famiglie. Già dall’inizio compare, per poi svilupparsi nel seguito del racconto, una particolare modalità di intendere il rapporto tra di loro e vengono prese come immagini esemplificative i Prigioni di Michelangelo, grandi figure, incomplete, che cercano di liberarsi dal marmo che li imprigiona.
L’opera è largamente di origine inventiva, ma non mancano, ben riconoscibili, elementi che fecero parte della realtà storica. Gli Autori, una coppia che scrive sotto pseudonimo, hanno lavorato a quattro mani per produrre questa loro opera prima, che confidano gradevole e stimolante per il lettore.
Il parto dell’uomo è doloroso,
specialmente quando esso
mette al mondo sé stesso in età adulta.
Stanislaw J. Lec
Dedicato a Jacopo
Schegge di marmo
Ovvero il cimento dell’armonia e dell’invenzione
Prefazione
Il fenomeno tempo scandisce fin dall’inizio la nostra vita individuale e, in contesti più ampi, comprende la dimensione della storia degli uomini e il susseguirsi delle epoche del mondo.
Questa dimensione si è connessa da sempre all’abitudine degli uomini a misurare tutto, quasi che senza misure, e senza i numeri che ne sono la rappresentazione simbolica, ogni cosa risultasse inconoscibile.
Tanto tempo fa
, C’era una volta
erano le frasi con cui iniziavano abitualmente le favole che ci raccontavano da bambini. Questi inizi ci rallegravano perché presentivamo che quello che sarebbe venuto dopo sarebbe stato piacevole, spesso magico e che saremmo stati proiettati nel mondo della fantasia, ma in ogni caso fuori dal tempo misurato.
Ribellarsi al tempo è possibile? Oppure i tentativi di sganciarsi da questo specie di tiranno sono tuttora velleitari o indice di follia? Ci si può chiedere se la forza di questa entità dipenda oltre che dalle sue doti intrinseche anche da qualche alleanza codificata nell’abitudine e pertanto non riconoscibile di primo acchito. Nascosto nell’apparenza dell’ovvio ecco che possiamo individuare un alleato del tempo, appunto il numero, che addirittura lo sostituisce. L’esistenza umana stessa viene schematicamente identificata con la progressiva scansione numerica dell’età anagrafica; inoltre il numero collega e allinea nella successione cronologica avvenimenti e fenomeni di per sé isolati, costituendo un continuum fittizio, ma rassicurante, e rintracciabile con il ricordo. Il ricordo poi, anche se alterato dai meccanismi emotivi e imperfetti della memoria, condiziona nell’individuo una percezione del sé che si mantiene di fondo costante, nonostante i mutamenti soggettivi e oggettivi che si sono succeduti nella sua vita.
Proviamo ora a immaginare l’anno senza numero
: la parola anno identifica pur sempre una frazione di tempo, ma la perdita di metà del suo binomio abituale, il numero, potrebbe farlo sembrare non più come un contenitore di avvenimenti, bensì come un possibile simbolo di qualità non consuete. Inoltre, così concepito, sembra sganciare pensieri e azioni dallo spazio-tempo con cui usualmente ci rapportiamo.
Con un ulteriore passo in avanti potremmo anche giungere a chiamarlo: l’anno analogo
. Scoperto è il richiamo all’interrotto, o meglio non finito, libro di Renè Daumal, Il Monte Analogo
, ove si tratta di una montagna che si sa
che deve esistere
in base a riflessioni filosofico-matematiche, analogiche, esoteriche, e che si rende manifesta solo a egregi (nel senso di ex grege: fuori dal comune modo di pensare) esploratori-alpinisti, che abbiano prima scalato con successo alcune delle impervie guglie del proprio Io. Ma quel monte, dall’apparenza di un rilievo montuoso, pare piuttosto nascondersi dietro metafore e analogie mentali, necessitare di elaborazioni profonde per poter procedere al suo riconoscimento e alla sua graduale conquista cognitiva e alpinistica. Le nozioni geografiche e le tecniche alpinistiche servirono dunque per poter immaginare l’esistenza di una certa forma parageografica, ma procedure di ben altro genere dovettero essere apprese e poste in atto per poterne incontrare l’esistenza e procedere alla scalata.
Così forse l’anno senza numero, si potrebbe continuare a chiamare anno per analogia con il nostro sapere comune, ma la sua entità non avrebbe correlati significativi di durata più di quanto il Monte ne abbia di ghiaccio, di roccia, di rupi.
Pensieri e azioni, che sembrano situate fuori dal tempo, occorrono un certo numero di volte nella vita di ognuno e possono essere interpretati, per così dire, in dimensione di analogia, valutati in termini di valori tali da diventare eventualmente il fulcro e lo scopo di una successiva diversa esistenza. Più spesso invece capita che tali accadimenti non siano interpretati a scopo di possibile superamento di sé, ma ci si contenti di viverli come momenti magici, come una produzione artistica o altro, comunque come qualcosa che diventa altro da sé, che non ci costringe a riconsiderare la nostra conosciuta identità. Così queste intuizioni, questi pensieri, che abbiamo percepito in modo assoluto, coinvolgenti la totalità del nostro essere, ritrovano una collocazione di spazio, di tempo, di memoria, nelle abituali dimensioni, e si banalizzano.
La storia di Aurora e Lorenzo, due persone incontratesi già adulte, li ha portati a dover riconsiderare esperienze e valori individuali dati per acquisiti, a cercarne nuovi e diversi significati, per poter superare volta a volta le forze centrifughe o i blocchi con cui dovettero cimentarsi come coppia.
Oltre all’indagine personale e interpersonale dovettero a volte sottoporre a verifica, previa messa in dubbio, da un lato sapienze di culture diverse, dall’altro realtà fenomeniche routinarie per giungere a dare un senso costruttivo al loro stare insieme, fuori dal tempo misurato, anzi in un tempo analogo
per poter intraprendere modificazioni di sé fuori dalla razionalità, dalla volontà, dalla consapevolezza, per giungere a una coscienza di grado superiore.
Dovettero lavorare
contemporaneamente dentro e fuori, cioè in sé stessi e nella valutazione del mondo, senza dare mai per definitiva alcuna scoperta, alcuna valutazione, alcuna apparente certezza. Per dirla con Michelangelo «Assai acquista chi perdendo impara»: ma ben presto Aurora e Lorenzo si resero conto che il blocco di marmo di cui erano costituiti non era stato che superficialmente scalfito dalle esperienze precedenti, che i dolori subiti e gli errori fatti, pur vedendoli perdenti, non avevano fatto imparare loro granché di definitivo.
Per costruire la loro storia ci vollero dunque coraggio, determinazione, fortuna e tanto, tanto amore.
Lorenzo iniziò a lavorare
Lorenzo iniziò a lavorare come allievo interno al V anno della Facoltà di Medicina in una struttura ospedaliera piuttosto complessa e comprendente un reparto di Neurologia e due reparti di Psichiatria, uomini e donne, sita a qualche decina di chilometri da Torino. L’impatto con il lavoro concreto lo entusiasmò, dopo tanti anni di studio teorico. Si occupò tanto di Neurologia che di Psichiatria, quest’ultima privilegiata per la possibilità di rapporti umani così variati e per le concrete prospettive terapeutiche che offriva, mentre la Neurologia, almeno a quel tempo, era scienza fortemente speculativa e con ridottissime chance terapeutiche.
Lorenzo pativa l’allontanamento dagli amici e dalla città e, nel raro tempo libero si sentiva confinato, come in effetti era, in un borgo emarginato e privo di vita culturale. Con la laurea la sua attività lavorativa si stabilizzò, nel senso di svolgere l’attività neurologica a livello intraospedaliero e quella psichiatrica in ambito extraospedaliero, poiché quest’ultima si era nel frattempo sviluppata a livello territoriale e si articolava nella forma di équipe pluridisciplinare (psicologo, assistente sociale, psichiatra). L’aver terminato gli studi gli aumentava, seppure di poco, il tempo libero che egli passava invariabilmente nella città di origine. Dopo sette anni, il primario decise di trasferirsi a Torino, ove risiedeva la sua famiglia, e offrì a Lorenzo di seguirlo. Lorenzo gioiosamente tornò nella sua città.
L’impatto con un ospedale importante, polispecialistico e con un reparto di Neurologia praticamente da rifondare fu molto soddisfacente. Inoltre in quell’ospedale vi erano allievi interni, frequentatori, specializzandi, scuola infermieri, donde una varietà di impegni professionali e di rapporti umani. Aveva anche ripreso vecchie amicizie e in breve decisamente incrementato la propria attività libero professionale, grazie alla stima di non pochi colleghi del nuovo ospedale e di vecchi compagni di università. Nuvole, a tratti cupe, attraversavano il campo della sua vita privata.
Viveva da solo, e la solitudine gli pesava, anche perché dopo una brevissima e infelice esperienza matrimoniale, aveva deciso di rimanere lui nell’abitazione che era stata comune. Per quanto in parte consapevole di aver commesso errori prematrimoniali e matrimoniali, Lorenzo emotivamente era rimasto turbato, anche se si rendeva conto che la profondità dei suoi sentimenti era stata urtata solo superficialmente. Senza volerlo coscientemente, riempì la solitudine con relazioni femminili superficiali e di breve durata, che di fondo, aumentarono il suo senso di insoddisfazione.
Per un altro verso il suo carattere non più sottoposto alla rigida disciplina e alla arroganza dell’aiuto di neurologia del precedente ospedale, era diventato facilmente aggressivo, anche perché scombussolato da impreviste modalità di comportamento, professionale e umano, del Primario, con cui era stato certo di aver acquisito stima, affetto e una confidenza reciproca a prova di bomba.
Questa aggressività si rivolgeva soprattutto nei confronti di Aurora, allora allieva volontaria nel suo reparto, verso la quale non sentiva a quel tempo interessi di alcun tipo, tormentandola sia da un punto di vista umano che professionale. Ogni mattina, uscendo di casa si riprometteva di comportarsi diversamente, senza poi riuscirci. Lorenzo stesso si chiese poi come mai lei costituisse il suo bersaglio preferito, se non unico, e si rispose che probabilmente era proprio il modo di porsi di Aurora, autonomo, rispettoso delle distanze, per nulla adulante, a stimolarlo negativamente.
Questo modo di essere la distingueva radicalmente dalle altre allieve e dalle numerose psicologhe del reparto, che tendevano in vario modo a essere seduttive e falsamente compiacenti.
Nonostante le dicerie, peraltro, Lorenzo non ebbe alcuna avventura con nessuna di loro.
Fu solo anni dopo che Aurora cominciò a piacergli come donna, sempre di più, forse perché percepì, sia pure confusamente, la sua profonda ricchezza interiore, mascherata in superficie dai suoi atteggiamenti scostanti, mentre da parte di lei raccoglieva quello che aveva seminato: freddezza, antipatia dichiarata, evitamento.
Quando Aurora era arrabbiata, sul lavoro, camminava con il busto lievemente inclinato in avanti, a passo rapido e costante, procedeva per linee rette come su un binario, le iridi schiarite e lampeggianti, le labbra atteggiate quasi a un riso sardonico e la testa protesa, quasi spiccata dal collo, non fosse stata trattenuta dalla pelle e dai muscoli della nuca.
A parlarle, quando era in questo stato, venivano in mente rimembranze dantesche («Stavvi Minos orribilmente e ringhia»)¹ e si riscontrava un suo procedere di ragionamenti sovrapponibile alla postura del cammino: irremovibile e inarrestabile nella sua logica.
All’incauto, che con la massima circospezione avesse esposto idee e ipotesi scostate di qualche millimetro dalle sue, Aurora, rispondendo, lasciava intendere che lei con i menefreghisti o con gli individui compromessi, venduti al regime, non aveva nessuna intenzione di aprire un dialogo né bisogno di confrontarsi.
L’erompere ripetuto di fonemi disneyani di antica memoria, in genere GRRR, annunciava poi fedelmente un suo progressivo e rapido sciogliersi nella apparentemente dolce ma non duttile normalità psicologica, mimica e posturale.
Ovviamente Lorenzo cominciò a trattarla diversamente, con gentilezza, con attenzione, ma i suoi stessi colleghi gli riferivano che questo per lei era un tormento.
Di Aurora gli piaceva tutto: il viso, gli occhi azzurri, i capelli castano-dorati variamente acconciati, e il sorriso così espressivi e di così ingannevole dolcezza, la sua figura per lui sempre più attraente.
Lorenzo interruppe le relazioni che aveva con altre ragazze, smise di frequentare certi ambienti che si compiacevano di rapporti superficiali e cercò di avvicinarsi ad Aurora almeno a livello professionale, ponendosi al suo fianco e trasmettendole, quando se ne presentava l’occasione, alcune esperienze vissute nel suo primo ospedale. Aurora accettò questo dialogo professionale: capitò così che trascorressero da soli un certo numero di ore alla settimana, occupandosi di aspetti diversi della loro specialità. Questo comportava spesso spostamenti da una parte all’altra dell’ospedale, molto sviluppato sul piano orizzontale e dotato di lunghissimi corridoi. Percorrendoli insieme, capitava a Lorenzo, che incominciava ad avere l’animo più sollevato per il diminuito ostracismo di Aurora, di rompere il silenzio canticchiando qualche brano di musica che gli era particolarmente caro. Spesso erano tratti da due composizioni sinfoniche: La grotta di Fingal
, di Mendelssohn e la Leonora III
, di Beethoven. Con gioioso stupore scoprì che non solo Aurora li conosceva, ma che li apprezzava quanto lui.
A livello personale, invece, Lorenzo aveva capito che lei viveva i complimenti all’incontrario, quasi come un’offesa o una diminutio capitis. Lorenzo non aveva conosciuto nessuna persona come lei e neppure che le assomigliasse in qualche modo.
Aurora esprimeva le sue opinioni in modo molto diretto e piantando negli occhi quel suo sguardo, che a volte era difficile sostenere se non si era, nella circostanza specifica, con la coscienza completamente in ordine.
Crescendo molto gradatamente la confidenza, apprese che anche lei aveva avuto una parentesi matrimoniale non soddisfacente perché sorta dalla pulsione di allontanarsi dalla propria famiglia e di vivere una propria indipendenza anche nella nuova famiglia, inoltre aveva sposato il suo primo amore sorto all’età di quindici anni, per cui aveva sbagliato dall’inizio, mentre Lorenzo era in vibrante attesa della sentenza di annullamento del suo matrimonio da parte del Tribunale Ecclesiastico. Tale attesa sembrava non finire mai e si accompagnava, in Lorenzo, al timore di possibili