Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Vangelo pratico: Dalla spiritualità alla fisica quantistica - quando nulla è impossibile
Vangelo pratico: Dalla spiritualità alla fisica quantistica - quando nulla è impossibile
Vangelo pratico: Dalla spiritualità alla fisica quantistica - quando nulla è impossibile
E-book233 pagine3 ore

Vangelo pratico: Dalla spiritualità alla fisica quantistica - quando nulla è impossibile

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

È qualche cosa di immenso prendere il Nuovo Testamento e attualizzarlo per mostrare come renderlo utile alle esigenze di oggi, nell’obiettivo di una vita soddisfacente e felice. Qualcosa di infinitamente più grande può agire attraverso di noi e realizzare anche quanto si crede impossibile.
Il Vangelo non è da capire, ma da praticare. Non come viaggio interiore, ma come accoglienza della verità che è dentro di noi. Finché si compie una ricerca dell’autenticità come qualcosa esterno da sé, non la si trova. Esplorare è fondamentale per ciascuno di noi e questo libro si inscrive perfettamente in tale progetto: mostrare in modo sempre più nitido oltre la superficie. Ciò è attuabile in un percorso che prevede un progresso proposto tramite il Vangelo, strumento radicale e intenso a nostra disposizione, sia materialmente sia culturalmente.
LinguaItaliano
Data di uscita22 giu 2020
ISBN9788863655490
Vangelo pratico: Dalla spiritualità alla fisica quantistica - quando nulla è impossibile

Correlato a Vangelo pratico

Ebook correlati

Corpo, mente e spirito per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Recensioni su Vangelo pratico

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Vangelo pratico - Enzo Comin

    religione.

    PRIMA PARTE

    CONSAPEVOLEZZA

    ESSERE APOCALISSE

    Per orientarsi, potremmo intendere con il termine consapevolezza il percepire la realtà e il modo in cui viene concepita. La reazione cognitiva che un essere senziente ha è direttamente influenzata da come percepisce l’ambiente. Diventa allora fondamentale accorgerci effettivamente di come viene concepita la realtà.

    Nel libro dell’Apocalisse si parla della fine dei tempi e così chi lo legge tende a interpretarla come la fine di tutto, una generale distruzione. Per apocalisse si intende rivelazione: sarebbe più adatto tradurlo come Libro della Rivelazione.

    Non si parla, infatti, della fine del mondo, ma della fine di un tempo, di un’epoca, di una modalità che lascia il posto a un’altra. La rivelazione sarà possibile perché avverrà tramite il ritorno di Cristo. Non si deve però fantasticare che sia come se Cristo arrivasse e ci prendesse uno a uno sottobraccio e a mo’ di un maestro paziente finalmente ci rivelasse come stanno le cose, la verità su tutto. Piuttosto, ognuno di noi deve rivelare la verità agli altri, all’universo. Ognuno di noi deve realizzare nella propria vita Dio e in questo modo manifestarlo agli altri e manifestare il Suo volere. Cosa, appunto, possibile attraverso il Vangelo: ecco il senso del collocare il libro dell’Apocalisse alla conclusione dell’intero percorso del Nuovo Testamento.

    Dio non è quell’uomo barbuto che si vede raffigurato nelle antiche icone, non può fare l’esperienza materiale come fa l’uomo grazie alla vita terrena. Perciò, può fare esperienza attraverso le nostre esperienze, può manifestarsi attraverso l’universo, l’uomo.

    Già da questo si intuisce che si comincia a essere influenzati da una nuova consapevolezza: tutte le scelte che faccio, le faccio anche per Dio. In qualsiasi cosa: se devo fare un’esperienza, la faccio al meglio perché tramite me anche Dio la fa; se bevo un vino, scelgo il più gustoso, perché attraverso la mia bocca anche Dio lo godrà; se vado al ristorante, cerco il più prestigioso, perché quello che mangerò sarà anche quello che Dio mangerà, e così via.

    Può essere che questa considerazione appaia esagerata, però permette di accettare un elemento decisivo nella mia ricerca di Dio: che è un mistero. Oggigiorno è in un certo modo inusuale parlare di misteri in quanto grazie alle nuove tecnologie si può accedere a tutte le conoscenze disponibili: non c’è più spazio per l’ignoto. Avere sempre una risposta, tuttavia, non arricchisce la curiosità ma la infiacchisce perché non permetterebbe lo stimolo che si evolve in una ricerca, un’indagine. Ebbene, Dio, invece, è un mistero ed è incomprensibile. Finora ho giustamente scritto di dedicarsi a conoscere Dio, comprendere è un’altra cosa: un mistero non è comprensibile. C’è un imbroglio da qualche parte quando qualcuno afferma di poter spiegare Dio.

    Dio è incredibile: io posso credere a qualcuno che mi parla, a ciò che recepisco con i sensi e con la mente, addirittura a concetti astratti, ma a Dio non si può credere. È che l’uomo non ha neppure gli strumenti per poterlo fare, si potrebbe affermare che la mente non è strutturata da riuscire ad afferrare pienamente qualcosa come Dio. Si è visto che l’impegno intellettuale può avvicinare enormemente, però presenta dei limiti oltre i quali uno può credere in Dio solamente convincendosene; ma allora sarebbe come convincersi di credere in un personaggio di fantasia, è solo una mera imposizione che uno si fa con la mente. Di conseguenza, è come se fosse frutto di ragionamenti, e Dio non può essere un mistero risolto con un pensiero; altrimenti non sarebbe un mistero ma solo qualcosa di non ancora del tutto venuto allo scoperto.

    Verso Dio, allora, si può solo avere fede, la quale segna la modalità per poter vivere una relazione con qualcosa di misterioso. Avere fede, insomma, è accettare di condividere la vita intera con un mistero che, per qualsiasi cosa si faccia, non sarà mai risolvibile. Non si può credere in un mistero, perché non si può appieno conoscere l’oggetto a cui si dovrebbe credere. La fede stessa è un mistero, perché praticandola ne concretizza il rapporto.

    Ho scritto che seguire il Vangelo permette di conoscere Dio, ma ho anche scritto che per consapevolezza si intende fare l’esperienza della ricerca innanzitutto. E qui si può trarre l’occasione per fare il primo nuovo passo in avanti: quello che si conosce di Dio è che non si può conoscere. Seguire il Vangelo, pertanto, è un tendere costantemente alla conoscenza di Dio, che è quindi un’azione che seppure non comporterà di conoscere Dio in senso stretto, farà essere sempre di più a Lui prossimi e da tutto ciò suggestionati.

    A questo punto, la persona che pratica il Vangelo diventa l’Apocalisse, perché rivela la verità, realizza Dio. Ognuno deve portare l’Apocalisse, non ha senso vivere passivamente. Che finalità avrebbe Dio nell’avermi dato la vita e la possibilità di compartecipare alla sua volontà se, invece, io non faccio nulla? Ovviamente Dio mi ama lo stesso, però è come se andasse sprecata una bella opportunità, da entrambe le parti.

    Si desume che Dio è vivo e fa cooperare gli eventi per degli scopi precisi. Nella tradizione cattolica, infatti, l’uomo viene identificato come co-creatore: è elemento decisivo per l’universo.

    Io non sono Dio, ma attraverso di me Egli può manifestarsi, mettere in forma concreta la Sua volontà. Senza che ce ne rendiamo conto, contribuiamo agli obiettivi di Dio. E contribuiamo così all’Apocalisse; però, quali tempi devono finire esattamente?

    S’intende, logicamente, non di parametri spaziali e temporali precisi. Sono la fine di un mondo non fisico, esistenziale, mentale. La soluzione sta nel Vangelo: la fine di un mondo che si realizza attraverso l’appagamento dell’ego, il personale sforzo di raggiungere quello che si desidera. I comportamenti egoistici sono la formula più efficace per ostacolare il rapporto con Dio; liberandosene, si crea maggiore spazio dentro di sé affinché Dio possa realizzarsi.

    Io immagino le persone come argini di un torrente e l’energia di Dio è l’impeto dell’acqua che ci scorre dentro. Ogni qualvolta mi convinco che sono io l’autore dei miei successi, che la mia volontà è ciò verso cui devo far tendere tutti i miei sforzi, questo canale si interrompe. È come se il mio ego vada a ostruire questo collegamento: più viene alimentato il primo e meno ha respiro il secondo. Però vale anche viceversa.

    Per come la società ci abitua, è difficile ai giorni nostri contemplare che sia un limite il voler realizzare la propria volontà. Concretizzare i sogni è la massima soddisfazione, viene visto come missione in questa vita perché assicurerebbe la felicità. Si può davvero affermare che chi ha realizzato i propri sogni sia anche felice?

    Quand’ero giovane, il mio obiettivo era diventare un grande artista, eppure so che ci sono grandi artisti che non sono affatto felici. Uno può individuare come felicità l’avere una posizione o una macchina di lusso o poter vivere senza lavorare, ma questo vorrebbe dire che chi ha ottenuto queste cose sia anche felice. Pure dal punto di vista statistico è impossibile: ci sarà sicuramente qualcuno che ha una posizione nella vita e non è felice, uno che ha un’auto di lusso e non è felice, uno che è sempre in vacanza e non è felice. Se tu pensi che, invece, ottenendo quello che vuoi sarai invece felice, allora, nuovamente a livello probabilistico, non stai affidandoti a una formula vincente ma all’azzardo. Per converso, se si è convinti che un oggetto della realtà percepibile porta la felicità non appena lo si raggiunge, allora vorrebbe dire che chiunque raggiunga quell’oggetto abbia anche una vita felice… e non è così.

    Io non sogno più di diventare un grande artista e sono felice. Non sto consigliando di essere senza desideri, ma che avere come unico desiderio il realizzare la volontà di Dio fa conseguire la felicità. L’essenziale è rendersi conto che qualsiasi cosa si possa ottenere nella realtà percepibile non può portare felicità se non in modo transitorio; proprio perché la transitorietà è la caratteristica di questa realtà. Invece, nello spirituale si può accedere alla felicità che è permanente; io parlo del Dio cristiano perché è quello che trattiamo, ma ciò avviene anche a chi non è cristiano, non è credente. Non ho mai incontrato nessuno che abbia trovato la fede in Dio e che non sia felice.

    Lo spiego ancora facendo, per adesso, principale uso dell’intelletto con questo ragionamento: è possibile desiderare qualcosa che non si conosce ancora? No, non lo è, perché se una cosa non la si conosce ancora non si sa neppure che esiste. Quindi, tutto ciò che una persona è in grado di desiderare ha esclusivamente a che fare con il proprio passato: si può volere solo quello che si conosce, non si può volere qualcosa di cui si ignora l’esistenza. Pertanto, attingendo al passato non è possibile modificare il proprio futuro perché si sta semplicemente desiderando qualcosa che ha creato le condizioni attuali, cioè quelle che si vorrebbero cambiare. Affidarsi invece alla volontà di Dio, significa accettare di vivere qualcosa che non abbiamo programmato, di imprevedibile, un salto nel vuoto, un’avventura.

    Accettare il mistero, ripeto, è il primo passo del viaggio verso la consapevolezza. Un salto nel vuoto fa paura e questo è il motivo per cui spesso ci si accomoda a sostenere che bisogna piuttosto vivere tenendo tutto sotto controllo. Ma la vita non è un momento a cui stare attenti.

    IGNORARE SPONTANEAMENTE LA REALTÀ

    Nella prima tappa del nostro viaggio, abbiamo compreso l’urgenza di intraprendere una ricerca, quindi dobbiamo dare una risposta a una domanda che sorge spontanea: come si fa a capire qual è la volontà di Dio? Possiamo farlo cercando di individuare cosa è la nostra volontà, innanzitutto. Quando la si riconosce, la si può silenziare e accorgerci quindi di cosa rimane.

    Dio non è un concetto ma è ogni cosa, supporre che Dio non comunichi con l’universo o che l’uomo qualunque non può percepirlo sarebbe come affermare che un organo di un corpo non sia raggiunto dall’eco del battito cardiaco.

    Se circoscriviamo l’individuazione della propria volontà alla sola esperienza della mente, quindi espressa con dei pensieri, ci accorgiamo che questi sono egoistici. Sono, cioè, finalizzati a soddisfare l’ego: poter primeggiare sugli altri, rivalersi su qualcuno, essere a ogni sfida il vincente; oppure, invece, avere una bassa stima che ci impedisce di fare quanto vorremmo veramente, sentirci in obbligo verso gli altri. Comunque sia, il fine è sempre attirare l’attenzione altrui.

    Se un individuo nella sua infanzia ha riscontrato che le persone attorno a lui gli davano attenzione e affetto in situazioni pietose e disagiate, il suo successo sarà inconsciamente l’ottenere insuccesso, seppure brama come tutti benessere e ricchezza.

    Come già sostenuto, il passato non permette di risolvere situazioni del presente, quindi, piuttosto che indagare sull’origine di simili attitudini, sarebbe conveniente domandarsi cosa oggi imparo dalle mie scelte. La psicoanalisi è indispensabile quando una persona vuole portare alla luce le esperienze sepolte nel proprio inconscio, però qui stiamo riferendoci a un imparare come concepiamo la realtà a seconda di come reagiamo, nella realtà (che è presente).

    Grossolanamente, si potrebbe affermare che un’opinione assoluta sulla realtà non esiste, visto che ognuno percepisce in modo diverso e prova ne è il fatto che mostriamo reazioni in modi vari. Da un punto di vista obiettivo, quello che i nostri sensi percepiscono è concretamente reale, ma quello che cambia per ciascuno è la cognizione che si ha di quanto è percepito. Non solo a riguardo dei fatti che si vivono, ma pure degli oggetti che ci circondano. Gli oggetti sono composti da atomi e circa il 99 per cento di ciascun atomo in realtà è un vuoto costituito dallo spazio che intercorre tra i vari componenti che formano la particella; se si immagina l’atomo come un sistema solare, già si visualizza questo spazio come, ad esempio, l’immenso vuoto tra i vari pianeti o tra un pianeta e il Sole. Soltanto l’1 per cento restante è quello che l’essere umano percepisce di ogni oggetto, chiamato materia, e oggi si sa dalla fisica che è anche in una vibrazione continua. Eppure noi abbiamo la sicurezza che gli oggetti stanno immobili e compatti nelle nostre mani. Ciò è una convenzione, ed è uno strumento, un espediente che fruiamo per poter fare esperienze. Ma posticcio.

    La vera realtà sta sotto questa illusione quindi, al di sopra si ferma la convenzione e anche la nostra volontà.

    Pure in ciò si trova spiegazione del filo conduttore intuibile nel Nuovo Testamento, dell’essere tutti un’unica cosa, un’unica sostanza: noi consideriamo, e quindi ne abbiamo la cognizione, che ogni cosa sia distinta, invece tutto è dipendente. Questa è una convenzione utile a poterci capire l’un con l’altro e fare esperienze in questa realtà materiale. Così, la sedia sulla quale sei seduto la chiamiamo sedia come se fosse un oggetto individuabile e distinto da tutto il resto ma in verità è un aggregato di innumerevoli parti che per capirsi ci si è abituati a chiamare con un termine preciso. Quella stessa sedia, ad esempio, per un insetto equivale a un ostacolo titanico e, se potesse comunicare, anche la definizione che ne darebbe sarebbe appropriata a questa percezione. Quell’insetto non avrebbe neppure tutti i torti dato che quella sedia è costituita dagli atomi di alberi che pure per noi uomini sono ostacoli enormi. Inoltre, quegli alberi sono anche costituiti dall’energia solare che ha alimentato il bosco e anche dal boscaiolo che ha abbattuto quegli alberi e la falegnameria che ne ha tagliato le varie parti. C’è stato anche chi ha costruito i differenti elementi della sedia, ma non solo: quella sedia è fatta anche dai genitori del boscaiolo che lo hanno generato e dal grano che è servito per produrre il pane che ha alimentato quella famiglia. Si può continuare ancora per molto a trovare quanti collegamenti e interdipendenze ci sono fra elementi che appaiono distinti. Quella sedia, pertanto, è un aggregato di svariati elementi che sono poi stati uniti in un oggetto che esiste realmente (la stiamo usando per stare seduti a leggere questo libro) ma non è in realtà effettivamente distinta dal resto dell’universo.

    Non si può logicamente chiamare la sedia come un aggregato di molteplici elementi sul quale ci si può sedere o magari elencarli uno a uno, così per praticità ha un unico nome: sedia. Allora un oggetto che viene chiamato in un modo diventa quel nome, cioè l’oggetto che chiamiamo sedia per facilità, poi diventa semplicemente sedia; ma non è una sedia, la sedia non esiste. È un aggregato di innumerevoli elementi che decidiamo di considerare separatamente dalla totalità per via di una caratteristica che scopriamo che possiede: ci si può sedere. Però, è una cosa che si distingue solo per il nome; e per fortuna, perché non è che ci si potrebbe capire se chiamassimo tutte le cose con lo stesso nome, ad esempio: oggetto. Ma è solo un espediente: se si va a Londra, nessuno capisce se si chiede una sedia, se si dice chair, la stessa parola ma in inglese, invece sì.

    Ulteriormente, la riflessione sulla convenzione della realtà si può allora estendere se si considera lo stesso esito per gli oggetti mentali come i pensieri, le emozioni, le idee. Non c’è alcuna differenza. Nella mia interezza (percepibile) ho un nome ma io non sono quel nome, sono un insieme di aggregati che per facilità definiremo: mente, corpo e anima. Il modo in cui sono stato chiamato è una convenzione proprio come è stato per la sedia.

    Il vivere senza una completa consapevolezza della profonda natura di un oggetto e di se stessi è quello che viene definito, a detta sia del Nuovo Testamento che di molti altri maestri, come ignoranza. Ovviamente si intende nel significato proprio di ignorare la totale verità sulle cose, è ignoranza spontanea infatti.

    Il primo passaggio fondamentale è la consapevolezza perché è la modalità per uscire dall’ignoranza. E prendere coscienza di ignorare la realtà ultima delle cose è già un generatore di consapevolezza. Il motivo è dipeso anche dal rendersi conto, di conseguenza, che non sono veri, ma finti, i propri sforzi per primeggiare sugli altri come le sofferenze, i desideri come la loro realizzazione o meno.

    Questo non significa affatto che l’uomo basa le proprie scelte, vive la vita intera su qualcosa di imprendibile, non rilevabile, come se agisse avvolto nell’oscurità. Semmai, rivela che i segnali convenzionali che sono a disposizione per condurre un viaggio sono solo dei segnali convenzionali e non il viaggio vero. Io stesso sto usando ora dei codici che tu, lettore, fruisci per poter ricevere il contenuto del mio discorso, ma quei codici sono solo degli strumenti, degli espedienti e non il contenuto.

    In queste pagine si legge di come non sottostare alla propria volontà, tuttavia quanto scritto non sta a significare che l’individuo deve campare senza volontà, come un morto vivente. Le dinamiche sono esattamente l’opposto: è nello sforzo di realizzare i propri desideri che l’uomo è come morto, non vive veramente perché è impegnato in un’impresa vana. Questo non vuol dire che non ci sia al mondo nessuno felice a seguito della concretizzazione dei propri desideri, ma in fondo anche lui sarà preoccupato; ad esempio, di perdere quanto ha

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1