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La cura del tempo
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E-book162 pagine2 ore

La cura del tempo

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Info su questo ebook

La cura del tempo: Il tempo quanto può cambiare una persona? Quanto può inuire sulle sue idee e sulle sue scelte? Ma soprattutto, quanto può cambiare le sue priorità? È a queste domande che risponde il protagonista del romanzo, un fotografo del National Geographic che per tutta la vita ha messo il suo lavoro davanti a ogni altra cosa. Un viaggio introspettivo che parte da lontano, che tocca molte vite, che scava nell'intimità con l'imparzialità dell'età adulta. Un percorso a ritroso nella memoria di chi è finalmente disposto a mettere in discussione le scelte fatte e a riconoscere gli errori commessi. Un resoconto a cose fatte, di chi è invecchiato con coerenza sudando ogni cambiamento, ma che è consapevole di aver lasciato andare avanti la propria vita per inerzia, senza la volontà di imprimerle una direzione precisa. Una vita ricca di avventura che però gli ha fatto perdere tanto... 
LinguaItaliano
Data di uscita31 mar 2020
ISBN9788830620056
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    Anteprima del libro

    La cura del tempo - Christian Barsi

    barsi_piatto.jpg

    Christian Barsi

    La cura del tempo

    Albatros

    Nuove Voci

    Ebook

    © 2020 Gruppo Albatros Il Filo S.r.l. | Roma

    www.gruppoalbatros.com

    ISBN 978-88-306-2005-6

    I edizione elettronica marzo 2020

    "Vivere come volare

    ci si può riuscire soltanto poggiando su cose leggere…"

    (Brunori Sas)

    "Sai che chi si ferma è perduto

    ma si perde tutto chi non si ferma mai..."

    (Niccolò Fabi)

    Ai miei genitori,

    i miei colori su una tela bianca.

    PROLOGO

    Manu National Park (Perù), 22 gennaio 2019

    Stringo il pugno, poi lentamente rilascio. La terra rossa scivola dalle mie dita come se fosse una clessidra. L’aria è calda, la maglietta è sudata e appiccicata alla mia schiena. Questa terra rossa sotto le mie suole contrasta con tutto questo verde intorno.

    Da qui si gode una vista meravigliosa, il cielo è terso, ma all’orizzonte si intravedono nuvole cariche di pioggia. Cerco di ritagliarmi un po’ di solitudine per godere appieno questo momento ma non è poi così difficile, siamo solo in tre in questo aeroporto improvvisato sopra le montagne.

    Sono seduto sulla mia sacca in attesa di un piccolo bimotore che mi riporti a Cusco. Sono stanco e spossato dal viaggio, ma soffia una leggera brezza che rende quasi piacevole stare al sole. I miei anni si sentono tutti in momenti come questi, è una triste ammissione che faccio in silenzio.

    Il viaggio per arrivare fin qui è stato lungo e faticoso, abbiamo camminato tre ore nella foresta dopo averne fatte altrettante in barca lungo il fiume. Questo panorama è la mia giusta ricompensa.

    Di solito sono impaziente di tornare a casa, ogni piccolo ritardo o contrattempo mi infastidisce, ma questa volta è diverso, l’attesa è cosa gradita.

    Sto rivivendo dentro di me ciò che ho visto e provato in questi giorni. Ma non solo, vado anche un po’ più indietro, perché so benissimo che sarà una delle ultime volte che vivrò emozioni del genere.

    Tante volte mi sono ritrovato in posti lontani e sperduti del mondo, ormai non è una novità, ma ci sono volte in cui provo un senso di piacevole abbandono, come se mi fossi allontanato dal mondo per un istante e non ne facessi più parte.

    Mi presento, mi chiamo Riccardo Bonanomi, ho quarantadue anni e sono un fotografo per la rivista National Geographic. Forse sarebbe meglio dire ero: questo sarà il mio ultimo servizio, ho deciso di smettere. Più precisamente di cambiare ruolo, tra qualche settimana mi reinventerò dietro una scrivania, ci proverò per lo meno.

    Tre mesi fa ho ricevuto una proposta interessante dalla rivista Life e dopo non pochi ripensamenti ho deciso di accettare. Prima di arrivare a questa decisione ci sono volute molte notti insonni nelle quali ho dovuto gestire un’altalena di emozioni contrastanti. Ho pensato molto a tutto ciò che ho fatto nella mia vita, mi sono posto tutte quelle domande scomode che avevo sempre accuratamente evitato per non rischiare di guardare in faccia la realtà, poi il responso è arrivato.

    Non andrò più in giro per il mondo, ma dirigerò il tutto da dietro una scrivania. La prospettiva di un cambiamento di vita così radicale mi spaventa, ma non sono più un ragazzino e credo sia giusto cedere il passo ai più giovani.

    Sono felice? Non l’ho ancora capito. È la scelta giusta? Credo di sì.

    Ho amato questo lavoro più di ogni altra cosa, persino più di mia moglie. Non stupisce che il nostro matrimonio sia naufragato miseramente in un mare di incomprensioni. Ho sempre dedicato anima e corpo al mio lavoro ma negli ultimi anni, dopo averne vissuti venti freneticamente, ho cominciato ad accusare stanchezza, a percepire il desiderio di altro: voglia di serenità, di un libro e un camino acceso, di progetti a lungo termine, stabilità.

    Io una famiglia ce l’ho già, ma queste sensazioni non le ho mai provate prima, sono sempre stato di corsa. Vanessa sapeva bene lo stile di vita che conducevo quando mi ha sposato, ma non ha mai cercato di fermarmi o di cambiarmi. Per questo l’ho amata tanto, più che ho potuto.

    Ma il richiamo della fotografia e dell’avventura, unite alla mia innata attitudine a ricercare continuamente emozioni nuove, mi ha sempre spinto altrove, lontano da casa.

    La verità è che nella frenesia della mia vita ho sempre trovato la mia quiete. O almeno è quello che mi sono sempre raccontato. Non sono mai stato un marito perfetto e purtroppo neanche un padre modello, ma queste mancanze erano dettate dalla distanza, non da altro.

    Con Luca, mio figlio, in parte sono riuscito a recuperare con i miei racconti e le mie storie, tutti i bambini in fondo sognano un papà esploratore e avventuriero.

    Con Vanessa è stato diverso, mentre all’inizio era affascinata dai miei viaggi (e forse hanno contribuito anche loro a farla innamorare di me), col tempo ha finito per non chiedermi più nulla e a stancarsi della mia assenza. Mi ha anche tradito, l’ho scoperto e ci sono passato sopra. Il perché non lo so nemmeno io, forse mi sentivo in colpa per tutto quel tempo lontano da casa ed ho finito per giustificarla.

    Io e Vanessa siamo sempre state due persone indipendenti, abbiamo sempre saputo chi eravamo e cosa volevamo dalla vita, ma non cosa fossimo insieme, non siamo riusciti ad andare oltre le nostre unicità. Dopo i primi anni idilliaci in giro per il mondo sono cominciate le difficoltà, il suo stile di vita è cambiato mentre il mio è rimasto lo stesso, inutile dire che fossero poco conciliabili tra loro.

    Certo, venire a conoscenza del suo tradimento è stato un duro colpo, ho sofferto parecchio, tante volte in posti sperduti del mondo mi sono chiesto che cosa ci facessi lì e perché non fossi a casa con la mia famiglia. Poi l’amore per la fotografia, la sete di conoscenza e la voglia di vedere il mondo mi hanno sempre portato altrove.

    Adesso, per esempio, mi trovo in un posto sperduto al confine tra Brasile e Perù, ho vissuto un’intera settimana nella foresta amazzonica insieme a una tribù che non ha mai avuto contatti con il resto della civiltà. Non avete idea di quanto sia lunga una settimana in queste condizioni, è come essere catapultato all’età della pietra in un attimo. Con me solo qualche vestito, il satellitare e la macchina fotografica.

    Non siamo più abituati a vivere così, con questo non voglio dire che sia una vita infelice, tutt’altro, ma è ormai diventato impossibile privarsi volontariamente di tutte le nostre comodità. Rimane comunque il ragionevole dubbio che la società ci abbia inculcato modelli di felicità poco veritieri.

    Miguel mi desta dai pensieri, con un inglese stentato mi dice che l’aereo arriverà in ritardo perché appena partito da Cusco. Non c’è problema gli dico, oggi questo ritardo è persino gradito.

    È arrivato il momento di fare un po’ d’ordine nei miei pensieri e di mettere su carta i miei nuovi progetti. Andrò a San Francisco, preparerò il mio ultimo servizio, poi tornerò in Italia, mi occuperò della vendita della casa dei miei genitori e penserò al mio futuro.

    Non ho perso la voglia di fare, ma in questa fase della mia vita ho bisogno di cose diverse, di una dimensione nuova nella quale ritrovarmi. Ora vi racconto la mia storia, vi racconto chi sono.

    CAPITOLO 1.

    La mia ultima avventura

    È successo tutto nel giro di pochi giorni, come sempre accade nel mio lavoro.

    Due settimane fa nella foresta amazzonica un gruppo di viaggiatori si imbatte accidentalmente in una popolazione non ancora entrata in contatto con la civiltà, il video viene pubblicato sui social e desta ovviamente curiosità e clamore.

    Nel video i turisti che si trovavano lungo il fiume Manu discutono tra loro se sia il caso di avvicinarsi o fuggire mentre qualcuno cerca addirittura di stabilire un contatto con i locali.

    Gli aborigeni sembrano spaventati, alcuni brandiscono archi e frecce, uno di loro si prepara addirittura a colpire l’imbarcazione. Vista la reazione non proprio ospitale, i turisti si allontanano velocemente con le loro barche a motore.

    Dopo giornate frenetiche a studiare la veridicità della fonte, sono partito. La mia vita è sempre stata così negli ultimi vent’anni, ogni giorno non sapevo dove sarei stato il successivo. È un’emozione continua, ma a lungo andare logora.

    Mio figlio mi vede come un eroe, ma siamo distanti. Ha quattordici anni e mi vede come un Indiana Jones dei nostri tempi. Un po’ mi fa ridere, un po’ mi rende orgoglioso.

    Raccontargli le mie esperienze è uno dei nostri passatempi preferiti, ma questo non fa di noi una famiglia riuscita, lo leggo nei suoi occhi ogni volta che parto per l’ennesimo viaggio. Un padre deve essere presente, io non ci sono mai stato. La verità è questa, nuda e cruda.

    Mi fa male avere un rapporto superficiale con lui, soprattutto ripensando a quanto abbia contato mio padre in tutte le mie scelte.

    Ho sacrificato molto della mia vita privata per il lavoro, forse troppo. Ma questo lo dico adesso, a distanza di anni. Un tempo ero in corsa e correvo, pensavo fosse la cosa più giusta da fare, credevo sarei riuscito a far coesistere ogni aspetto della mia vita senza far mancare nulla alle persone a cui volevo bene. Col tempo ho capito che l’assenza non è una buona alleata, cercavo di recuperare quando ero presente, ma non poteva bastare. Magari all’inizio, poi l’assenza è diventata dimenticanza.

    I sentimenti vanno coltivati e protetti ogni giorno, la tecnologia può diventare un valido aiuto per chi fa lavori come il mio, ma non potrà mai sostituire un bacio o un abbraccio.

    In questi giorni fuori dal mondo ho avuto modo di pensare parecchio. È una cosa che non facciamo più, appena abbiamo un minuto libero lo occupiamo con il nostro smartphone, non diamo valore al tempo libero che abbiamo, cerchiamo di accorciare le distanze grazie ai social network senza renderci conto che stiamo aumentando quelle dentro di noi.

    Ho pensato molto alla mia vita, alle esperienze che ho fatto, alle soddisfazioni che mi ha dato il mio lavoro ma anche a quello di cui mi ha privato. Se metto tutto sulla bilancia non riesco ancora a capire da che parte penda.

    Ho visto tante di quelle cose da riempire due vite, ma sono stati tagliati fuori gli affetti, il vero motore del mondo. Avere un figlio non fa di te un genitore se non l’hai visto crescere, cambiare, maturare e prendere il volo verso la sua vita da adulto. Sei stato semplicemente uno spettatore assente o distratto nella maggior parte dei casi.

    Mi sono accorto con colpevole ritardo di aver commesso tanti errori. Quando ho capito che non sarei mai riuscito a far coesistere lavoro e famiglia, non ho fatto nulla per cambiare le cose. Ho solo preso atto del mio fallimento, fuori tempo massimo oltretutto, quando non c’era più niente da perdere.

    Non ho mai avuto una vita normale, non ho mai fatto l’impiegato d’ufficio, non so cosa voglia dire timbrare il cartellino, andare a fare la spesa e tornare a casa la sera dalla propria famiglia. Io questa vita non l’ho mai fatta. Ne ho fatta un’altra, sicuramente più avventurosa ma decisamente più impegnativa.

    Quando sono partito, il solo pensiero di dover vivere una settimana nella giungla mi terrorizzava. I primi giorni sono stati molto complicati, poi è stato bello capire che gli aborigeni non volevano farci del male e vedere che avevano imparato ad accettarci come amici.

    Dopo una serie di approcci iniziali prudenti, e grazie alla mediazione di due interpreti che conoscono il dialetto Tano-Pakana usato dagli indigeni, sono riuscito a fare qualche fotografia nel loro villaggio.

    José è cauto nel parlare e nel muoversi, io e Miguel non facciamo un movimento senza un suo cenno preventivo. Questi indigeni non sembrano aggressivi ma brandiscono coltelli, archi e frecce. Meglio non rischiare, morire durante il mio ultimo servizio venderebbe sicuramente molte copie, ma vorrei tornare a casa e raccontare quest’ultima avventura a mio figlio.

    Questa tribù vive in piccole capanne di legno e paglia, è costituita da poche decine di persone, si tratta di guerrieri forti e in buona salute, hanno il corpo completamente dipinto di rosso, gesticolano in modo assolutamente

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