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Dove finisce il mare
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E-book337 pagine4 ore

Dove finisce il mare

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Info su questo ebook

Una storia dei nostri giorni imperniata sulla mafia siciliana. Un ragazzo che, per riconquistarsi il diritto alla vita, sfida un potente mafioso.

Si ripete la storia di Davide e Golia ma la fionda in mano al protagonista è fatta di intrighi, sotterfugi, azione e molta intelligenza.

Il ritmo si alterna tra quotidianità, dipinta dai tipici tratti della superficialità giovanile, e riflessioni interiori e sociali di spessore. Sebbene la storia sia un continuo susseguirsi di colpi di scena, resta l’uomo, solo e alla ricerca di se stesso, consapevole che il male si potrà sconfiggere solo da una consapevolezza e maturazione interiori.

Sullo sfondo i grandi valori della vita quali l’amicizia, l’amore e soprattutto il rispetto di se stessi.

L’obiettivo è ambizioso ma l’umorismo, intriso di sana ironia, accompagna trasversalmente il romanzo tale da rendere godibile la lettura; questa almeno è l’opinione di mia moglie!

Tengo a sottolineare che la storia è un pretesto per investigare l’animo umano tra passioni e virtù, odio e amore, nel tentativo di dare una risposta ai tanti perché della vita.
LinguaItaliano
Data di uscita23 feb 2014
ISBN9788868857189
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    Anteprima del libro

    Dove finisce il mare - Claudio Marinucci

    Lei si muove al ritmo della musica
    assordante di una discoteca, come nelle
    sequenze di un film, con movenze sinuose,
    labbra dischiuse, occhi che svelano
    e nascondono.
    Moderna sirena ammaliatrice
    al cui irresistibile richiamo il protagonista
    del romanzo, come un moderno Ulisse,
    non potrà sottrarsi.
    Una sottile malia che
    trasformerà totalmente la sua vita.
    Atmosfere di allucinante tensione, situazioni
    dipinte a tinte forti, narrate con stile
    asciutto, incisivo, a tratti sincopato, che
    improvvisamente rallenta per indulgere
    nell’analisi psicologica, aprendosi a
    considerazioni filosofiche, sciogliendosi in
    dolci e accorati singhiozzi dell’anima.
    Il tutto ben congegnato per scandire
    il ritmo stesso del fluire della trama.
    Avvincente, dai risvolti inquietanti, sfocia
    nella creazione di una situazione
    impossibile la cui soluzione è, per il
    narratore e per il personaggio,
    una sfida di intelligenza.

    ..

    Claudio Marinucci

    Dove finisce il mare

    ..

    Dove finisce il mare

    A mia moglie Lella
    che mi ha sopportato, ascoltato e consigliato
    A Cinzia
    Che mi ha regalato l’appassionata presentazione

    .

    Capitolo 1

    Gli angeli esistono veramente! Le mancano solo le ali; forse è in incognito per conto del Padre eterno per saperne di più su queste discoteche piene di merda bianca dove l’unico scopo sembra essere quello di friggersi il cervello. Un’infiltrata deve conoscere bene il nemico e lei sembra essere nata per ballare, nessuno potrebbe sospettare di una creatura così dolce. Caspita come si muove, se continuo a guardarla ancora mi esploderanno gli occhi fuori dalle orbite.

    Lascio che la musica mi attraversi il cervello, le luci mi scivolino addosso e tutta la gente scompaia. Le mie difese di resistenza corporea si stanno dissolvendo e non vedo altro che lei; le sue movenze esercitano un’attrazione totale sui miei sensi e, oltre i sensi, è come se la mia anima si sia sintonizzata con la sua … è veramente fantastica!

    «Ehi Antò! Antonio… Antonio! Ma quanti bicchieri ti sei bevuto? Hai l’aria schizzata come un cammello! Ma che minchia stai fissando? Antonio!».

    Sono nuovamente a sedere su un divanetto con un bicchiere in mano. Tra me e lei, ritorna una musica assordante e riempie il vuoto che tutti questi sfigati amplificano con le loro esistenze piene di niente: aspiranti zombi nell’affannosa ricerca di sembrare umani con sogni mancati da realizzare, ambizioni e obiettivi che si spengono nuovamente e lentamente ad ogni nuova sniffata.

    Io non respiro quella merda. Un giorno gliela farò vedere io a questi cervelli pieni di concime: un’officina meccanica tutta mia, almeno cinquecento metri di coperto, non meno di sei aree attrezzate con ponte di sollevamento, elefante aspira-fumi e carrelli attrezzi zeppi di utensili e poi un parcheggio esterno per almeno cento auto, un vero sballo; verranno a vederla da tutta la Sicilia, da tutta Italia.

    Una mano distoglie la mia attenzione e interrompe la magia tra me e l’angelo divino.

    Quell’agitare è tipico di Beppe, sta urlando il mio nome: ma cosa vuole? Giro la testa e lo guardo negli occhi:

    «Ehi Beppe, ma chi è quella?».

    Ottenuta la mia attenzione Beppe rincorre il mio sguardo e si lancia con gli occhi alla ricerca dell’angelo come un felino, E’ proprio vero che gli angeli esistono ma non tutti riescono a vederli. La conversione tocca l’anima di pochi e Beppe o non è stato toccato dal divino o è un essere spregevole senz’anima. Non mi resta che indirizzarlo:

    «Bestia! Ma dove cazzo guardi; lì, dopo quella rossa che salta come una scimmia, quella con il top bianco che balla che è una favola».

    Beppe, a mo’ di periscopio allunga il collo e, comincia a scandagliare la massa caotica di corpi che riempie la pista. Ad un tratto si gira verso di me con gli occhi visibilmente spiritati:

    «Quella col top bianco?».

    «Sì!».

    «Con quella mini … mini mini?».

    «Sì!».

    «Bianca anche quella?».

    «Sì!».

    «Ma chi dici quella mora con i capelli lunghi; quel pezzo di figliola col fisico da modella?».

    «Sì», rispondo, «proprio lei!».

    «Ma tu sei scemo o ti sei bevuto anche la bottiglia, tappo compreso?».

    «Ho bevuto solo un paio di bicchieri e poi dovrei puntare le befane, secondo te?».

    Beppe non sembra scherzare come suo solito. Mi piace stare al gioco e ribattergli stronzata su stronzata. Sebbene il copione sembra lo stesso di tante altre volte, il suo modo di parlare è diverso, sembra serio, quasi intimorito.

    Ma Beppe incalza:

    «Ma ti rendi conto di chi stiamo parlando?».

    «Se la conoscevo non perdevo tempo a chiederlo a un cretino come te».

    «Il cretino sei tu. Senti, questo è un consiglio gratis: dimenticala, quella non esiste».

    «Lo so, non è di questo mondo, è un angelo. Non vedi che sogno di ragazza?».

    «Antonio, stammi a sentire, ha rovinato più persone lei che la borsa dopo l’11 settembre. Ma veramente non sai chi è?».

    Guardavo Beppe come se si fosse fumato un baobab e ormai gli stavo ridendo in faccia cercando di troncare il batti e ribatti; mi stavo stufando. A questo punto volevo sapere il suo nome e Beppe sembra essere informato:

    «E’ la figlia di Achille Licata. Il grande imprenditore edile. E’ un tipo dalle mille attività, le più sono illecite. Non credo che sia un affiliato della mafia, la mafia è Achille Licata. E’ riuscito a farla franca a più di una dozzina di rinvii a giudizio e processi, anche per omicidio! Tutte le opere pubbliche, e non, sono passate e passano per le sue mani. La Sicilia intera paga il pizzo ad Achille Licata. La neve, le puttane, gli appalti, quello che mangi e perfino l’officina di don Salvatore dove lavori ingrassano quel maiale di …».

    «Ti ho chiesto come si chiama la figlia! Non ho nessuna intenzione di conoscere suo padre».

    Beppe a questo punto mi fa cenno di fargli posto, si siede accanto a me, si guarda attorno con circospezione e nel tentativo di raccogliere tutte le sue idee per una efficace opera di persuasione mi fissa dritto negli occhi:

    «Li vedi quei tipi laggiù?».

    Non alza il dito per indicare, strabuzza impercettibilmente gli occhi verso il lato destro del locale.

    Tre divanetti e un tavolino con quattro persone a sedere. Sembrano forestieri ma non lo sono. Solo uno dei quattro sembra avere la stessa età della fauna che frequenta il locale; gli altri vanno dai quaranta ai cinquanta. Vestono bene, ben curati e uno non molla mai lo sguardo dal mio angelo.

    «Quelli sono le guardie del corpo della tua fatina».

    Si insinua la voce di Beppe.

    «Se qualcuno si azzarda a guardarla per più di tre secondi o, ancora peggio, la sfiora con un dito, si alzano, prendono il qualcuno di turno e lo battono come lo zerbino dell’Hilton per le pulizie di primavera. Ti ricordi che due settimane fa Mario, il nipote di Rosalina la fornaia, è finito all’ospedale? Quattro costole rotte, setto nasale da rifare, il femore a pezzi e il dentista dovrà lavorarci per almeno un anno nella sua bocca che, al posto dei denti, ha rimasto un frullato tra gengive, smalto e vecchie carie. Beh, in questi casi interviene la polizia per appurare cosa sia successo e vuoi sapere cosa ha balbettato il nostro povero Mario alle forze dell’ordine? … Ma lo sai cosa ha detto? … Lo riesci ad immaginare come ha giustificato quella specie di carro armato che gli è passato sulle ossa? …».

    «Allora? La vuoi tirare ancora per molto? Dimmi cosa ha detto e facciamola finita!».

    A distogliere Beppe non era servita neanche quella cavalla di razza della cubista che nel tentativo di guadagnarsi il bar, durante la pausa, aveva quasi stampato una chiappa sulla sua guancia.

    Mi gusto il paradosso di singolare indifferenza mostrato dal mio amico. In qualsiasi altra occasione Beppe si sarebbe lasciato cadere verso il morbido contatto per poi tentare un patetico quanto improbabile approccio. Ci conosciamo da una vita, l’infanzia per la strada, le stesse scuole, gli stessi amori, le liti furibonde per poi riconoscere che l’amicizia non può non sopravvivere ad ogni cosa, anche al suo carattere primitivo e istintivo con quell’unica passione carnale verso l’altro sesso che esalta la sua timidezza e tenerezza d’animo. Il suo motto da 18 a 98 non si concilia con la situazione.

    «Sono scivolato!».

    «Cosa hai detto Beppe?».

    «Mario ha liquidato con un semplice sono scivolato quel disastro che gli è capitato. Capisci cosa intendo? Oltre ad averlo pestato devono avergli fatto capire che la faccenda doveva finire li se non voleva guai peggiori».

    «Ma forse è scivolato davvero! Cosa ti fa pensare che siano stati quei tipi laggiù?».

    «Due settimane fa la bambina era qui e Mario ci si è trovato fianco a fianco davanti al bar. Deve aver detto qualche stronzata, niente di che, ma lei rideva; sembrava gradisse. Poi lui le ha preso la mano e le ha scritto il suo numero di cellulare sul palmo. Questa è l’ultima cosa che il Mario intero ha fatto. Quello che conosciamo adesso è il Mario versione puzzle».

    «Ma come fai a sapere tutte queste cose e chi ti dice che in qualche modo siano coinvolti i becchini laggiù!».

    «Sante, il barista, è mio amico. Ha notato tutto nei minimi particolari, anche quando quello più tarchiato dei quattro ha preso per un braccio Mario e l’ha portato fuori dal locale. Lei ha visto tutto e non ha alzato neanche un dito: sembrava addirittura soddisfatta. Dopo circa un paio d’ore Mario è stato trovato dietro il locale da uno delle pulizie ridotto come sai. Achille Licata è un padre padrone possessivo e non sopporta che l’unica sua figlia possa spassarsela con il primo stronzo. La controlla continuamente, ventiquattro ore su ventiquattro e attorno a lei ha creato terra bruciata. Nessuno l’avvicina, non ha amici o amiche e lei si vendica provocando continuamente il paparino: i quattro becchini li fa correre come barboncini da salotto inventandosi ogni volta una cazzata diversa; è viziata peggio di Barbie e infida come una serpe».

    Beppe ha finito, sembra visibilmente soddisfatto e, sicuro di avermi convinto a recedere da incontri ravvicinati pericolosi, guarda l’ora sul telefonino e beato come un ragazzino aggiunge:

    «Ehi! Sono appena le due. Che ne dici se andassimo alla Grotta del Lamantino a berci un margarita?».

    «Beppe, non mi hai ancora detto come si chiama. Mi hai gonfiato il cervello con tutte quelle stronzate di Mario e i becchini, del papà possessivo e mafioso ma ancora non mi hai detto il suo nome. E’ così difficile per te pronunciare il nome di quella ragazza?».

    «Si chiama Giorgia, ha 19 anni, ha finito il liceo e probabilmente andrà all’università. Che è stronza e pericolosa, peggio di una pistola senza sicura nelle mutande, te l’ho già detto. Soddisfatto?».

    Giorgia! Bello, si, molto bello. Le dona proprio. Il padre sarà un delinquente però ha fatto proprio un bel lavoro, nome compreso.

    I miei occhi si stavano illuminando di una luce strana e un’idea stava insinuandosi nel mio cervello. Beppe conosceva fin troppo bene quella luce e sapeva che tra breve sarei arrivato al punto di non ritorno e allora tenta il tutto per tutto:

    «Ok! … Ok! … Ok! Tutto sotto controllo, adesso è l’ora di spassarcela!».

    Si affretta a fare chissà quale numero sul telefonino e, guardandomi negli occhi urla:

    «Ehi Stefania, come va? Sono Beppe, ciao! Sei con Rosy? Ah, certo certo, sto bene anch’io, grazie. Sono con Antonio e ci stavamo chiedendo se potevamo incontrarci. Dove? In spiaggia, fuori dal Brigantino? Ma è fantastico! Il bagno? Perché no! Lo sai che non porto le mutande, vero?».

    Beppe mi strizza l’occhio con un sorrisino compiaciuto.

    «Allora ok! Tra cinque minuti siamo là. Ciao, ciao».

    Beppe si affretta a chiudere il telefonino, se lo infila in tasca e con le mani mi prende il volto obbligandomi a guardarlo.

    «Hai visto come ti lavoro? Non mi dire che Stefania non è il modo migliore per finire la serata, eh?».

    Le sue mani non mollano la presa ma i miei occhi sono rivolti verso Giorgia che continua sinuosamente a ballare. Stefania è sicuramente una gran bella figliola ma come può un creatura umana competere con un angelo?

    «Ehi Beppe mi è venuta un’i…».

    «Non lo dire, Antonio, non dire niente. Adesso noi usciamo dal locale e andiamo al Brigantino dove Stefania e Rosy ci aspettano in spiaggia. Un bel bagno, due cazzate, un fuoco sulla spiaggia, eh? Lo sai che le ragazze impazziscono per queste cose. Dovevi sentire come rideva Stefania quando le ho detto che non porto le mutande. Guarda, sei mio amico, sono disposto a prendermi Rosy e ti lascio solo soletto con Stefy, eh? Quante ne abbiamo dette su di lei! E’ una favola e lo sanno tutti che da Ferrari non ha solo la carrozzeria ma anche il motore. Tu ti intendi di macchine e la Ferrari è la Ferrari».

    Gli volevo davvero bene! Beppe era un amico come nessun altro. Quando ci guardavamo negli occhi eravamo un solo pensiero e lui sapeva già che non saremmo andati in spiaggia al Brigantino e che Stefania e Rosy avrebbero sicuramente trovato un’altra coppia di cinghiali per la loro consueta ginnastica ritmica di fine settimana. Il mio amico abbassa la guardia e lentamente si arrende all’evidenza e mi dice:

    «Ma porca puttana, che cazzo vuoi fare?».

    «Senti Beppe, è inutile che ti dica quanti casini abbiamo combinato insieme. Siamo una coppia! Non puoi negarlo. La nostra vocazione è svegliare questa gente addormentata dall’alcool e dalla merda che gli brucia il cervello. Ti sei mai chiesto perché tu sei il mio migliore amico, eh? Tu non ti friggeresti mai la testa con la coca, non ti impasticchi, non ti fai in vena, non conosci le anfetamine. Al massimo ti ho visto prendere lo sciroppo per la tosse»

    «Ma che cazzo stai dicendo Anto’!».

    «Beppe, ho bisogno del tuo aiuto. Voglio vedere da vicino come è fatto un angelo. Anche Lucifero era un angelo, il più bello di tutti e non saranno certo quattro yeti vestiti di nero a fermarmi! Facciamo vedere a questi stronzi cosa siamo capaci di fare!».

    «Cazzo, Antonio, non vorrei che a mia madre dicessero che anche le impronte dentarie sono insufficienti al mio riconoscimento: questi quando menano, menano, non scherzano, fanno male. Mario io sono andato a trovarlo e …».

    «Facciamolo per Mario, questi coglioni devono capire che in Sicilia ci sono anche persone che vogliono camminare per la strada a testa alta, vogliono lavorare senza la paura di una luparata alle spalle per un pizzo non pagato e che hanno il diritto di urlare il proprio orgoglio senza essere pestati a sangue per aver tentato un approccio ad una ragazza … fosse anche la figlia di Achille Licata».

    «Dio, Antonio! Quando parli così mi fai venire la pelle d’oca. Che cosa hai in mente?».

    Prendo dal tavolo un tovagliolino e comincio a scriverci sopra freneticamente. Mentre getto le basi del nostro piano di guastatori, osservo gli occhi interrogativi di Beppe che comincia però ad entrare nella parte del socio per la missione impossibile.

    «Senti Beppe sai che macchina hanno i becchini?».

    «Beh, li ho già visti altre volte con un Range Rover blu».

    «Bene, vai fuori e, se c’è, prendi il numero di targa: Sta per iniziare l’operazione Angelo bianco».

    Beppe schizza fuori dal locale, è eccitato al punto giusto mentre io comincio a vedere quello che tra qualche minuto avverrà. Appena Beppe rientra curiamo gli ultimi dettagli: si comincia a giocare!

    La voce del Dj rompe il frastuono della disco:

    «Attenzione, attenzione gente! Solo un attimo di attenzione! Mi è arrivato un messaggio: nel parcheggio del locale un Range Rover blu targato ZA 815 BJ è stato urtato pesantemente da un’altra auto. Sembra essere successo un bel casino! Il Range sta bloccando l’uscita di altre auto. Tra breve arriverà il carro attrezzi per la rimozione; si prega il proprietario del fuoristrada a recarsi immediatamente all’esterno. Ripeto, attenzione, attenzione …».

    Sono vicino a lei che continua a ballare, leggera come una libellula; non si è nemmeno accorta che l’auto appartiene ai suoi angeli decaduti. Tre di questi schizzano fuori come saette. Giorgia è davvero bellissima, potrei quasi toccarla. All’improvviso l’allarme antincendio irrompe prepotente sulla musica, si illuminano le uscite di sicurezza e una pioggia improvvisa investe tutto il locale. Beppe è un asso, tempismo eccezionale. La gente sembra impazzita e il quarto becchino è troppo lontano. Giorgia è qui vicino a me e sembra essersi appena svegliata da un sogno; mi guarda con occhi interrogativi mentre le cingo con il braccio la vita:

    «Con l’effetto bagnato sei peggio di un’esplosione: accechi chi ti guarda. Dai vieni, altrimenti la mandria in fuga ci pesta».

    Le prendo la mano e mi dirigo verso il bar per poi uscire dal retro, in direzione opposta al quarto gorilla che mi sembra abbia i suoi problemi ad orientarsi in mezzo a questa bolgia. Lei mi tiene serrata la mano, sento che ha paura. Appena fuori cominciamo a correre, le dico che potrebbe esplodere tutta la baracca. Corriamo come due pazzi a perdifiato e quando il respiro diventa martellante ci fermiamo esausti. Siamo quasi sulla spiaggia, dietro ad alcune cabine; è notte e ci illumina solo il chiarore della luna. Non ha detto ancora neanche una parola, si guarda indietro ma non molla la mia mano.

    «Co … co … cosa è … successo?».

    E’ la prima frase che le sento pronunciare.

    Ha gli occhi dilatati come una civetta, forse si è fumata una canna o ha preso qualche pasticca. Comincia a realizzare che è scappata dal suo recinto dorato che tanto odia ma che le permette anche di vivere l’unica esistenza che le è concessa vivere. E’ spaesata; per la prima volta forse si sta rendendo conto che è una Giorgia che non ha mai conosciuto prima e ne ha paura. Allora le dico:

    «Senti, piccola, sei al sicuro, non intendo farti del male. Ho fatto una scommessa con un amico che ti avrei parlato e lo stiamo facendo. Tutto qui! Stai tranquilla volevo solo conoscerti perché non ho mai incontrato un angelo prima di questa sera».

    Lei continua a fissarmi e nervosamente indietreggia passo dopo passo cercando di riprendere il controllo.

    «E così hai fatto uno scherzo. Ma bravo! Mi hai fatto prendere un colpo solo per potermi parlare, eh? Ma chi cazzo credi di essere. Stronzo! Io quelli come te non li cago proprio. Pezzente!».

    «Ehi, ehi, calma. Non ti ho fatto nulla. Riconosco di aver escogitato uno stratagemma un po’ forte ma tutto qui. In fondo abbiamo solo movimentato un tantino la serata. Giorgia, calmati, ti prego. Se la prendi così ti riporto a casa o dovunque tu voglia e la storia è chiusa».

    Non sono sicuro ma la sua testolina penso stia architettando qualcosa.

    «Ma allora sai chi sono. Bravo lo stronzo! Io non mi faccio prendere per il culo da un deficiente qualsiasi. Vuoi vedere che mio padre, per uno scherzo del genere, ti taglia i coglioni e te li caccia in gola?».

    «Ehi bimba stai passando il limite! Io non voglio fare niente di male. Volevo solo conoscerti, fare due chiacchiere e non vedo cosa c’entri tuo padre».

    «Adesso ti faccio vedere io cosa è capace di fare quello stronzo di mio padre».

    Ad un tratto si toglie il top e lo getta via a qualche metro. Si toglie il reggiseno e poi si straccia letteralmente la mini di dosso.

    «Ehi dolcezza, ma che ti salta in mente? Chi pensi che io sia, il violentatore della notte?».

    Si straccia le mutandine e comincia a graffiarsi dappertutto come una gatta impazzita e ad un tratto:

    «Aiuto! Aiuto! Venite ad aiutarmi! Mi stanno violentando! Ah … ah».

    Rivoli di sangue le scendono ovunque. La cosa sta prendendo una brutta piega.

    «Oh! Ma sei scema? Che cazzo fai! Io non voglio farti proprio niente. Smettila! Così mi fai passare un guaio».

    Squilla un cellulare: è il suo, appena ad un metro da lei sulla sabbia. Lo afferra e comincia nuovamente ad urlare:

    «Sono qui, sulla spiaggia dietro la discoteca. Mi ha violentata, aiuto, venite presto».

    Penso al povero Mario e mi risuonano nella mente le parole di Beppe. Una volta tanto aveva proprio ragione. Questa è soltanto una puttana viziata e drogata, figlia di papà.

    Si intravedono già alcune sagome di persone che cominciano a dirigersi verso di noi attirate dalle urla della pazza. Meglio togliere le tende. Chi mi crederebbe vista la scena? La guardo per l’ultima volta, nuda e accasciata vicino ad una cabina ancora in preda ad urla forsennate. Scappo più veloce che posso passando per le dune e mentre corro squilla il mio cellulare. Senza fermarmi rispondo:

    «Pronto chi sei?».

    «Ciao sono Beppe. Ti disturbo? Come va?».

    «Beppe, qui è successo un casino, poi ti racconto, ciao!».

    Riattacco e continuo la mia fuga. Meglio tornare a casa. La giornata per me è finita qui!

    Infilo le chiavi nella toppa cercando di fare piano; ogni volta è la stessa cosa, lo stesso rituale da quando avevo cominciato a guadagnare le prime uscite serali. Avrò avuto quindici o sedici anni: il coprifuoco era stato istituito prima alle undici, poi alle undici e mezzo e poi ancora a mezzanotte. Mezzanotte mi faceva percepire il sapore della notte, dell’indipendenza e della autonomia decisionale. Quella stupida mezz’ora tra le undici e mezzo e mezzanotte sembrava dilatarsi all’infinito; a volte valeva la pena uscire per vivere anche solo quella mezz’ora. Stavo diventando uomo e la voglia irrefrenabile di recidere il cordone ombelicale dalla mia famiglia era forte; in ogni caso il mio nido è ancora questo, a ventiquattro anni posso fare tardi quanto voglio ma quella sorta di pudore, legato al rispetto e alla riverenza verso i miei vecchi, mi trattiene dall’aprire la porta in modo chiassoso e ogni volta spero che mia madre dorma:

    «Antonio sei tu?».

    Speranza vana, puntuale come un orologio svizzero!

    «Si mamma, sono io».

    «Antonio, è tardi, … sono quasi le quattro. Quando ti deciderai a rientrare prima?».

    La sua apparente invasione della mia libertà, nasconde in realtà solo preoccupazione, affetto. Da quando è morto mio padre e mia sorella si è trasferita dopo essersi sposata, tutta la mia famiglia è lei. Mi sporgo sulla sua camera da letto, la luce del lume sul comodino è ancora accesa. Deve aver sentito anche il mio respiro quando volge la testa verso di me:

    «Ciao Antonio, buonanotte!».

    «‘Notte ma!».

    Quel segno sul soffitto della mia camera sembra proprio una mongolfiera, non cambia mai. Ero ancora bambino quando, si costruì nella mia immaginazione per la prima volta e, nonostante le ripetute passate di tempera bianca, la mongolfiera è sempre riapparsa a farmi sognare viaggi impossibili. Il pensiero corre nuovamente a mia madre: non le ho mai detto apertamente che non ci sarebbe stato niente di male se si fosse rifatta una vita accanto ad un altro uomo; forse ha contribuito anche quel radicato pudore a non parlare mai di queste cose misto ad una sorta di rispetto per le decisioni intime e intanto le giornate, i mesi e gli anni sono passati, in un clima complice e condiviso di silenzi, di parole mai pronunciate. Poi ci si è messo il cuore, forse duramente provato dalla morte del marito: il dottore disse chiaramente che l’infarto era stato lieve; poteva tranquillamente condurre una vita normale con un occhio di riguardo però a sforzi eccessivi ed emozioni improvvise. Forse era questo il motivo reale per cui pensava che la sua occasione di condurre una vita a due era terminata con la morte di mio padre: lei, che ha sempre pensato a tutti, rischiava di divenire un probabile peso e questo, il suo orgoglio, non l’avrebbe mai accettato.

    Le vicissitudini di mia madre non durano però abbastanza a lungo nella mia mente prima che il sonno spenga l’interruttore generale del mio cervello: Giorgia la rivedevo lì, mezza nuda in preda a tutta la sua rabbia. Non poteva avercela con me, non mi conosce neppure. C’è sotto qualcosa ma all’improvviso mi immagino Mario all’ospedale e il sangue mi si gela nelle vene. Mi tiro su le coperte

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