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C'è il mare in città: Il paradosso delle catastrofi e lo spaesamento identitario
C'è il mare in città: Il paradosso delle catastrofi e lo spaesamento identitario
C'è il mare in città: Il paradosso delle catastrofi e lo spaesamento identitario
E-book114 pagine1 ora

C'è il mare in città: Il paradosso delle catastrofi e lo spaesamento identitario

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Info su questo ebook

Abitiamo luoghi difficili, ci muoviamo su territori fragili, inquiniamo, desertifichiamo, ci troviamo a girare in mezze maniche a novembre o con il maglione e l’ombrello in pieno luglio.
Se poi tutto si distrugge, noi per prima cosa non ci crediamo.
Dopodiché, messi di fronte alla devastazione, spaesamento e stupore saranno i sentimenti dominanti.
Perché non si è creduto alla valanga di Rigopiano?
Perché il Ponte Morandi avrebbe dovuto essere eterno?
Perché Amatrice è crollata e Norcia no?
Kiribati e Maldive scompariranno davvero?
LinguaItaliano
Data di uscita4 mag 2020
ISBN9788835820895
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    Anteprima del libro

    C'è il mare in città - Silvia Grossi

    Bibliografia

    Citazioni

    Le due sfide che definiscono questo secolo sono il superamento della povertà e la gestione dei cambiamenti climatici.

    Se falliamo in una, non avremo successo nell’altra.

    I cambiamenti climatici non gestiti distruggeranno il rapporto tra l’uomo e il pianeta.

    Trasformerebbero dove abbiamo potuto vivere e come potremmo vivere la nostra vita.

    (James Hansen, World Economic Forum, Gennaio 2013)

    Passiamo gran parte del nostro tempo a conquistare, determinare, riconfermare le boe intorno alle quali muoverci, i punti di riferimento che determinano noi stessi come individui ambientati, capaci di non disperare nel tragitto incognito tra un luogo e un altro luogo amico

    (La Cecla, 2000)

    Introduzione

    Ho scelto consapevolmente di vivere sul versante della collina. A scandire la mia quotidianità sarà la natura, l’ambiente impervio, le estati fresche ma non più così fresche come una volta ed i gelicidi invernali, implacabili. Saranno la pineta con gli alti fusti secolari, la fauna selvatica, una flora rigogliosa e indomabile. Ma anche la regolarità dei filari di vite nel vigneto adiacente e le modifiche fatte all’abitazione, per renderla più tecnologica, anche se appoggiata sul terreno inclinato della valle.

    Bisogna sapere dove si è e chi si è, del resto. Nella buona e nella cattiva sorte. Ma soprattutto bisogna sapere che sia la buona che la cattiva sorte, quando si parla di umanità e ambiente, è quasi sempre responsabilità della prima, dell’umanità.

    Perché se c’è una profonda influenza dei luoghi, sulla ricostruzione identitaria delle comunità colpite da un disastro, soprattutto nel caso di un evento che ne abbia devastato gli ambienti abitati, vero è anche che ad influenzare quei luoghi sarà stata la mano dell’uomo.

    Esiste un rapporto inestricabile tra luoghi e uomini, così forte da farmi credere, da sempre, che il concetto di nonluogo avanzato da Marc Augè [1] sia criticabile in più di una sfumatura, come si vedrà in Premessa a questo saggio.

    Ed è un rapporto che emerge in maniera preponderante e si rivela, nelle sue dinamiche, sempre il giorno dopo un evento catastrofico che ha devastato territori e persone.

    Abbiamo una benda nera sugli occhi che ci impedisce di vedere. Noncuranti di ciò che accade nell’epoca dei grandi cambiamenti climatici continuiamo a credere che non ci sia nulla di veramente grave di cui dovremmo preoccuparci, che dopo l’uragano e l’alluvione torni a splendere il sole e ad abbassarsi il livello dell’acqua. Che il potere politico, per quanto responsabile, ci metterà una pezza in accordo con le grandi multinazionali che ci permettono elevate aspettative e stili di vita.

    Accumuliamo azioni sconsiderate e debiti con l’ambiente che pagheranno le prossime generazioni, non soltanto a livello di scarsità delle risorse ma anche di scarsità culturale e di pensiero critico.

    Come se non bastasse, la letteratura, il cinema, le arti di massa rassicurano questo nostro torpore collettivo, relegando gli sconvolgimenti alla fiction artistica, al genere della cli-fi, ovvero pellicole in cui domina un catastrofismo all’americana che non potrebbe mai essere preso sul serio dal grande pubblico.

    Eppure il problema c’è eccome, è reale e tangibile, non è confinato solo alla scenografia di un film o di una pièce teatrale.

    Per assecondare bisogni che la nostra parte di mondo ritiene necessari al mantenimento di un certo stile di vita, negli ultimi duecento anni non abbiamo fatto altro che bruciare combustibili fossili, soffocando l’atmosfera con una produzione di anidride carbonica che non giustificherà mai alcuna fame di energia.

    L’aumento dell’anidride carbonica ha causato a sua volta un aumento delle temperature certificato ufficialmente di 0,8 gradi centigradi, attestandosi così sul livello più alto mai raggiunto da migliaia di anni a questa parte.

    I cambiamenti climatici dovuti a questa situazione hanno assunto in ogni angolo del pianeta un ritmo troppo veloce a causa dei gas serra.

    Eppure, mentre il surriscaldamento globale sta cuocendo letteralmente i nostri territori, la maggior parte della popolazione mondiale resta tiepida nelle azioni di resistenza.

    È impazzito il clima, diciamo, come se fosse tutto ancora normale, tutto ancora controllabile.

    Come se la colpa fosse del clima stesso e non la nostra.

    Gli esperti ci dicono che tra quarant’anni potrebbero scomparire i ghiacciai dell’Himalaya, tra cinquant’anni potrebbe esaurirsi la calotta glaciale della Groenlandia, tra un po’ meno la foresta amazzonica potrebbe trasformarsi in un’arida savana. Il surriscaldamento globale porterà all’innalzamento degli oceani e le abitazioni ed i territori costieri potrebbero essere spazzati via in ogni angolo del mondo.

    È un suicidio di massa, che ci minaccia nella nostra continua azione criminale contro l’ambiente.

    Eppure dormiamo sonni tranquilli e, quando qualcosa accade, ci sentiamo improvvisamente spaesati dalla sorpresa.

    Un disastro naturale continua ad essere percepito nella categoria dell’alterità, come un caso isolato.

    Perché?

    La narrazione di un disastro è spesso essa stessa un ottimo indicatore delle assunzioni di fondo con le quali l’evento viene osservato ed analizzato.

    Il linguaggio utilizzato in questi frangenti, nel momento in cui l’evento si verifica, è indice della volontà di mantenere un senso di discontinuità e di alterità, utile ad indicare un caso disastroso come uno spartiacque che separi uomo, ambiente e vita sociale nella comunità colpita.

    I disastri, nei testi e nelle interviste che ho effettuato e letto [2] , vengono sempre posti all’osservazione come fenomeni in-controllabili, in-aspettati, in-prevedibili, in-certi.

    In-consapevolezza e in-preparazione sono ritenute le caratteristiche principali per tipizzare le condizioni delle vittime.

    Lo stesso utilizzo di termini quale evento, oppure emergenza senza precedenti rinforza l’idea che si tratti di un momento contingente, breve, sporadico nel tempo e nello spazio.

    A dimostrazione di questo assunto riporto il breve stralcio di un’intervista rilasciata alla stampa locale ed internazionale da Abhi Shrestha, una delle massime rappresentanti dell’organizzazione Rural Heritage di Kathmandu, che si occupa di turismo eco-sostenibile. Ecco le sue parole, pronunciate in riferimento al terremoto che nel 2015 devastò la Valle di Kathmandu:

    «Se c’è una cosa che la comunità internazionale ha imparato è la capacità dei nepalesi di ricostruire le proprie vite. Poste davanti a una situazione di necessità, di emergenza senza precedenti, le comunità locali hanno comunque dimostrato una grande capacità di reazione». (in Kathmandu Post, 23.04.2016) [3] .

    Un evento di cui ci si occuperà dopo, quando saranno le comunità stesse a dover trovare la forza per ripartire e dimostrare una grande capacità di reazione.

    Come ci ricorda Hewitt, in "Nord America, nell’eufemismo che suona ufficiale, i disastri sono ‘ unscheduled events’, ossia ‘eventi non programmati (Hewitt, 1983, p.10).

    La catastrofe come singolarità, come rottura dello schema improvviso dell’equilibrio del sistema uomo-ambiente è stata al centro anche dell’impianto teorico della Teoria delle catastrofi con la quale René Thom ha modellizzato la topologia differenziale dei fenomeni di mutamento, nonché la fisica del divenire. (Thom, 1980).

    Eppure, già gli studi del geografo Roberto Almagià [4] , condotti nei primi anni del Novecento, stimolato dalla vitalità scientifica della Società Geografica Italiana, hanno messo in evidenza una forma sistemica più complessa nell’analisi post- disastro.

    Una reciprocità ed una interdipendenza non ignorabile tra l’evento disastroso, l’ambiente e la cultura fatta di valori e simboli della comunità colpita.

    Nei sistemi antropogeografici interviene un sostrato storico e sociale che contribuisce sia a determinare la catastrofe che a regolarne la distribuzione sociale del danno, nonché, in ultima analisi, ad accelerare o decelerare la ripresa post-impatto.

    Perché un disastro non avviene affatto all’improvviso. Un disastro è l’effetto di cause da ricercare nella storia della comunità colpita, nel modo in cui ha salvaguardato il proprio ambiente, nella responsabilità con la quale ha preso sul serio le minacce dei cambiamenti climatici.

    Allo stesso tempo un disastro determina un rimescolamento di funzioni sociali, che si trovano sospese e che vanno

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