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L'imperatore guerriero
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E-book835 pagine12 ore

L'imperatore guerriero

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Info su questo ebook

Grande stratega o tiranno spietato?

Il romanzo di Diocleziano il persecutore

Il sovrano che rinunciò al potere

Chi era Diocle di Salona, l’uomo passato alla storia con il nome di Diocleziano? In questo libro – una sorta di romanzo autobiografico – si immagina che sia lo stesso imperatore romano a raccontare la sua appassionante vicenda. Dalle sue origini all’ascesa al trono, fino agli ultimi anni, pieni di amarezze e delusioni, che lo porteranno a una decisione estrema, un’eccezione nella tradizione romana: preferirà abdicare, ritirandosi a vita privata, ma aprendo così alle terribili faide che poi porteranno al potere l’ambizioso Costantino. Diocleziano, però, viene ricordato anche per le drammatiche persecuzioni dei cristiani avvenute sotto il suo dominio. Eppure l’imperatore – razionale e “illuminato”, ma circondato da personaggi discutibili e inclini alla violenza – tenterà di fermare il bagno di sangue per le strade di Roma. Solo con l’arrivo di Costantino, poi, l’impero diverrà ufficialmente cristiano, tuttavia non sarà più il principato di un primo tra i pari: sarà la monarchia assoluta di un sovrano autoritario.

Passioni e vendette, imprese e fallimenti di Diocle di Salona, passato alla storia come l'imperatore Diocleziano

Hanno scritto dei suoi libri:

«Castelli ci mostra in dettaglio il disfacimento delle nostre radici.»
Il Venerdì di Repubblica

«Solida documentazione storica, agile libertà creativa, riesce a incuriosire e appassiona il lettore.»
Il Sole 24 ore

«Castelli miscela il rigore della ricostruzione storica con i sapori forti dell’avventura e della fiction.»
Il Messaggero
Giulio Castelli
Narratore, saggista e giornalista professionista, è studioso di storia tardo-antica e medievale. Tra le sue pubblicazioni ricordiamo il romanzo Il fascistibile, il pamphlet Il Leviatano negligente. Potere e inefficienza in Italia e Il Piccolo dizionario 2005. Con la Newton Compton ha pubblicato Imperator, Gli ultimi fuochi dell’impero romano, 476 A.D. L’ultimo imperatore e Il diario segreto di Marco Aurelio.
LinguaItaliano
Data di uscita30 mag 2014
ISBN9788854168428
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    Anteprima del libro

    L'imperatore guerriero - Giulio Castelli

    752

    Prima edizione ebook: giugno 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6842-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Pachi Guarini per Studio Ti s.r.l., Roma

    Giulio Castelli

    L’imperatore guerriero

    Il romanzo di Diocleziano il persecutore

    Newton Compton editori

    Limes Danubiano, 250 d.C.

    Limes Renano, 250 d.C.

    Anatolia Mesopotamia, 250 d.C.

    A Giulietto

    Nota dell’autore

    Sul romanzo storico esistono alcuni equivoci. Spesso viene spacciato come tale il fantasy oppure quelli di ambientazione storica. Il racconto di un centurione che compie un’indagine su un omicidio di duemila anni fa è appunto di ambientazione. Vi sono eccelsi esempi del genere, dai Tre Moschettieri di Dumas alla serie di Sherlock Holmes di Conan Doyle. Al contrario, tanto per rimanere nell’antica Roma, Le Idi di marzo di Coleen McCollough, Giuliano di Gore Vidal o Io, Claudio di Robert Graves sono romanzi storici. Ricostruiscono vicende realmente accadute, anche se le integrano con la fantasia, laddove la storia non è conosciuta. L’imperatore guerriero appartiene a quest’ultimo genere letterario. Infatti ho tentato di narrare la vita di Diocleziano, uno dei più grandi imperatori di Roma, nelle sue tre fasi distinte: il giovane provinciale Diocle che cresce nell’esercito (una parte nella quale ho potuto sbizzarrirmi perché le notizie sono pochissime), il riformatore di uno Stato che si sta sfaldando e, infine, il persecutore dei cristiani.

    Credo che la figura di Diocleziano meriti un’attenzione speciale. La sua capacità di analisi dei problemi politici, strategici ed economici è talmente moderna, seppure in molti casi incapace di trasformarsi in misure adeguate, da essere una lettura consigliata a tutti coloro i quali hanno a cuore le vicende pubbliche. Diocleziano, il grande dirigista, sembra sfidare dalla profondità dei secoli i politici e i grandi decisori di un’epoca come la nostra, proiettata ciecamente verso il liberismo più sfrenato. E il suo messaggio, a distanza di oltre mille e settecento anni, appare ancora vivo e integro nella sua essenza.

    L’imperatore guerriero, però, è anche un romanzo ricco di avventure, spesso relative a vicende realmente avvenute. In altri casi, a eventi possibili. Chi volesse trovarvi invece accadimenti occulti o misteriosi rimarrà deluso. D’altronde, se li avessi inseriti arbitrariamente, avrei fatto un torto al protagonista che impersonò per certi versi uno degli ultimi sussulti di razionalità in un mondo che si stava avviando verso le tenebre dell’irrazionale.

    Come i precedenti (la trilogia dedicata a Maggioriano e ai suoi successori: Imperator, Gli ultimi fuochi dell’impero romano, 476 A.D., l’ultimo imperatore e Il diario segreto di Marco Aurelio), anche questo mio quinto romanzo dedicato all’antica Roma affronta il tema dell’uso del potere. Non a caso i tre principali protagonisti dei miei libri – appunto Maggioriano, Marco Aurelio e ora Diocleziano – sia pure in epoche e situazioni diverse, si posero il problema della gestione dello Stato e delle sue necessarie riforme. Tre grandi personalità che dovrebbero ricevere una speciale attenzione da chi oggi è chiamato a governare e a legiferare. La storia non si ripete, ma le situazioni sì.

    ***

    Qualche suggerimento a proposito del linguaggio utilizzato. Gli antichi romani, tra il III e il IV secolo, scrivevano in maniera enfatica, retorica, ricca di allegorie e di riferimenti mitologici. Ho dovuto rispettare questo stile, almeno in parte e soprattutto nei dialoghi, pur cercando di non rendere il testo troppo indigesto ai lettori.

    Per i nomi geografici non ho seguito un criterio uniforme. In genere ho adottato i nomi moderni per luoghi che hanno soltanto trasformato l’antica denominazione latina (Mogontiacum, Mediolanum e Lugudunum sono dunque diventate Magonza, Milano e Lione). Ma per altre località il cui nome moderno rispecchia un cambiamento traumatico nei confronti dell’antichità, ho preferito lasciare il nome romano (Argentoratum non si è trasformato in Strasburgo o Aquincum in Budapest). Ho comunque sempre evitato di sostituire i nomi di grandi città antiche con quelli dei modesti villaggi che oggi sorgono nei pressi delle loro rovine. Cartagine ed Efeso sono perciò rimaste tali.

    Per i nomi comuni, invece, ho tentato di rimanere fedele ai termini derivati dal latino, anche se l’effetto è talvolta arcaicizzante. Li ho preferiti alle parole di origine germanica, araba o slava, in quanto queste ultime civiltà sono state posteriori. Ma, ovviamente, non sempre è stato possibile. Il lettore potrà comunque trovare un glossario comprendente termini geografici, nomi di personaggi e sostantivi comuni in fondo al libro.

    Spalato, anno 1066 dalla Fondazione dell’Urbe (313 d.C.)

    È ormai la dodicesima ora e il sole illumina con gli ultimi raggi la grande galleria. Da lì posso scorgere le isole che chiudono il golfo di Salona. La luce si riflette sulle statue. Nelle nicchie lungo la parete, di fronte a ogni vetrata, ciascuna divinità appare circondata dalla sua aureola. Talvolta mi accade di accarezzare il marmo come per convincermi che si tratta soltanto di fredda pietra. Atenio non rinuncia mai alla sua dotta pedanteria e mi ripete per l’ennesima volta che si tratta di copie dal bronzo. Eppure io sono convinto che il talento degli artisti stia proprio in queste trasparenze, nelle vene che si intravedono sotto la pelle, nel colore diafano delle iridi. Non mi interessa che siano copie: oggi nessuno è più in grado di creare simili capolavori. Di recente ho visto alcuni dei gruppi in bronzo dedicati a noi tetrarchi. Uomini goffi, somiglianti a nani massicci, sculture nelle quali l’armonia delle proporzioni è perduta.

    Con la coda dell’occhio scorgo Atenio che si avvicina. Anche lui è provato dall’età. Era vigoroso, e ora è emaciato come un ramo che si sta seccando. Era alto, e adesso è curvo, quasi incapace di guardare dritto davanti a sé. Il suo passo era rapido e silenzioso. Ora, invece, trascina i piedi, ansima ed è costretto a fermarsi. Atenio è molto più che il mio liberto preferito. È un amico da tanti anni. È il mio confidente. Mi ha conosciuto quando ancora non avevo indossato la porpora e mi è sempre rimasto fedele. Durante il mio dominio e, ora, negli anni vuoti del ritiro.

    Questa sera incomincerò a leggergli le mie memorie. Sono certo che mi darà un parere sincero. Ma soprattutto potrà correggere i miei errori. Oltre a essere esperto in un gran numero di discipline, Atenio è anche un grammatico e, senza dubbio, è più erudito di me.

    Prima Parte

    Diocle di Salona

    Capitolo 1

    Salona, anno 1008 dalla Fondazione dell’Urbe (255 d.C.)

    Di quell’estate di sessanta anni fa ricordo una stanza della casa paterna. Era l’unica, a parte i cubicoli nei quali dormivamo. Si andava oscurando lentamente. All’ora seconda della notte, un chiarore violetto entrava ancora dalla porta. La nostra dimora non aveva finestre e mio padre lavorava alla luce di una lanterna sempre sul punto di esaurirsi. Era uno scrivano, liberto della famiglia del senatore Anullino. Veniva pagato mezzo dupondio per duecento righe o per dieci disegni decorativi. Io stavo a osservare quell’attività paziente. Avrei voluto diventare a mia volta altrettanto abile con la calligrafia corsiva e le miniature. Mia madre, invece, si lamentava. Gli diceva che, nell’oscurità, avrebbe perduto la vista.

    All’epoca io avevo sedici anni. Il mio nome era ancora quello dato dai miei genitori al momento della nascita: Gaio Valerio Diocle. Diocle, cioè Gloria di Zeus. Ne ero orgoglioso, sebbene sapessi che i miei genitori non avevano pensato al Padre degli dèi, bensì più prosaicamente a Dioclea, il sobborgo di Salona dove abitavamo.

    Quella sera di luglio sulla porta si era stagliata una figurina. Era Cecilia, la figlia del nostro vicino, mia coetanea. Portava un cestino di fichi. I primi della stagione appena colti nel suo orto.

    «Non è un po’ tardi per una ragazza?», le aveva chiesto mia madre dopo averla ringraziata. Ma non era un rimprovero, voleva solo essere premurosa. Non aveva avuto figlie femmine.

    Cecilia le aveva sorriso. Mostrava i suoi denti bianchi. La sua bocca profumava di salvia e menta. Indossava una tunica dalle pieghe morbide, ma stretta in vita, che non nascondeva le forme dei suoi fianchi. Ogni volta che la vedevo rimanevo un po’ incantato. Il mento scivolava giù verso il collo. Deglutivo e la guardavo, credo senza alcuna espressione.

    Cecilia era innamorata di mio fratello Firmo. Io ero ammaliato da lei. Dalle pieghe della sua tunica sopra i movimenti del corpo. La desideravo senza speranza. Di notte, prima di addormentarmi, sognavo di sedurla grazie a qualche mia straordinaria impresa. Avrei ucciso un pericoloso lupo che d’inverno raggiungeva perfino le mura della città. Avrei scalato uno dei picchi più impervi dell’Illiria. Avrei vinto l’alloro dorato ai Giochi di Olimpia. Sognavo a occhi aperti. Inventavo una nuova gloria che mi avrebbe permesso di conquistarla. Trafiggevo una Gorgone come Perseo. Duellavo con qualche nemico misterioso che, quando cadevo preda di Morfeo, prendeva le sembianze di Firmo.

    Anche quella volta Cecilia aveva chiesto di mio fratello. A me aveva riservato un cenno distratto di saluto. Io avrei voluto essere spavaldo e ironico come Firmo, ma non ci riuscivo. La presenza della ragazza mi impediva quasi di parlare.

    Infine le dissi che mio fratello si era recato con i suoi amici a vedere le navi sul molo di Salona. Offrivano vino e idromele ai marinai e si facevano raccontare le meraviglie del mondo.

    Rimase un po’ delusa: «Domani all’ora ottava andrò sulla spiaggia. Firmo lo sa. Spero che ci sarete». Mi rivolse uno sguardo complice. Ma non era per me.

    ***

    La mattina seguente accompagnai mio padre alla dimora di Anullino. Era il più importante senatore della Dalmazia. Possedeva terre sia nella breve pianura sul promontorio di Diana, sia nei pressi di Jader. Poi armenti, cavalli bradi e soprattutto miniere sulle montagne di Splonum.

    Lo schiavo portiere ci scrutò, quasi ci vedesse per la prima volta. Era il suo modo per conquistarsi una briciola di potere. Si sentiva il re del vestibolo. Per camminare trascinava la catena d’argento agganciata al ceppo che legava la sua caviglia. Fece passare un po’ di tempo. Poi, con un sospiro di condiscendenza, suonò un campanaccio e apparve un altro famiglio.

    Fummo introdotti in una stanza che affacciava sul peristilio. Ogni volta ammiravo le ninfee nell’acqua della vasca. Le siepi di mirto tagliate nelle forme di animali marini. I busti illuminati da torce accese anche di giorno. I volti arcigni degli antenati di Anullino sembravano accusarci di qualche colpa segreta. Mio padre, quasi a tranquillizzarmi, mi aveva rivelato che quelle facce non appartenevano ai suoi avi. Il senatore aveva acquistato le statue durante un suo viaggio a Roma. Suo bisnonno era uno schiavo macedone. O, almeno, era quanto si diceva in città.

    Anullino si vantava di essere un grande poeta e mio padre doveva consegnargli alcune copie della ultima raccolta di versi. Mentre li scriveva su una costosa pergamena, li rileggeva ad alta voce. Si lamentava del ritmo. «La metrica non va», ripeteva. «La metrica è simile ai numeri. Per quanto possa apparire strano, poesia e matematica si assomigliano. Imitano il respiro dell’universo».

    Il senatore entrò nella stanza seguito da un intendente e da suo figlio, un ragazzo dai capelli ricci poco più giovane di me.

    «Finalmente!», disse Anullino. La sua faccia non prometteva nulla di buono. «Avresti dovuto consegnarmi le copie due giorni fa».

    Mio padre prese a scusarsi. Era stato costretto a cercare il minio per tutta Salona. Anullino si lasciò cadere su uno scranno. Una ciocca di capelli gli copriva la calvizie e scendeva verso la fronte. La barba sottile e tinta di nero gli incorniciava il viso.

    «Non voglio sentire le solite scuse. Sei stato negligente e ritieniti fortunato, se non ti faccio frustare».

    Intervenne il figlio: «Padre, sei troppo indulgente. Se vuoi risparmiargli la frusta, almeno evita di pagarlo».

    Vidi mio padre impallidire. Quel denaro ci serviva per il cibo dell’intera settimana. Mormorò qualche cosa di simile a una preghiera.

    «Taci, idiota incapace!», disse a quel punto il ragazzo, «perché se mio padre è indulgente, io non lo sono affatto».

    Mio padre si gettò in ginocchio davanti ad Anullino. Gocce di sudore gli imperlavano la fronte. Di quegli istanti, ricordo due sensazioni contrastanti. Da un lato, era come se le forze mi avessero abbandonato all’improvviso. Dall’altro, la rabbia mi saliva lungo il collo. Le vene pulsavano sulle tempie. Una vampa di calore raggiunse le guance. Era l’ira dell’impotenza.

    «Non facciamo commedie. Alzati!». La voce del senatore era tagliente. Mio padre si appoggiò a una mia gamba per sollevarsi.

    «Hai capito», insisté il ragazzo, «sei un idiota e non devi essere pagato».

    Mio padre deglutì. Sentii la sua mano stringermi il polso: «Nobile signore», fece rivolto al figlio del senatore, «ho già chiesto perdono per questa mancanza. Tuttavia non ne ho colpa. O, almeno, la colpa non è tutta mia».

    «E di chi, allora?». Il ragazzo, le mani sui fianchi, lo guardava fisso.

    «L’esperienza ti insegnerà che non sempre gli uomini sono responsabili di quanto accade». La sua voce era quasi impercettibile.

    A quel punto intervenne Anullino: «Non permetterti di contraddire un nobile», disse, «e non approfittarti del fatto che è un ragazzo. Giovane o vecchio, un nobile ha sempre ragione. Anche se qualcuno vorrebbe toglierci il comando, ricordati che siamo noi l’anima immortale di Roma. Sei fortunato se, per questa volta, siamo clementi. Avrai ugualmente una paga. Certo, ridotta per il ritardo. Ringrazia la bontà della nostra famiglia. Ti ha dato la libertà. Io ti avrei dato lo scudiscio».

    Non ricordo il compenso ottenuto da mio padre per il suo lavoro. Ricordo, però, il rumore dei nostri passi sul selciato mentre tornavamo. Non ci guardavamo e percorremmo la strada in silenzio. Soltanto quando fummo vicini alla casa, lui esclamò: «Non sentirti umiliato, Diocle. I nobili sono arroganti. Lo sono sempre stati e sempre lo saranno. Piuttosto, non dire nulla a tua madre. Le donne spesso non capiscono».

    ***

    La spiaggia più vicina alla nostra casa era in un’insenatura protetta da una fitta pineta. L’acqua limpida invitava a nuotare. Firmo era abile in quest’esercizio. L’unico accorgimento era ripararsi dal sole: nessuno di noi desiderava tingersi di bruno come uno schiavo.

    Firmo si era messo a fare capriole sulla sabbia. Prima di una nuotata, diceva, era necessario scaldare i muscoli. Aveva diciotto anni ed era forte e agile, più alto e più robusto di me. Poi era arrivata Cecilia con una palla di stoffa colorata che aveva cucito. Mio fratello le fece appena un cenno di saluto e vidi un po’ di delusione sul viso della ragazza. Infatti si sedette accanto a me.

    «A che punto siamo rimasti l’ultima volta?».

    Era istruita. La nostra famiglia invece non aveva potuto pagarci un precettore.

    «Alla terza elegia di Tibullo. Dove Delia pensa a lui morente».

    Io mi immaginavo al posto del poeta. Cecilia avrebbe fatto come Delia? Avrebbe rimpianto ciò che aveva perduto? La guardavo mentre estraeva da una piccola sacca un rotolo di pergamena. Vedevo i suoi capelli fulvi, la bocca che sembrava imbronciata, la pelle del collo bianca che avrei desiderato baciare fino a morderla. Cecilia era ben proporzionata e si muoveva con grazia. Rapida eppure lieve. Come se sfiorasse la sabbia.

    «Allora mi sono sbagliata», disse lei. «Ho con me il volume della geografia». Intanto lanciava occhiate per seguire le evoluzioni di Firmo.

    In quel momento mio fratello fece due balzi e si fermò davanti a noi. Si esibì in una risata.

    «Non capisco bene se Diocle studia o sogna i doni di Venere». Io e Cecilia arrossimmo all’unisono.

    «Gli ho portato La Laconia di Pausania», sembrò scusarsi lei. «Ma se vuoi possiamo leggerlo più tardi».

    «Naturalmente no. Non voglio spezzarvi il cuore», fece Firmo.

    «Ma vuoi deridermi», dissi a bassa voce. Evitavo di guardarlo. Vedevo una barca. Alcuni marinai vogavano di buona lena. Forse pescatori che avrebbero scaricato il loro pesce.

    Cecilia si alzò e fece per allontanarsi. Firmo la prese per un braccio. Lei si liberò con uno strattone.

    «No, Firmo, lasciami».

    Io ero rimasto accovacciato a terra. Sentivo che la loro era una schermaglia amorosa. Presi un pugno di sabbia e lo feci scorrere tra le dita. Poi fissai la barca. Non volevo ascoltarli.

    Cecilia si era fermata a una ventina di passi da noi. Stava in piedi con il busto piegato in avanti. Il viso contro la brezza pomeridiana. La spiaggia era deserta. Aveva abbassato il cappuccio e vedevo i suoi capelli fluire sciolti nel vento.

    «Credo si sia offesa». Continuavo a guardare il filo di sabbia che cadeva dalla mia mano come da una clessidra.

    Firmo si sedette accanto a me.

    «Fratello», disse, «le ragazze giocano con noi. Ma non si deve credere molto a quello che fanno».

    «Cecilia è pazza di te», mormorai.

    «Dubito che la sua famiglia sceglierebbe uno come me. Puntano in alto, loro». Firmo si mise a guardare la mia sabbia. Mi pareva avesse perduto un po’ della sua spavalderia. Però si riprese subito: «Ora giocheremo con la sua palla e vedrai che saremo di nuovo amici».

    «Vuoi sedurla?», gli chiesi improvvisamente. Provai a evitare che la mia voce rivelasse la gelosia.

    Firmo scoppiò a ridere.

    «E chi non lo vorrebbe? Guardala. Non ti pare una Nereide in riposo? Perfino i pescatori l’ammirano». Infatti i marinai avevano tirato la loro barca sulla battigia e la stavano guardando.

    Feci cenno di sì con la testa. La ragazza era illuminata dalla luce calda del pomeriggio. Teneva il viso rivolto al cielo. Sembrava respirare il tepore profumato di salsedine. I pescatori le si erano avvicinati. Erano in cinque. Uno di loro le mostrò una murena e si mise ad agitarla davanti al suo viso come se fosse ancora viva. La nostra amica si ritrasse di scatto e, in un istante, gli uomini le furono addosso. Uno di loro dall’aspetto erculeo l’afferrò e se la caricò su una spalla.

    Cecilia prese a gridare. Scalciava e picchiava i pugni sulla schiena dell’energumeno mentre gli aggressori correvano verso la barca. Un sesto ladrone era già ai remi.

    Firmo corse rapido come un messaggero di Mercurio. In un attimo si gettò sulle gambe dell’uomo che l’aveva presa. Caddero nell’acqua bassa. Anch’io corsi verso gli aggressori. Gridavo aiuto, ma la spiaggia era deserta. A un tratto sentii un gran colpo e per un attimo tutto divenne nero. Poi tornò la luce e vidi quello che non avrei mai voluto vedere. Firmo stringeva al collo il rapitore che aveva fatto cadere Cecilia sulla battigia. Gli spingeva la testa sott’acqua con una violenza che non avrei mai immaginato. In quel momento un altro bandito arrivò alle spalle di mio fratello. Vidi la lama sollevarsi e abbassarsi rapida più volte. Firmo lasciò la presa. Le piccole, morbide onde divennero rosse del suo sangue.

    Mi trascinai verso di lui. Barcollavo e non riuscivo neppure più a gridare. Udii l’urlo di Cecilia mentre veniva gettata dentro la barca. Poi presi mio fratello tra le braccia. Fui investito da un fiotto di sangue, poi non ricordo altro.

    ***

    Eravamo appena rientrati a casa dal colombario dove era stato sepolto Firmo. Si trovava subito fuori Salona, sulla strada verso le montagne dell’Illiria. Avevo salutato i nostri parenti e gli amici. Anche i familiari di Cecilia avevano assistito al rito. Erano stati loro a donare il lenzuolo funebre in cui era stato avvolto il corpo di mio fratello.

    Ora tutto era finito. Era una giornata torrida. Stavo seduto con la testa tra le mani in un angolo della soglia di casa rimasto nell’ombra. La luce abbagliante mi pareva un insulto. Udivo il singhiozzo soffocato di mia madre, e avevo visto mio padre aggirarsi nella stanza in cui vivevamo. Aveva gli occhi pieni di lacrime e non riusciva a copiare i conti di Anullino.

    Quando apparve sulla soglia, gli dissi che avrei vendicato Firmo e avrei ritrovato Cecilia.

    «Oh, Diocle», mormorò soltanto.

    «Sì», dissi. «Vivrò per questo».

    «Oh, Diocle», ripeté lui. «Hai appena sedici anni. Ora sei l’unico figlio che ci rimane».

    Subito dopo l’uccisione di Firmo, il padre di Cecilia si era recato al palazzo del governatore. Un funzionario aveva promesso che sarebbero state fatte le ricerche necessarie. Ma io sapevo che non sarebbe accaduto nulla. Da ogni parte giungevano notizie di barbari che scorrazzavano nelle province, di usurpatori malvagi, di soldati disertori, di pirati. E, certamente, erano pirati gli assassini di Firmo e rapitori di Cecilia. Immaginavo con orrore la sua sorte. Sarebbe stata preda di uomini orribili. Violata e venduta come schiava. Mi chiedevo se l’avrei davvero rivista, e dove. O se ci saremmo dati appuntamento nell’Ade.

    Mi ero perfino recato a parlare con qualche cristiano. Si trattava di persone terrorizzate, appena sfuggite alle fiere. Alcuni avevano rinunciato alla loro superstizione. Altri erano riusciti a evitare di essere convocati in tribunale. Il loro capo, il vescovo Venanzio, si era nascosto in qualche luogo sconosciuto.

    Avevo chiesto se avevano notizie di pirati o di loro correligionari divenuti banditi. I cristiani avevano mostrato espressioni scandalizzate. Ripetevano di essere pronti al martirio pur di non commettere peccati del genere. Ma quando parlavo loro di Cecilia, si stringevano nelle spalle. Congiungevano le mani e volgevano lo sguardo in alto.

    Le vergini violate perdevano il diritto a quello che loro chiamavano il regno dei cieli.

    ***

    Passò un’estate dolorosa. Molte volte, durante l’autunno, mi recai insieme con il padre di Cecilia al palazzo del governatore. Non c’era mai alcuna notizia. Venne un inverno rigido. Il vento di Borea investiva il golfo e nascondeva le isole in una specie di caligine. Era un turbine di gocce d’acqua sollevato dal mare mentre il cielo, in alto, rimaneva limpido. Le montagne sembravano di cristallo, bianche di neve.

    Con l’anno nuovo i familiari di Cecilia rinunciarono a quel triste pellegrinaggio quotidiano. I funzionari si mostravano ormai infastiditi dalla nostra presenza. Incominciarono a farci aspettare ore. Poi a rispondere in modo sgarbato.

    Decisi di recarmi da Anullino. Fui costretto ad attendere nel vestibolo. Lo schiavo portiere mi guardava con una specie di malvagia soddisfazione. Mi gridò subito di non sporcare il pavimento con i miei calzari impolverati. Era di marmo, a losanghe e cerchi, ognuno di colore diverso. Giallo ambrato o verde chiaro, oppure venato di azzurro. Al centro c’era un mosaico con un tritone che gareggiava con un delfino.

    Appena introdotto nello studio di Anullino, fui invitato a essere rapido nelle mie richieste. Alla fine il senatore non alzò neppure lo sguardo dalle sue pergamene.

    «Ragazzo», disse, «le vergini devono essere prudenti. Altrimenti il loro destino è di essere violate. È sempre stato così e oggi più di prima. Il mondo è pieno di barbari e di malfattori». Mi gettò una moneta e mi fece cenno di andarmene.

    All’inizio di marzo arrivò un tepore improvviso. La primavera era in anticipo. Passavo ore seduto sul molo di Salona. Portavo con me uno dei rotoli che mi aveva dato Cecilia. Scorrevo le righe. Poesie, descrizioni di miti, o di luoghi lontani. Ma guardavo senza essere capace di leggere. Il vento mi scompigliava i capelli. Le navi avevano ripreso a partire, fiduciose nella clemenza di Nettuno.

    ***

    Quel giorno mi è rimasto impresso nella memoria, anche se sono passati dieci lustri. Avevo lasciato la caserma della seconda coorte ed ero appena rientrato a casa. Ero troppo giovane per essere arruolato, ma avrei potuto fare un tirocinio al seguito della fanteria di Marina. Mio padre, al solito, era curvo su una delle pergamene da copiare. Mi rivolse uno sguardo interrogativo e vide il sacco militare sulle mie spalle. In un attimo, la sua espressione mutò in sgomento.

    «Che cosa significa?», balbettò.

    «Sto per imbarcarmi, padre», risposi soltanto.

    Lo vidi impallidire. Dalla sua bocca uscì un lamento. Stava chiamando mia madre.

    Quando lei apparve dalla porta dell’orto, lui mi indicò. Mia madre capì subito. Aveva tra le mani una lattuga e la lasciò cadere a terra.

    I miei genitori sapevano che non sarebbe più stato possibile fermarmi. Li vidi piangere e disperarsi per quel loro figlio superstite che forse non avrebbero più rivisto. Li abbracciai. Non potevo confortarli, ma chiesi la loro benedizione.

    Mi inginocchiai davanti a mio padre. Sentii le sue dita fredde tra i capelli. La sua voce era tremante: «Saresti stato un abile scrivano oppure un contabile. Vedevo di giorno in giorno i tuoi progressi».

    Era vero. Avevo imparato a usare lo stiletto e il calamo. Ero in grado di scrivere sia sulla pergamena sia sul papiro. A incidere sulle tavolette cerate. Ormai, però, tutto questo apparteneva al passato. Io avevo negli occhi soltanto lo sguardo dell’assassino di Firmo. Glielo dissi.

    Uscii dalla casa paterna tra i singhiozzi di mia madre. Mio padre sembrava invece impietrito. Forse era l’ultima loro immagine che avrei portato con me.

    ***

    Ero stato ammesso a esercitarmi con i soldati. La decuria alla quale ero stato aggregato comprendeva quattro reclute e quattro veterani, uno dei quali era il decano. I soldati avevano a disposizione due schiavi. Preparavano il cibo e i giacigli. Conservavano le anfore dell’acqua, l’olio, il farro e la carne essiccata. Io li aiutavo, ma non ero obbligato a servire nessuno.

    Finite le esercitazioni, passavo il tempo seguendo le evoluzioni dei gabbiani intorno alla trireme. Udivo il fruscio della vela quadrata e gli urti improvvisi dei pennoni quando il vento cambiava direzione. I rematori erano spesso in riposo. Il capovoga stava sdraiato sul ponte e così il suonatore di piffero che lo accompagnava per scandire il ritmo.

    La squadra era formata da due triremi e quattro biremi. Procedevano in fila. Avevamo doppiato da due giorni il capo Malea e ormai eravamo nel centro del mare Egeo. Scorgevo un’isola a settentrione e i marinai più esperti dicevano che si trattava di Paros. La nostra meta era segreta, ma in vista di Naxos, le navi virarono verso settentrione, nello stretto tra le due isole in direzione di Delos.

    Trascorremmo la notte all’àncora in una insenatura di Paros. All’undicesima ora, quando il cielo a Oriente incominciava a schiarirsi, le navi levarono gli ormeggi e mossero verso Delos.

    ***

    Ci chiedevamo se avremmo dovuto combattere contro i Goti. Alcune imbarcazioni di quei barbari avevano osato minacciare le coste della Bitinia. Erano giunte notizie di saccheggi e di incendi. I Goti avevano appreso l’arte della navigazione nel Bosforo Cimmerio. Schiavi infedeli e disertori avevano insegnato loro il calafataggio. In seguito, i barbari si erano insediati dove i fiumi della Scizia sfociano nel Ponto. Luoghi al di fuori delle muraglie che proteggono il delta del Danubio. L’esercito non si era mosso. Non era neppure chiaro chi fosse l’imperatore. C’era chi diceva che Valeriano aveva liberato l’Armenia dai Persiani. Chi, invece, era certo dell’ascesa alla porpora di Uranio Antonino. Chi, infine, che i due condottieri incalzavano i nemici presso Antiochia. Le armate romane erano accampate centinaia di miglia più a Oriente, e si preparavano ad affrontare il re dei re.

    Arrivammo sulla costa meridionale di Delos all’ora nona. Poco prima il centurione ci aveva annunciato il nostro compito: dovevamo catturare i malviventi che si nascondevano nei pressi del tempio di Apollo. Era stato abbandonato da tre secoli, eppure si ergeva ancora maestoso.

    Domandai a uno dei veterani perché i barbari avessero scelto proprio Delos. Il soldato, un Gallo rubizzo vicino al congedo, mi squadrò.

    «Non si tratta di barbari», disse. «A Delos ci sono soprattutto i pirati. Gente che rapisce i malcapitati e li rivende ai mercanti di schiavi».

    Il cuore mi balzò nel petto. Era dunque il luogo dove forse era stata portata Cecilia? Poteva il Fato essermi così propizio? Potevo essere stato a tal punto assistito dagli dèi immortali?

    ***

    Quella fu la mia iniziazione alle armi. Ma non fu una vera battaglia. Appena le nostre due centurie sbucarono sullo spiazzo del tempio dai sentieri che risalivano dal mare, ci fu una fuga generale. I pirati non tentarono neppure di difendersi. I soldati si gettarono al loro inseguimento e, al calare del sole, ne avevano catturati a decine. Furono messi in catene anche i mercanti di schiavi, complici dei rapimenti.

    Al mattino seguente, cinque capi dei pirati furono crocifissi. Io cercavo con gli occhi l’assassino di Firmo o l’aggressore che aveva afferrato Cecilia, ma non scorsi nessuno dei due tra i prigionieri. Stavo già allontanandomi per raggiungere il mio reparto, quando vidi i soldati trascinare un sesto uomo sanguinante. Fu legato alla croce e a quel punto lo riconobbi. Erano passati mesi ma quello sguardo non l’avevo dimenticato: era uno dei rapitori di Cecilia.

    Passarono molte ore. I crocifissi imploravano le divinità infere perché li facessero morire rapidamente. I soldati li insultavano. Issavano su lunghi bastoni giare d’acqua fino a che esse sfioravano le bocche dei moribondi. A quel punto rovesciavano l’acqua tra schiamazzi e scherni.

    Intanto i mercanti venivano interrogati. Se non rispondevano, erano colpiti dalla frusta. Tutti giuravano di essere all’oscuro della provenienza degli schiavi. Erano senz’altro menzogne, subito seguite da nuovi colpi di scudiscio.

    Venne l’ora settima. Il sole dardeggiava. Vedevo le labbra dei ladroni screpolarsi. Alcuni erano già morti asfissiati: la testa si incassava nel collo e impediva loro di respirare. Mi avvicinai al mio uomo mentre i commilitoni erano rimasti sdraiati all’ombra. Presi una giara d’acqua e l’appesi a una lancia uncinata. Quando fu vicina alla bocca del pirata, gli chiesi la sorte della ragazza rapita a Salona.

    L’uomo mi rivolse una sguardo lacrimoso. Sembrava pentito per le sue malefatte. Forse, pensai, temeva di essere gettato nel più profondo del Tartaro. Gli ripetei la domanda fino a quando lui ebbe un sussulto. Con uno sforzo tremendo sporse la testa in modo da poter respirare. Sibilò: «Ce la siamo goduta tutti. Gridava e pregava mentre ce la passavamo. Si dibatteva al punto di sgusciare via. Una anguilla. Era vergine e la sua…».

    Non finì la frase. Lo colpii con l’uncino della lancia con quanta forza potevo avere. Vidi la lama rimanere infilata nella tempia e il sangue sgorgare copioso. La testa si insaccò tra le spalle. Era morto. Il primo uomo che avevo ucciso.

    ***

    Altri pirati furono giustiziati mentre proseguivano gli interrogatori dei mercanti. Uno di costoro venne crocifisso. Era un Siriaco. Appeso alla forca, continuava a protestare. Urlava di avere diritto a un regolare processo presso il tribunale del governatore. I centurioni si misero a deriderlo e alcuni veterani inscenarono una farsa di processo. Al termine, l’uomo venne condannato a essere imbrattato di escrementi. Morì con lo sterco che gli colava dalla bocca fino a soffocarlo. Disperavo ormai di avere notizie di Cecilia. Un giorno, stavo parlando con uno dei prigionieri liberati, era il figlio di un decurione dell’isola di Malta. A un tratto gli dissi che cercavo una ragazza venduta come schiava nella passata estate e lui parve concentrarsi sui suoi pensieri.

    «Ho visto tante sfortunate». Aveva gli occhi opachi. Un sopravissuto che non si rendeva conto di esserlo. «Sono prigioniero da oltre un anno, ma i pirati non mi volevano vendere perché speravano di ricavare di più dal mio riscatto. Erano in trattative con la mia famiglia».

    «Da oltre un anno?». Annuì, triste.

    «Non puoi immaginare che cosa significhi», disse.

    «Una ragazza di quindici anni», insistei. «Una dalmata, di Salona. Era stata rapita nello scorso luglio».

    Il giovane se la fece descrivere. Poi elencò alcune delle prigioniere che aveva visto acquistate dai mercanti. Una di loro poteva essere proprio Cecilia.

    «Piangeva», aggiunse il maltese. «Le avevano ucciso il fidanzato davanti agli occhi mentre tentava di liberarla. Mi pare parlasse di una spiaggia. Forse era proprio una dalmata».

    Gridai. Afferrai il mio interlocutore e lo abbracciai. Era senza dubbio Cecilia. Non riuscivo a trattenere le domande. Lui rispondeva a monosillabi. Poi disse: «Credo di non sbagliare. È stata comprata da un mercante del Paese degli Iberi. Ricordo che avevo chiesto a quell’uomo di fare avere mie notizie alla famiglia. Era di Pityus, sotto i monti del Caucaso».

    ***

    Rimanemmo nelle isole dell’Egeo per un anno. Un po’ a Delos, quindi a Paros e a Naxos. Nel frattempo, erano sbarcate altre centurie. Si trattava di soldati indisciplinati, per non dire dei marinai sempre ubriachi. Avevo avuto l’imprudenza di parlare della mia ricerca con una giovane recluta, a sua volta un dalmata. Ma lui prese a raccontare del mio amore per Cecilia, e in breve divenni vittima delle derisioni di tutta la centuria. Trovavo incisi sulle pietre i nostri nomi insieme con frasi ridicole e disegni osceni. Alla fine, facezie e ironie giunsero anche all’orecchio del centurione. Era un uomo di oltre quarant’anni, ma ancora forte come un toro. Ci osservava durante le esercitazioni. Ogni tanto si lisciava la barba già grigia. Quello era un brutto segno. Infatti, subito dopo, insolentiva qualche soldato. Secondo lui, eravamo donnicciole. Troppo fiacchi per diventare veri guerrieri. Troppo stupidi per essere capaci di manovrare in battaglia. Se la prendeva con tutti, ma da quel giorno il suo bersaglio preferito divenni io.

    Talvolta mi sarei buttato in mare per l’umiliazione. Resistevo pensando a Cecilia. Era l’amore dei miei sedici anni.

    Il centurione imitava la vocina di una ragazza. Oppure gesticolava la parodia di un efebo. Poi ne aveva per tutti.

    «E voi vorreste diventare fanti di Marina?», gridava ai soldati. Afferrava un malcapitato e lo stringeva fino a farlo svenire. «Siete soltanto in grado di recitare in una pantomima», e sputava. All’improvviso, sferrava pugni terribili contro qualche scudo. Chi lo riceveva, finiva quasi sempre a terra.

    «Donne», gridava a quel punto, «anzi, donnette!».

    Ricordo le marce. La centuria divisa in otto reparti sfilava per ore con gli elmi infuocati dai raggi del sole oppure sotto la pioggia battente. Io ero obbligato a seguirla insieme con gli altri apprendisti. Vennero l’anno nuovo e l’inverno. Il vento di settentrione era gelido, ma il centurione non ci permetteva di riposare. «Se vi fermate, diventerete pezzi di ghiaccio. Quando i nemici vi saranno addosso, non potrete mettervi a sedere. Allora sarò io a ridere».

    Ogni giorno escogitava una nuova sevizia. Al termine di quelle marce estenuanti, ci teneva in piedi, talvolta fino all’ora dodicesima. Camminava avanti e indietro davanti alla centuria schierata. Annunciava una punizione e poi si fermava all’improvviso. C’era sempre una posizione sbagliata. Un’arma fuori posto. Un elmo non abbastanza lucido.

    «Vi ho visto marciare», rideva senza alcuna allegria. «Voi non marciate. Beccheggiate come barche. Gettate una zampa davanti all’altra. Ondeggiate come orsi remando con le braccia. Così camminano i barbari».

    A quel punto si guardava intorno. Stringeva gli occhi come se volesse scoprire qualche smorfia di dissenso.

    «Barche», ripeteva, «oppure danzate sulle uova. Invece i legionari marciano con il busto fermo, i piedi dritti, non uno davanti all’altro come gli efebi che sculettano alla ricerca di qualche maschio. Ma neppure a gambe larghe come gli ubriachi».

    Un giorno in cui era di buon umore ci spiegò che marciare bene stanca meno. La stanchezza è la madre della sconfitta, diceva, mentre con le dita si chiudeva una narice per soffiare l’altra. «Sono le punte dei piedi delle vergini pudibonde che sembrano toccarsi. Non quelle dei soldati. Ma neppure dovete tenerle in fuori come le anatre».

    L’addestramento consisteva in corse, in duelli con spade di legno, in lotta greca e romana. Io, però, ne ero escluso. Spaccavamo ceppi. Sollevavamo massi. Infilavamo pali appuntiti tra i sassi delle pietraie. Quelle isole sono aride. Battute da venti molesti.

    Passavamo le giornate a costruire terrapieni, scavare trincee e a correre. Soprattutto correre con ottanta libbre sulle spalle. Alla fine di gennaio, in una delle giornate più orribili della stagione, il centurione ci obbligò a portare travi da cento libbre sulle spalle. Una corsa nella risacca, immersi in onde gelate che ci inzuppavano completamente. Quindi, mentre il sole stava diventando più caldo, incominciò a spiegarci le tattiche del combattimento: «Ricordatevi che la battaglia è vinta da chi spinge di più. Dovete abbracciare il nemico di fronte a voi. Provare a colpirlo in faccia con la parte superiore dello scudo. Intanto lo trafiggete dal basso verso l’alto. La vostra spada dev’essere un pugnale».

    Faceva sfoggio della sua arma. L’impugnatura non era di osso come le nostre, ma di un legno prezioso proveniente dall’India. Era una spada da ufficiali, lunga due piedi e mezzo, con l’elsa intarsiata.

    «Non perdete tempo a menare fendenti. Ci vuole spazio e, nel frattempo, verrete infilzati. Riparatevi dai colpi del nemico con lo scudo, e intanto afferratelo e ficcategli la spada nel ventre. Fino all’elsa. I fendenti sono roba da barbari. Di punta si uccide più rapidamente». Concludeva sempre con la stessa raccomandazione: «Non lasciate niente al caso. Non dovete farvi sorprendere dagli imprevisti. Le marce devono essere compiute in modi diversi a seconda dei luoghi. Ogni movimento va eseguito con ordine. La battaglia non è una rissa. Se un vostro compagno viene ucciso, non dovete tentare di vendicarlo subito. Quello è il modo migliore per essere uccisi a vostra volta. Rimanete nei ranghi e serrate. I barbari sono più alti e robusti di noi Romani, ma la battaglia non è una gara di pancrazio e in battaglia il nostro dovere è vincerli. Non vi preoccupate di sapere più di quanto vi dico. Sono gli ufficiali a conoscere la tattica. I soldati devono solo ubbidire».

    ***

    Un pomeriggio stavamo affilando le lame delle spade. Il centurione si aggirava tra noi per controllare l’operazione. Udivo i suoi urli. Non si limitava a minacciare di farci frustare o mettere in ceppi. Spesso lo faceva. Tremavamo vedendolo avvicinarsi. Ogni scusa poteva essere buona per venire puniti. Ormai nessuno nella centuria osava bere più vino del lecito.

    Mi si avvicinò.

    «Anche il nostro gentile innamorato è in grado di riconoscere un’arma?». Era capace di un cinguettio odioso. Intorno tutti si misero a sghignazzare.

    «Stai accarezzando la spada, ma non è la tua bella. Ora lei starà spassandosela con qualche barbaro nerboruto».

    Aspettavo che ridesse di me. Invece mi dette un buffetto.

    «Non te la prendere troppo», disse, «di donne è pieno il mondo. Devi assaggiarne una e l’innamoramento passerà. È questione di lombi».

    Rimasi sorpreso per la sua imprevista affabilità e gli rivolsi un sorriso di gratitudine.

    «Sei ancora un ragazzo», mi agitò il suo dito indice davanti al naso, «ma non per questo devi essere il più molle. E poi solo io ho il diritto di deriderti».

    «Grazie», mormorai.

    «Vieni da Salona. Hai la famiglia laggiù?»

    «Sì. Avevo un fratello, ma è stato ucciso dai pirati».

    «Lo so. Ma se vuoi diventare un soldato dovrai tenere a mente che l’esercito non si occupa di vendette private. Che cosa fa tuo padre?»

    «È uno scrivano».

    «Pubblico?».

    Esitai qualche istante.

    «No. È un liberto. Di un senatore molto potente».

    Il centurione gonfiò il petto e sospirò. Era davvero un colosso.

    «Ho capito. Uno di quei nobili incapaci che spesso affliggono anche l’esercito». Mi guardò fisso negli occhi. «Ricordati, Diocle, che l’impero è qui». Indicò con un ampio gesto delle mani i soldati che pulivano le loro armi. «Guardali. Non credere che io li disprezzi. Sono gente umile che non ha mai visto l’Urbe madre dei popoli, se non in sogno. Io sono simile a loro. Non sono mai stato a Roma e forse non ci andrò mai. Ma Roma non è un luogo. Roma siamo noi».

    ***

    Alla fine di marzo – era il 1010 dalla fondazione dell’Urbe – arrivò l’ordine di partenza. Le navi salparono dal porto di Naxos, dirette a settentrione. Il vento era favorevole e arrivammo a Chios in due giorni. Ci rifornimmo di acqua e di verdure fresche e proseguimmo per altri tre giorni dopo una breve sosta nell’isola di Lesbo.

    Ormai era chiaro. La nostra destinazione era proprio il Ponto. Il navarca ci indicò sulla nostra destra la collina di Troia, da cui Enea era fuggito per approdare nel sacro Lazio. Eravamo già in vista dell’Ellesponto.

    La navigazione lungo lo stretto fu difficile a causa del vento contrario. Al posto delle vele le navi avanzarono a forza di remi fino a quando sboccammo nella Propontide, un mare simile a un vasto lago. Costeggiammo la riva meridionale fino a Nicomedia. Fu il mio primo incontro con la regale città che ho reso capitale della parte più nobile dell’impero. A quel tempo non era ancora stata ferita dalla terribile incursione dei Goti. Il tempio di Giove risplendeva sotto le sue tegole di bronzo dorato e i cittadini non avevano esaurito il loro denaro per ricostruire le case distrutte.

    Lasciammo Nicomedia in una splendente giornata di primavera. Trascorsi due giorni, entrammo nel Bosforo. Gli equipaggi non avevano ottenuto il permesso di sbarcare a Calcedonia e sfilammo davanti a Bisanzio arroccata sulla sua acropoli. Lungo lo stretto in alcuni punti vi erano ville e piccole città. Oppure rocce scoscese piombavano sul mare. Altrove i boschi di cipressi e di cedri scendevano dolcemente fino a essere lambiti dalle onde. Visioni incantevoli, soprattutto al mattino, quando una lieve foschia rendeva ovattate le cose. Dopo un’altra giornata di navigazione con la corrente contraria, l’orizzonte si aprì. Le coste erano fuggite dai due lati. Si presentò davanti a noi una distesa infinita increspata dai balzi dei delfini. Eravamo entrati nel Ponto.

    ***

    La nostra navigazione proseguì verso Oriente. Ormai la squadra era formata da cinque triremi e otto biremi. Imbarcavano una coorte di fanti di Marina. Avevamo onagri, baliste, una quantità di proiettili di varie forme e dimensioni, centinaia di faretre colme di dardi, oltre a giavellotti e ad alcuni arieti.

    Costeggiammo la riva meridionale del Ponto. Il paesaggio era piuttosto somigliante a quello del Bosforo, ma più maestoso, con alte montagne che si scorgevano lontane. Fummo anche costretti a ripararci da una tempesta primaverile. Eolo imperversò per alcuni giorni. Sollevò onde che avrebbero sommerso le navi, se non ci fossimo riparati nel porto di Eraclea Pontica, finché, alle Idi di aprile, fummo in vista di Sinope. Una città grande e ricca, distesa sui due lati di un promontorio che è il punto più settentrionale dell’Anatolia.

    Sinope era stata la patria di Diogene il Cinico e si trovava a metà strada tra il Bosforo e la Colchide. Man mano che le navi muovevano verso Oriente, venivo preso dall’emozione. Era possibile che mi stessi avvicinando a Cecilia? Un veterano era stato laggiù e mi ripeteva la leggenda degli Argonauti alla ricerca del Vello d’Oro. Mi parlò di montagne talmente alte che le vette sono sempre invisibili. Di vigneti che producono un vino riservato agli dèi dell’Olimpo. Gli chiesi di Pityus, ma lui non vi era mai stato. Provai a informarmi da altri. Qualcuno mi disse che i Goti imperversavano sulla costa del Caucaso. Ma non seppi altro e rimasi preda delle mie preoccupazioni.

    Lasciata Sinope, navigammo per due settimane con un solo breve scalo ad Amiso. Le giornate a bordo trascorrevano monotone. Il centurione ci obbligava a continui esercizi fisici, ma lo spazio sulle navi era troppo angusto per le corse: la trireme era lunga centoventi piedi e larga meno di trenta. Inoltre i marinai si muovevano tra noi e urlavano perché intralciavamo le loro manovre. Pertanto la maggior parte del tempo la trascorrevo a guardare i paesaggi così mutevoli, se visti dal mare. Scrissi anche alcune lettere ai miei genitori. Avevo ricevuto loro notizie prima di partire da Naxos e provai a tranquillizzarli. La nostra missione non era pericolosa. Era una piacevole navigazione in acque romane. Descrissi la bellezza delle coste dell’Anatolia, la frescura del clima e l’armonia delle città che avevo avuto la ventura di visitare.

    Un giorno – ero alle prese con il rancio dell’ora decima – sentii un grido strozzato. Proprio vicino a me vidi un soldato sotto una ruota di cordame. Con un balzo riuscii a bloccarla e il malcapitato fu estratto, ferito ma vivo. Ci fu un lungo applauso. Io mi limitai a rimettermi a sedere dov’ero prima, accanto a uno dei boccaporti.

    La stessa sera fui avvicinato dal centurione.

    «Davvero sorprendente», borbottò. «Una femminuccia che salva la vita a un soldato». Eppure il suo sguardo rivelava compiacimento. Gli rivolsi un sorriso timoroso. Il centurione mi si sedette accanto.

    «Non credere che io non noti quanto accade». Si stirò sbadigliando.

    «Per quanto possa apparire incredibile, Diocle di Salona, un giorno non lontano potrai diventare un fante di Marina».

    Questa volta mi alzai di scatto.

    «Il merito è tuo, centurione», feci. Ero sincero.

    «Lasciamo stare. Saranno gli dèi immortali a giudicare. Ma tu devi continuare così. Sai cosa mi è più piaciuto di quanto hai fatto?». Naturalmente non lo sapevo. «È stata la rapidità con la quale hai dato l’allarme. E poi…».

    «E poi?», mi azzardai a domandare.

    «Tu hai dato ordini. Hai comandato i marinai e lo hai fatto nel modo giusto. Proprio così: rapido ed efficiente».

    Mi dette una manata su una spalla e si alzò. Vidi che faticava un poco a rizzarsi su un ginocchio. Lui si accorse del mio sguardo.

    «Allora non ti sfugge niente», disse. «Purtroppo hai indovinato. Ho quarantaquattro anni e ventisei di servizio». Si allontanò di qualche passo, ma poi tornò verso di me. «Attenzione, Diocle. Non ti inorgoglire. In questi mesi hai fatto appena un piccolo passo. Dovrai percorrere ancora un miglio, e non sarà facile».

    ***

    Da quel giorno mi sembrò di essere un altro. Nessuno osava più deridermi. Ero il primo a scattare per le esercitazioni, il più tenace nel resistere alla fatica. I miei muscoli erano diventati più forti. Il sole aveva reso più scura la mia pelle. Intanto seguivo con attenzione i segni del cielo. Da dove arrivavano gli stormi di uccelli migratori, oppure le aquile che volavano alte, i tuoni di un temporale che non ci avrebbe raggiunto. Il padre Giove mi inviava i suoi messaggi. Compivo i quotidiani riti propiziatori. Ma per fortuna non ero superstizioso allo stesso modo dei soldati. Piuttosto ero attento ai prodigi. Pensavo ai Dioscuri apparsi durante la battaglia del lago Regillo. Ad Apollo che colpiva con le sue frecce i nemici di Ottaviano ad Azio. Affacciato alla murata della trireme, vedevo le altre navi in fila ordinata: alcune davanti a noi, altre dietro. Immaginavo lo sguardo benevolo dei Numi di Roma che ci proteggevano.

    Da dieci anni l’impero era straziato dai barbari. Ma ora era giunto il momento della riscossa, della tradizione dell’Urbe e del coraggio dei suoi soldati. Pensavo a tutto ciò mentre entravamo nel porto di Trebisonda. L’orgoglio di un romano si confondeva con il desiderio di ritrovare Cecilia. Era il desiderio struggente di lei e la volontà di salvarla.

    ***

    Trebisonda era una grande città abitata da genti diverse. Vi si incontravano Greci, Armeni, Ebrei, Iberi dalle barbe arricciate in treccioline alla moda dei Persiani, e Sciti dal volto schiacciato privo di espressione. Anche Goti del Bosforo Cimmerio. Si aggiravano come cani affamati insofferenti alle catene. Il porto era artificiale, costruito al tempo dell’imperatore Adriano su una costa che, per decine di miglia, è priva di approdi sicuri. Il faro, con la sua grande fiamma e gli specchi che ne moltiplicavano la luce, era ben visibile da miglia e miglia di distanza.

    In città le botteghe erano piene di mercanzie. Vi erano esposte le prime ciliegie della stagione, che si dice siano le migliori del mondo. Le mele sembravano provenire dal giardino delle Esperidi. Poi un olio profumato ottimo per detergersi dopo una giornata di fatica, velli di montone ben conciati, fichi secchi e uva passita affogata nel miele. Si vendevano pergamene e anfore recanti decorazioni dedicate al ricordo dei Diecimila, che proprio a Trebisonda avevano raggiunto la salvezza al termine della lunga ritirata tra le montagne dell’Armenia. Nelle ore di libera uscita mi aggiravo per le strade alla ricerca di notizie su Pityus. Circolavano voci contraddittorie. Alcuni dicevano che la città era stata attaccata dai Goti. Altri mi rassicuravano. Pityus era salva grazie all’intervento di Successiano, un abile generale dell’imperatore Valeriano.

    Grande fu dunque la mia sorpresa quando la coorte fu schierata all’interno dell’accampamento e fu proprio Successiano a passarla in rassegna. Era un legato di legione, però faceva parte dello Stato Maggiore imperiale. Valeriano lo aveva mandato a Trebisonda per comandare la guarnigione.

    Successiano era abbastanza giovane. Era un trace dalla voce tonante. La sua allocuzione fu breve ma veemente. Scandiva le parole come se ognuna fosse decisiva. Poi pronunciò il nome della meta della nostra spedizione e per poco non svenni. Era Pityus. Proprio Pityus. Dovevamo liberarla dai Goti che l’assediavano.

    Nei giorni successivi, fui preso da una specie di frenesia. Raddoppiai gli sforzi. Al termine dell’addestramento quotidiano rimanevo nel campo delle esercitazioni. Colpivo i fantocci di legno con una tale forza che ne spaccai alcuni. Il mio giavellotto volava lontano. Scoprii che soltanto alcuni veterani erano capaci di fare meglio di me. Il centurione si accorse di quei miei esercizi serali. Non me li impedì. Anzi, ne sembrava compiaciuto. Prese a seguire i miei progressi quasi fossero i suoi. Mi dette consigli e incoraggiamenti.

    Una sera lo sentii avvicinarsi. Si parò davanti alla mia tenda con il suo corpo massiccio. Era seguito da uno schiavo che gli portava le armi. Per la prima volta vidi la sua corazza. Il volto di Medusa era orribile e minaccioso, al punto che voltai la testa.

    «Renderà statue di pietra i barbari». Si batté un pugno sul petto e respirò profondamente. «Tra due giorni sarà il plenilunio e partiremo». Poi fece un cenno affermativo come per confermare quanto aveva detto. «So cosa ti spinge», mostrò la sua bocca sdentata in quello che voleva essere un sorriso. «E gli dèi ti hanno esaudito».

    ***

    Il Ponto è un mare infido. I venti di tramontana arrivano dalle pianure della Scizia. Sollevano onde alte dieci piedi. Per questo motivo era necessario seguire la costa lungo una rotta di trecento miglia. La navigazione durò due settimane e Nettuno, che i Greci chiamano Poseidon, ci fu propizio. Di sera, al tramonto, scrutavo il mare per scorgere Nereidi e Tritoni. Lungo la costa si vedevano montagne e fitte foreste. Finalmente, superato Asparo, apparve la pianura della Colchide. Le navi furono ancorate presso Fasi. Successiano, seguito dagli ufficiali, si recò in pellegrinaggio al tempio di Diana Fasiana, dove venivano allevati i fagiani sacri. Una banda di Goti aveva tentato di saccheggiare questo tempio, ma si diceva che proprio gli uccelli l’avessero messa in fuga.

    La navigazione proseguì in vista di campagne coltivate. Frutteti, vigne, alberi di limoni. Più a settentrione, maestose montagne presero di nuovo a incombere sul mare e giungemmo nel porto di Dioscuria, dove imbarcammo decine di otri di un’acqua sorgiva, la più salubre della regione.

    Eravamo ormai vicini alla meta. Dietro ogni promontorio speravo di veder apparire Pityus. Intanto i contrafforti del Caucaso si avvicinavano sempre più alla costa. Spiagge assolate di ciottoli, di un bianco abbagliante, si alternavano a rocce sulle quali erano abbarbicati cedri maestosi. Le montagne dalle vette innevate erano in gran parte nascoste da nuvole minacciose. Ma queste erano respinte dal vento Favonio e non riuscivano a raggiungere il mare. Infine, verso l’ora quinta di un giorno di fine giugno, vedemmo una lingua di pineta nascondere lo scintillio di una laguna. Là c’era proprio Pityus.

    ***

    Il cielo era terso e il vento ci spingeva verso terra quando, doppiato il promontorio, ci apparvero le scie di fumo dei proietti incendiari. Udivamo un fragore indistinto. Era l’assedio. I barbari stavano bersagliando le mura. Un baluardo formidabile ma, a giudicare dal numero dei nemici che vi correvano intorno con scale e arieti, difeso da una guarnigione troppo esigua.

    La città era situata all’estremità di un golfo boscoso, non lontana dal fiume Corax. In origine era difesa da quattro fortilizi. Uno si trovava a meridione, lungo la strada che portava verso i contrafforti del Caucaso. Altri due, distanti un giorno di navigazione, avrebbero dovuto impedire l’accesso dalla costa e da Oriente. Ma, come appresi in seguito, erano in stato di abbandono e i barbari se ne erano impadroniti. Ne rimaneva presidiato uno, accanto al fiume. Era protetto da due fossati e un muro con torri in mattoni. Un vallo che arrivava fino al Corax era stato invece abbattuto dai Goti. Nel forte, erano insediate due centurie con alcune baliste, ma non erano in grado di soccorrere la città.

    Il porto di Pityus era protetto da una muraglia e si trovava a settentrione del foro. Dal nostro punto di visuale, era impossibile capire se i barbari vi erano penetrati. Infatti alle nostre navi fu ordinato di non doppiare il promontorio. Successiano, dalla trireme ammiraglia, segnalò che dovevamo sbarcare sulla spiaggia e tirare le navi in secco.

    Quanto è accaduto, dopo è noto. I soldati scesero nell’acqua bassa e raggiunsero rapidi la riva. Tenevano scudi e bisacce sopra la testa per evitare che si bagnassero. Per fortuna il mare era privo di onde e il sole talmente caldo che ci asciugammo in meno di mezzora. Anch’io fui autorizzato a seguire i fanti di Marina, nonostante non fossi ancora arruolato.

    Poiché la pineta si trovava tra noi e la città, le navi non erano visibili dalle mura. I Goti e i loro alleati Borani non si aspettavano il nostro sbarco. Non c’erano sentinelle sulla spiaggia che, nascosta dagli alberi, distava mezzo miglio dalla città. Percorremmo sentieri coperti di aghi di pini e piombammo all’improvviso sugli assedianti.

    Il nostro distaccamento era costituito da due coorti di quattrocento uomini l’una. I barbari erano quattro volte più numerosi ma sparsi un po’ ovunque. La sorpresa fu totale. Sulle prime i Goti non si resero conto di quanto accadeva. Poi, presi alle spalle, non ebbero il tempo di valutare la consistenza di chi li attaccava.

    Nel frattempo, i difensori sugli spalti esultavano. Raddoppiarono le razioni di olio bollente e le raffiche di proiettili gettati dalle baliste. Noi catturammo gli onagri dai quali venivano scagliati i proiettili incendiari. Rovesciammo la pece incandescente che bolliva sui bracieri. Rivoli di fuoco presero a scendere lungo il declivio sotto le mura e investirono gruppi di Goti in fuga.

    La battaglia – se pure quella strage potesse considerarsi tale – durò meno di due ore. Alla fine catturammo centinaia di barbari. Successiano fece decapitare i comandanti. Gli altri prigionieri furono messi in catene. Ma io ero già impaziente di entrare in città. Avrei trovato Cecilia e l’avrei liberata dalla schiavitù.

    ***

    Era stata una grande vittoria. Da quando si erano insediati nel Bosforo Cimmerio, i Goti non avevano mai subìto una simile disfatta. Io avevo fatto la mia piccola parte. Avevo distribuito le faretre, raccolto le armi cadute, soccorso i feriti, portato ordini. A un tratto vidi un barbaro che stava per colpire alle spalle un soldato e lo abbattei con la lancia. Era il secondo uomo che uccidevo. Provavo al contempo eccitazione e ribrezzo. L’uomo si era voltato con un movimento repentino. Aveva la punta dell’asta infissa nel fianco, eppure aveva mosso qualche passo verso di me finché la spada non gli era scivolata dalle mani. I suoi occhi erano diventati opachi e lo avevo visto cadere.

    Infine le porte di Pityus si spalancarono. Successiano ordinò a tribuni e centurioni di riordinare le file e le due coorti entrarono in città come in una parata. Nel combattimento avevamo perduto appena una dozzina di uomini. Nessuno dei nostri era stato catturato dai nemici.

    Avevamo visto i Goti correre in disordine verso le loro barche. Si nascondevano sotto le tettoie di legno incatramato. I loro prigionieri bosforani remavano, minacciati dalle armi. Alcune barche si rovesciarono. Altre furono raggiunte dai soldati. Quelle superstiti si dileguarono e, poiché le nostre navi erano state tirate in secco, non fu tentato alcun inseguimento.

    «Meglio che raccontino della nostra vittoria», disse il centurione. Era coperto di polvere. La corazza era imbrattata di sangue goto. Aveva soltanto una piccola ferita su una gamba. «Il prossimo anno potrai essere arruolato e, in breve, comanderai una decuria. Ti ho visto nella battaglia. Non c’era traccia di paura sul tuo viso». Era vero. Nel tumulto ero stato soprattutto impegnato a svolgere con attenzione le mie modeste mansioni. Non avevo temuto di essere colpito.

    «Sarai un buon soldato. Potrai diventare un legionario. Noi fanti di Marina siamo i fratelli poveri nella grande famiglia dell’esercito». Fece una risata. «Si entra nell’esercito umili e si esce rispettabili. Talvolta vivi e con una bella lapide».

    Trovammo la città pressoché vuota. La maggior parte degli abitanti era fuggita verso le montagne. Sulle colline alle pendici della catena del Caucaso c’erano villaggi fortificati nei quali gli abitanti della costa avevano preso l’abitudine di rifugiarsi.

    La stessa sera presi ad aggirarmi per le strade di Pityus. C’erano molti feriti e, tra i cittadini che non erano riusciti a fuggire, numerosi ammalati. La fame ne aveva scavato i volti. I caduti raccolti sugli spalti furono arsi fuori dalle mura su pire funebri.

    Trascorsi una notte di delusione. Non riuscivo ad addormentarmi, nonostante la stanchezza della giornata. Soltanto prima dell’alba caddi in un sonno agitato. Mercurio scivolò silenzioso accanto a me, seguìto dai sogni effimeri che distribuisce ai mortali. Poi la luce estiva mi svegliò che non era ancora l’ora prima. Si udiva un brusio, voci, richiami, rumori di ruote. Zoccoli di animali. I profughi stavano rientrando in città.

    ***

    Quella ricerca affannosa, eppure colma di eccitazione, la ricordo come un momento di ebbrezza. Era l’appuntamento che avevo atteso per due anni. A ogni angolo di strada mi pareva di vedere la figurina di Cecilia con il suo cestino di frutta. Poi le apparizioni svanivano mostrando altre persone, altre facce, donne sofferenti per le privazioni. Allora venivo colto da attimi di sconforto. Se il giovane maltese si fosse sbagliato? Se Cecilia non fosse mai stata a Pityus o se non ci fosse più? O, peggio, se non fosse più tra i vivi?

    Il centurione mi aveva permesso di allontanarmi per tutta la mattina. Ovunque era la desolazione. La città era stata assediata per settimane. Molte case presentavano i segni del fuoco provocato dai proiettili incendiari. Ovunque c’erano uomini e donne feriti, con cancrene ormai incurabili. Gli affamati erano troppi. Le provviste che avevamo a bordo non erano sufficienti a nutrirli.

    Successiano mandò squadre di soldati a requisire tutto il cibo possibile nelle campagne circostanti. Ma man mano che gli abitanti rientravano in città, la situazione diventava più critica. La prima giornata dopo la battaglia si era conclusa nello scoramento. Non avevo trovato Cecilia e lentamente si insinuava in me il pensiero che non l’avrei trovata mai più.

    Al mattino seguente ripresi le mie ricerche. Dapprima mi aggirai nel quartiere tra il foro e il porto. Poi mi recai dalla parte opposta. A un tratto mi persi in un dedalo di viuzze. Vidi una donna con un lattante a tracolla e mi avvicinai per chiederle informazioni. Lei si voltò scostando il velo che le ricopriva la testa. Era incinta, ed era Cecilia.

    In un attimo strinse il bambino a sé quasi per impedire che l’emozione le facesse aprire le braccia. Rimanemmo per qualche istante – ma in realtà potevano essere passati minuti – a guardarci. Lei a bocca aperta con il labbro inferiore che tremava. Io svuotato di forze, con le mani improvvisamente gelate.

    Infine pronunciammo all’unisono i nostri nomi. Poi Cecilia mormorò: «Sei proprio tu?». Riuscii soltanto ad annuire. «Come hai fatto a trovarmi?»

    «L’ho voluto», dissi.

    Lei fece un cenno con la testa come dire che era normale. Accettava quanto stava accadendo. Ma aggiunse: «Abbiamo sofferto molto qui in città. I barbari sono crudeli. Ci avrebbero sterminati. Molti erano fuggiti sulle montagne, ma i Goti li avrebbero raggiunti. E sulle montagne ci sono tribù di Alani più selvaggi di loro».

    «Ero venuto a liberarti», feci. Mi accorsi di aver parlato al passato.

    «Da che cosa?». Mi mostrò il bimbo che dormiva appoggiato sul suo seno e il ventre gravido. «Il mio padrone è anche il padre dei miei figli. È un uomo buono, un cristiano».

    «Ma tu devi tornare a Salona. Nella tua casa. Verrai via con me». Una sensazione di incertezza mi prese allo stomaco.

    Cecilia mi rivolse un sorriso. Sembrava tranquilla.

    «No, Diocle, questa è ormai la mia città e qui è la mia casa. Ora che i barbari sono stati scacciati, riprenderà il corso normale della vita».

    «La tua vita non deve essere quella di una schiava in una sperduta città del Ponto!».

    «E perché no? Pityus tornerà a

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