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Dark Games
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E-book214 pagine3 ore

Dark Games

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Bestseller del New York Times

Una ragazza senza nome e senza memoria si sveglia sui binari della metropolitana e l’unica cosa che è in grado di ricordare è che qualcuno la vuole morta. Con sé ha solo uno zaino e un coltello e sul polso ha uno strano tatuaggio con un uccello nero. Sunny deve scoprire chi è davvero e perché qualcuno sta cercando di ucciderla. Sente che la sua vita è in pericolo e l’istinto le dice che deve darsi da fare per salvarsi. Non è facile riuscire a capire cosa stia succedendo. Probabilmente è in corso una caccia all’uomo… E la preda è lei.

Coinvolgente come Hunger Games
Adrenalinico come Divergent

«Questo libro fa ben sperare per il futuro della letteratura di genere.»
Kirkus Reviews

«Un susseguirsi di colpi di scena tiene il lettore avvinto, per cercare di indovinare chi dica la verità.»
School Library Journal

«Una storia che va veloce come un treno, capace di disorientare abilmente.»
Kass Morgan, scrittrice bestseller del New York Times
Anna Carey
Si è laureata presso la New York University e ha conseguito un master in Letteratura al Brooklyn College. Attualmente vive a Los Angeles.
LinguaItaliano
Data di uscita27 set 2016
ISBN9788854199309
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    Anteprima del libro

    Dark Games - Anna Carey

    Capitolo 1

    Il treno trattiene il calore, nonostante il sole sia tramontato sulla banchina già da un’ora, scomparendo sotto la distesa della città. Alla stazione di Vermont/Sunset, una donna cinese con un austero caschetto nero si sporge sul binario per capire se il convoglio sta arrivando. Un gruppo di ragazzi delle superiori sta sotto il cartellone pubblicitario di un programma televisivo, scambiandosi le cuffiette degli iPod e discutendo di un tizio chiamato Kool-Aid. Questo fine settimana darà una festa a Echo Park, mentre i genitori sono fuori città per accompagnare la sorella che si trasferisce all’università.

    Non li senti ridere. Loro non ti vedono, stesa in fondo al binario, dove la galleria scompare nel buio. È la vibrazione a svegliarti, alla fine, le palpebre sbattono e si aprono, metti a fuoco il soffitto a volta sopra di te. Le tempie pulsano forte. Le tue spalle sono in mezzo alle rotaie, la spina dorsale premuta nell’incavo del suolo, insieme a carte di caramelle e a giornali logori vecchi di mesi.

    La tromba del treno risuona. Una scheggia di luce compare sulle mattonelle del muro, schizzando via all’avvicinarsi del convoglio. Alzi la testa, accostando il mento al petto, ma il corpo è pesante. Le gambe sono ancora insensibili e muovere i fianchi è difficile, è difficile muovere qualsiasi muscolo per quanto ti sforzi, cercando di trascinarti nello spazio stretto sotto la banchina. Ricadi indietro, esausta, e proprio allora spunta il treno all’ingresso della galleria. All’improvviso, la luce ti investe.

    Il macchinista ti ha visto. Il suono cambia – adesso, i freni stridono più forte, più acuti. È tardi. Va troppo veloce. Ti rimane una sola scelta. Ti distendi, incrociando le braccia sul petto.

    Tre, due, uno. All’inizio c’è solo rumore, lo sferragliare delle ruote sulle guide di metallo, la raffica d’aria smossa dal treno. Il suo alito caldo ti scompiglia i capelli. Fissi il ventre scuro della macchina, metallo, tubi e cavi. Quando finalmente rallenta, fermandosi in stazione, impieghi qualche secondo per elaborare: sei ancora lì distesa, ti sei salvata per qualche centimetro. Sei ancora viva.

    Sulla banchina, la donna con il caschetto nero non crede ai suoi occhi. Quando il macchinista scende dalla cabina, le lacrime le rigano gli occhi. «C’è una ragazza là sotto. Non l’ha vista – c’è una ragazza!», grida.

    Il macchinista non riesce a pensare ad altro: Era stesa, non riusciva a muoversi, perché era stesa lì? È il quarto che vede in ventisei anni, ma i tre precedenti erano diversi. Non erano come lei. Alcuni stanno in piedi, altri si buttano. Altri ancora erano caduti e cercavano di risalire sulla banchina. Ma lei era stesa, e basta. In una posizione precisa, con le braccia incrociate sul petto, le spalle all’interno delle rotaie. È troppo strano, pensa. Come se qualcuno l’avesse lasciata lì.

    Da sotto il treno, senti la donna che grida. La voce si rompe, un uomo cerca di consolarla. Nello spazio fra il vagone e la parete della banchina le ombre si muovono. Suona un campanello e le persone si allontanano in file ordinate, i passi scanditi dalle domande.

    «Sto bene», gridi. La tua voce ti sorprende. È fioca e rauca, come quella di una bambina.

    Sulla banchina, un uomo ripete le tue parole. «Sta bene!». Si è fatto largo fra la folla ed è inginocchiato a qualche metro di distanza.

    Il macchinista grida: «Ti sei fatta male?».

    A prima vista sembra carburante, un rivolo sul lato del braccio che finisce sulla maglietta. Il sangue è scurissimo, quasi nero. Eppure, non senti male, solo una sensazione di calore, come se fossi attaccata a un termosifone.

    «Tutto okay», ripeti. Il taglio non può essere più lungo di dieci centimetri. Non sembra molto profondo. Il macchinista discute con un collega se sia o meno il caso di spostare il treno. Fanno una chiamata radio per consultare la direzione, mentre la donna con il caschetto squadrato chiama l’ambulanza, raccontando in modo frenetico l’accaduto. Manderanno subito i soccorsi.

    Ti sembra di essere lì da sempre. Non riesci a guardare la pancia del treno senza che ti venga voglia di urlare. Quindi chiudi gli occhi, cercando di premere le braccia sul corpo e di guadagnare un po’ di spazio, per sentirti meno oppressa. È automatico, rallenti i respiri, li conti, lasciando che fra le labbra socchiuse passi solo un filo d’aria.

    Finalmente, la sirena dell’ambulanza, il rumore dei medici che si riuniscono sul binario. Ti danno indicazioni, gridano, ti dicono dove mettere le braccia e le gambe, come se potessi avere l’ardire di muoverti. Il treno finalmente si sposta. Stai guardando la pancia della metropolitana che ti passa sopra. Poi, scompare e rimane solo l’aria. Le gambe hanno ripreso sensibilità. Sei in grado di sederti, ma due uomini in divisa saltano giù dalla banchina con una tavola, e ti ci mettono sopra. Solo allora noti lo zaino nero ai tuoi piedi.

    «Cos’è successo? Come sei arrivata qui?», chiede uno dei dottori mentre ti issano sopra la banchina.

    Guardi i tuoi vestiti, osservi un corpo che ti sembra completamente sconosciuto. Il davanti della maglietta è intriso di sangue. Indossi jeans e scarpe nuove. I lacci sono rigidi, bianco fluorescente.

    «Non lo so», rispondi, incapace di capire che ora o che giorno sia, incapace di richiamare alla mente un solo dettaglio della tua vita. Esiste solo quel momento, nient’altro.

    «Non ricordi? Come ti chiami?». Il secondo medico è un uomo basso e tozzo, con il braccio destro ricoperto di tatuaggi. La vista dei due teschi, delle rose attorcigliate intorno alle ossa, fa scattare qualcosa in te. Tristezza? Dolore?

    Sistemano la tavola sulla banchina, e uno dei due inizia a tirare fuori vari oggetti dalla borsa. «Sto bene. Sto bene», ripeti, guardando la scala mobile a pochi metri di distanza. È l’unica uscita.

    Uno dei medici ti punta la luce negli occhi, poi dentro la bocca. Ti alzi a sedere, strisciando giù dalla tavola, sul pavimento di cemento. Stringi la borsa al petto. «Non ho bisogno d’aiuto», esclami. «Sto bene».

    «Non stai bene», insiste il dottore. «Come ti chiami?».

    Intorno a te si è riunito un capannello di persone. Cerchi nella tua mente, ma sembra una stanza vuota, senza cuscini del divano da rivoltare, né armadi o cassetti in cui frugare. Afferri la cerniera dello zaino, fingendo di sapere cosa contiene.

    Cibo avvolto nella stagnola, acqua, una coperta, una maglia di ricambio, un coltellino rosso e un mucchietto di altri oggetti sul fondo, troppo lontani per raggiungerli. Le mani si dirigono verso il minuscolo taccuino nero in cima, con una penna infilata nella copertina. Sulla prima pagina è attaccato un quarto di dollaro.

    Sotto, c’è scritto: Non contattare la polizia. Quando sei da sola, chiama 818-555-1748.

    Ti alzi, girando intono ai due medici sbigottiti, oltrepassando i curiosi e allontanandoti nella stazione soffocante. «Non puoi andartene così», dice il dottore. «Qualcuno la fermi. Non è in sé».

    Quando sali la scala mobile sei ancora frastornata. Ti lasci la folla alle spalle. Oltrepassi i tornelli. Le scale salgono sempre di più, i gradini sono infiniti. Mentre corri, alcuni passanti ti chiamano, uno ti segue, ti chiede di sederti a riposare.

    «Non andartene, aspetta. Non andartene».

    Non c’è tempo. Quando arrivi in cima alle scale, un’auto della polizia sta già svoltando l’angolo. Accosta sul marciapiede. Lanci un’occhiata all’incrocio. Le vie si chiamano Sunset e Vermont. Ci sono uffici, negozi di panini e chioschi di frullati. In che direzione devi andare?

    Ti volti e vedi il medico con i tatuaggi. È insieme al poliziotto, gli parla sottovoce. L’agente muove qualche passo verso di te, a metà fra una camminata e una corsa. Ed è allora che prendi una decisione. Afferri le cinghie dello zaino e inizi a correre.

    Capitolo 2

    L’unico suono è il rumore dei tuoi respiri, il lieve scalpiccio delle scarpe da ginnastica sul marciapiede. I passi sono decisi, facili, la schiena dritta come se ti tirassero dall’alto. Tagli per il cortile di una casa e scavalchi una staccionata bassa di legno. Lentamente, isolato dopo isolato, il quartiere si inerpica sulle colline aride, il panorama si intravede oltre gli alberi.

    Poco più avanti c’è una casa. Tetto di tegole, siepi alte. La finestra a mezzaluna sulla facciata è buia. Oltrepassi il cancello ed entri nel giardino, notando un cespuglio fiorito lungo qualche metro. Strisci là sotto, appoggiando la pancia sulla terra fredda che ti dà un temporaneo sollievo dalla calura.

    Rimani lì quando passa la volante della polizia, la quale si ferma diverse volte mentre ridiscende la strada tortuosa. Ti volti sul fianco, ed è allora che noti il segno sul polso destro, all’interno. È ancora dolorante e il tatuaggio è ricoperto da una crosticina sottile. La sagoma di un uccello dentro un riquadro. Sotto, una serie di lettere e di numeri: FNV02198.

    Che significa? Perché eri stesa sulle rotaie della metropolitana? Perché non ricordi come sei finita lì, come sei finita in quella stazione, in questa città? Guardi i tuoi abiti, e ti sembra di essere mascherata. I jeans non sono della taglia giusta, la maglietta è larga nei punti sbagliati e il nodo alle scarpe è lento. Non riesci a scrollarti di dosso la disgustosa sensazione di non esserti vestita da sola.

    Un cane abbaia. Da qualche parte, due bambine ridono, le voci vanno e vengono al ritmo dell’altalena cigolante su cui stanno dondolando. Sotto, nella strada, passano alcune macchine. Rimani seduta e ascolti ogni suono, come se potesse rivelarsi un indizio. Pensa, ti ripeti. Ricorda. Invece, niente. Neanche una parola, neanche un pensiero. Nessun ricordo di ciò che è accaduto prima.

    Quando il cielo passa dal rosa al nero, strisci sul prato e rovesci il contenuto dello zaino sull’erba ingiallita, disponendo tutti gli oggetti in fila. Ci sono alcune fascette di plastica. C’è una cartina con su disegnata una stella nera a penna. Sacchetti di alluminio, la maglietta, il taccuino e il coltello, la coperta, una fialetta rossa di spray al peperoncino.

    Frughi nelle altre tasche, controllando per bene la fodera in modo da assicurarti che non ci sia niente nascosto all’interno. Nello scomparto anteriore, c’è una mazzetta di banconote. Le conti con mani tremanti. Sono mille dollari.

    Apri il taccuino e cerchi una pagina bianca, distendi la carta e scrivi:

    Cose che di sicuro sono vere:

    • Mi trovo a Los Angeles

    • Mi sono svegliata sulle rotaie della stazione Vermont/Sunset

    • Sono una ragazza

    • Ho i capelli lunghi e neri

    • Ho un uccellino tatuato all’interno del polso destro (FNV02198)

    • Sono una fuggitiva

    Capitolo 3

    La mattina dopo, sgattaioli fuori da un’apertura nella staccionata, sul retro della casa. Dopo dieci minuti di cammino lungo le discese tortuose e strette, la zona torna pianeggiante, fra abitazioni con i prati bruciati dal sole e un negozio di tanto in tanto. Sulla via principale scorgi un supermercato con un telefono pubblico all’esterno. Prendi il taccuino dallo zaino e lo apri alla prima pagina, staccando il quarto di dollaro.

    La moneta cade nella fessura, ma non c’è linea. Posi la cornetta e scruti la strada, nella speranza che ci sia un’altra cabina in quell’isolato o al massimo nel prossimo. Invece, vedi solo l’auto della polizia che varca l’ingresso più lontano. Sei ancora nei pressi della stazione della metropolitana, e ti chiedi se stiano cercando te. Non vuoi rischiare. Ti dirigi all’interno, tenendo il braccio davanti alla maglietta per nascondere la macchia di sangue.

    Le porte automatiche si spalancano, dandoti il benvenuto. Per prima cosa, noti l’aria fredda, umida e profumata di menta. Alla tua sinistra, dietro un gruppetto di tavoli, c’è la porta del bagno. Ti avvicini tenendo la testa bassa, cercando di non dare nell’occhio.

    La porta si apre di scatto e lo spigolo ti urta il braccio. Spunta un ragazzo, che sbatte forte la spalla contro il tuo naso. Barcolli. Lui ti afferra per i gomiti tirandoti a sé e raddrizzandoti.

    Dietro di lui, un altro ragazzino sguscia fuori dal bagno infilandosi qualcosa in tasca. Nel giro di due secondi è scomparso.

    Il naso pulsa per il dolore, così intenso da farti strizzare gli occhi. Lui non ti lascia andare. Ti prende la mano destra e la scosta dalla pancia, con un gesto talmente tenero che non opponi resistenza. Osserva la macchia sulla maglia e il taglio sul braccio, dove ormai il sangue è secco e di un nero rossastro.

    «Sei ferita», esclama.

    Ha i capelli castani tutti arruffati, con i riccioli che coprono la punta delle orecchie. La pelle è scura e lentigginosa per il sole. Ti guarda con gli occhi grigi, che scrutano il tuo volto come se stessero leggendo un libro.

    «Ho solo bisogno di lavarmi, tutto qui». Ritrai il braccio ed entri nel bagno.

    Non ti rilassi finché la porta non si richiude alle tue spalle e non fai scorrere il chiavistello. Una volta davanti allo specchio, vedi ciò che ha visto lui. La terra incrostata all’attaccatura dei capelli, le foglie secche impigliate. La macchia sulla maglia è di un marrone putrido. Osservi il tuo riflesso per la prima volta. Gli occhi grandi e infossati sono talmente scuri da sembrare neri. Hai gli zigomi alti e la bocca piccola, a forma di cuore. Quei lineamenti ti sembrano estranei, il viso di una ragazza che non hai mai visto prima.

    Ti giri di profilo, e solo allora noti la cicatrice che va dall’orecchio destro fino alla nuca, con la pelle raggrinzita e arrossata. La percorri con le dita fino al punto in cui scompare sotto il colletto della maglia. In alcune zone è ancora molle e forma una linea strana, irregolare, curva. Distogli lo sguardo perché non vuoi pensare a come o quando te la sei procurata. Non è stato il treno, ne sei sicura. A quando risale? Come è successo?

    Impieghi qualche minuto per togliere lo sporco da sotto le unghie, indossare la maglietta pulita e raccogliere i frammenti di foglie dai capelli. Quando hai finito, va decisamente meglio, sei quasi passabile. Sciogli i capelli sulle spalle, in modo che coprano la cicatrice.

    Fuori, percorri con lo sguardo i reparti del supermercato in cerca del ragazzo. Una parte di te spera che se ne sia andato, ma l’altra è felice quando lo vede a qualche metro di distanza, nella sezione dedicata ai biglietti d’auguri. Quando la porta del bagno si richiude, lui si volta, con un sorriso accennato sulle labbra. Ti guardi intorno, chiedendoti se il poliziotto sia entrato.

    Giri a sinistra, nel primo corridoio. Non c’è nessuno. Prendi una bottiglia d’acqua dalla mensola e sviti il tappo. Ormai ne hai bevuta mezza quando ti accorgi che il ragazzo è accanto a te. I suoi occhi rimbalzano fra l’acqua, te e lo spazio vuoto sul ripiano.

    «Hai un aspetto decisamente migliore».

    «Te l’ho detto, avevo solo bisogno di lavarmi».

    Ti allontani nel corridoio, ma lui ti segue a qualche passo di distanza. Guarda il tuo braccio, la carta igienica premuta sulla ferita, adesso screziata di rosso.

    «Cos’è successo? Stai bene?»

    «Sembra peggio di quello che è. Sto bene, davvero».

    Non accenna ad andarsene. «Sembrava un brutto taglio».

    «Il braccio è l’ultimo dei miei problemi…».

    Guardi fuori dal supermercato, in cerca del poliziotto. L’hai perso di vista. Anche l’altro ragazzo che è uscito dal bagno è sparito. «Cosa gli hai venduto?», domandi.

    «Che vuoi dire?»

    «In bagno… hai venduto qualcosa a quel ragazzino. Erba? Pasticche? Cosa?».

    Il ragazzo passa il cestino da una mano all’altra, due mele tristi che rotolano intorno a una confezione da sei lattine

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