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E-book339 pagine4 ore

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Info su questo ebook

Luca Sacchieri con questo romanzo si fa delle domande, le stesse domande che potrebbe porsi il lettore leggendo queste pagine. Si chiede che cosa potrebbe accadere ad una persona se questa perdesse la sensibilità al dolore? Con una storia ricca di ironia e di colpi di scena, Sacchieri ci conduce tra le strade di una Roma a tratti gioviale a tratti oscura e ostile, ci porta all’interno della vita di un giovane uomo che deve fare i conti con una esistenza mutata improvvisamente, con l’amore, che ha deciso di piombargli addosso, e con tutti i lacci che ancora lo tengono legato al suo passato, ai dolori antichi, alle scene che continuano a passargli nella testa. Cosa c’è nel luogo nascosto che ognuno di noi si porta dentro? Che cosa alberga nel cuore degli uomini? Qual è il confine tra odio e violenza? Fin dove abbiamo il coraggio di spingerci per il bene delle persone che portiamo nel cuore? Sono questi e molti altri i quesiti che Luca Sacchieri ci fa sbocciare nella testa e che ci condurranno in una vicenda adrenalinica, densa, mai scontata.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788832214222
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    Anteprima del libro

    Aponìa - Luca Sacchieri

    edizione

    INTRODUZIONE

    Luca Sacchieri con questo romanzo si fa delle domande, le stesse domande che potrebbe porsi il lettore leggendo queste pagine. Si chiede che cosa potrebbe accadere ad una persona se questa perdesse la sensibilità al dolore? Con una storia ricca di ironia e di colpi di scena, Sacchieri ci conduce tra le strade di una Roma a tratti gioviale a tratti oscura e ostile, ci porta all’interno della vita di un giovane uomo che deve fare i conti con una esistenza mutata improvvisamente, con l’amore, che ha deciso di piombargli addosso, e con tutti i lacci che ancora lo tengono legato al suo passato, ai dolori antichi, alle scene che continuano a passargli nella testa.

    Un libro denso di avvenimenti, dove spesso gli eventi si sovrappongono e si intersecano e dove l’autore riesce a tenere sempre alta la tensione. La storia è tenuta su da una scrittura leggera, che non appesantisce mai la lettura e che anzi la rende scorrevole e mai noiosa.

    Cosa c’è nel luogo nascosto che ognuno di noi si porta dentro? Che cosa alberga nel cuore degli uomini? Qual è il confine tra odio e violenza? Fin dove abbiamo il coraggio di spingerci per il bene delle persone che portiamo nel cuore? Sono questi e molti altri i quesiti che Luca Sacchieri ci fa sbocciare nella tesa e che ci condurranno in una vicenda adrenalinica, densa, mai scontata.

    CAPITOLO UNO

    Stazione della metro Laurentina di Roma, capolinea della Linea B: il carro bestiame per eccellenza.

    In discesa, a metà della gradinata, mi accorgo che accanto a me la scala mobile funziona. È stata guasta per così tanto tempo da diventare invisibile.

    Alle 8:00 ho pensieri poco lucidi ma già sudati visto che questo settembre ancora ti alita addosso i suoi 27 gradi.

    Le ginocchia, a quest’ora, hanno la consistenza dei cereali a colazione.

    Dietro l’angolo della scalinata man mano che scendo compare la schiera di vagoni ferma a porte spalancate. Potrebbe partire da un momento all’altro.

    Accelero nonostante le vecchie e gli obesi caracollanti, nonostante gli abbonati Atac cintura nera di pendolarismo che giocano sporco correndo a gomiti alti, e nonostante gli invidiabili pigri che scendono come fossero turisti in un museo.

    Poi ci sono i turisti veri e propri, Tartarughe Ninja sponsorizzate Quechua, che hanno zaini grossi quanto il mio monolocale.

    Dopo l'ultimo scalino, metto piede sulla banchina e attacca il bip intermittente delle porte che si chiudono. Sono a cinque passi dal vagone. 

    I primi tre li faccio di corsa. Ne compio un altro e poi mi lancio: spero che tre anni di karate mi abbiano donato l’agilità sufficiente a concludere il balzo dentro la metro.

    Nell'inchiodare le suole sul pavimento in gomma (da masticare) del vagone, mi casca la borsa che porto a tracolla. Tutti i miei testi di Chirurgia si riversano a terra. La gente intorno mi guarda con quel misto di menefreghismo e commiserazione.

    Io cerco di mantenere un'espressione impassibile mentre mi chino a raccogliere i libri. Ma il fatto che, all'istante, due gocce di sudore traccino delle scie verticali sulle lenti dei miei occhiali da vista, manda del tutto a puttane la mia credibilità.

    Torno in piedi e recupero dalla tasca il cellulare. Mi infilo gli auricolari e mi nascondo sotto la cortina di musica dell'ultimo disco dei Rancid.

    Perché - sporca, anarchica, rumorosa - non c'è niente di più punk della Linea B della Metropolitana di Roma.

    CAPITOLO DUE

    Preceduto e seguito da decine di persone, riemergo in superficie dalla stazione Policlinico. È la fermata accanto all'Ospedale Umberto I, luogo in cui studio e lavoroquasigratis.

    Dopo le ultime scale mi si prospetta davanti il tappeto d'asfalto di Viale Regina Elena. Ma invece del solito traffico stipato tra file di palazzi eleganti, mi ritrovo circondato da una guerriglia da stadio. A forse dieci chilometri di distanza dall’Olimpico.

    La schiera di bancarelle, che solitamente monopolizza il marciapiede lungo il muro perimetrale dell'Umberto I, adesso è sfatta, con molti tavoli ribaltati a terra. 

    Alla faccia di chi sostiene che a Roma non si faccia la raccolta differenziata: la maggior parte delle assi di metallo delle strutture, sono state riciclate in bastoni. I venditori ambulanti li stanno usando per randellare i Poliziotti in tenuta antisommossa. Questi, scudi alti e spalle strette, stanno tentando di reagire sferzando manganellate. Ma le lance dei venditori in protesta - che impattano sui loro scudi e suoi loro caschi - sono più lunghe e quindi più efficaci perché colpiscono a distanza.

    Io arretro e cerco di rimanere ai margini di quel coagulo umano spigoloso e violento, che si allarga e si restringe come uno stormo di uccelli incazzato. 

    L'entrata principale dell'Umberto I è parte di quel teatro di guerriglia e quindi irraggiungibile.

    Urla, facce arrabbiate e schianti di metallo su plastica spessa, pur se non rivolte direttamente a me, mi presagiscono l’ingresso al Policlinico, ma come paziente.

    Avevo letto dell'intenzione del Comune di Roma di sgomberare la flotta di bancarelle che intasava tutti i passaggi limitrofi all'Umberto I, rendendo il traffico pedonale più caotico di quello automobilistico di Viale Regina Elena. Avevo letto anche del disaccordo dei venditori ambulanti a smontare tutto. E, a giudicare dall'energia con cui martellano sull'attrezzatura antisommossa della Polizia, non erano fake news.

    Ad un tratto una scia vaporosa, partita dallo schieramento della Polizia, taglia il cielo limpido e precipita nella falange dei venditori. Il fumogeno, in realtà, non sembra sortire effetti: forse i bancarellari sono troppo abituati a respirare le polveri sottili delle marmitte per arretrare di fronte ad un po' di vapore, anche se speziato.

    A differenza di quello lanciato dalla Polizia, il dardo di risposta dei venditori è poco fumo e tutto arrosto.

    La molotov, intercettata in tempo dalle Forze dell'ordine che si allargano a cerchio, esplode sulla strada.

    Non sembra ci siano feriti. Ma il boato dell'esplosione pare la protesta di una divinità inferocita. E la percezione della vampata di calore - che sovrasta per un attimo addirittura il caldo estivo - risveglia me e i passanti intorno: ci fa render conto che non siamo spettatori, ma gente troppo vicina ad una realtà infiammabile.

    Resi coordinati dalla paura, facciamo tutti parecchi passi indietro. Qualcuno è addirittura disposto a subire il male minore: richiudersi nella Linea B della metro di Roma.

    Poi la Polizia decide di caricare con brutalità, e qualsiasi distinzione tra venditore in protesta e spettatore voyeurista va in fumo più del lacrimogeno.

    La gente inizia a corrermi intorno. Sono così tanti - e tutti così reciprocamente disorientati - che ogni via di fuga sembra un vicolo cieco. 

    Parecchio materiale nei paraggi viene afferrato e lanciato: sassi, caschi, pezzi di marciapiede, pezzi di metallo, altre molotov. E per ogni oggetto che decolla, non sempre c'è uno schianto secco sull'asfalto. Molti dardi preferiscono l'atterraggio morbido sui corpi, nella ressa. 

    Compaiono le prime urla non solo di intimidazione, i primi rivoli di sangue su maschere di dolore.  

    In qualsiasi direzione mi muova, sbatto contro qualcuno, ricevo gomitate, assesto spallate. Anche le grida altrui hanno una solidità contro cui rimbalzo e mi fanno cambiare traiettoria. Probabilmente sto girando su me stesso sempre più velocemente. Sono una specie di disperato cavatappi umano, fino a che mi blocco di fronte ad un Poliziotto. Mi vedo nel riflesso della sua visiera. 

    A tu per tu con quella versione di me stesso allungata - e quindi non più magra, ma proprio anoressica - mi domando muto: Pietro, cosa ci fai qui?

    Devo avere a che fare con un poliziotto telepatico, perché - subito dopo - anche lui mi chiede: Pietro, cosa ci fai qui?

    E lo fa con una voce da donna. Si alza la visiera ed è effettivamente una donna, nonostante le forme femminili siano inscatolate nelle protezioni antisommossa solide e scure.

    È Maria Giovanna. Ci metto qualche secondo a riconoscerne i tratti tondi del viso e le fossette. Il mio zigomo sinistro ci mette un po' meno a ricordarsi di lei visto che, il giorno in cui l'ho conosciuta, mi ha tirato un calcio in faccia.

    CAPITOLO TRE

    Più che calcio in faccia, si era trattato di un Jodan Mawashi Geri

    Era successo appena due mesi prima, nella palestra di boxe/dojo del quartiere Montagnola, a Roma Sud. Lì dentro praticavo il karate da tre anni e, nonostante le scarse condizioni igieniche del posto, la mia cintura si ostinava a rimanere candidamente bianca.

    Lo spazio era sovraffollato e pieno di poster di gente a pugni alti che ti fissava minacciosa.

    Filippo, il Sensei buono dai capelli rosso fuoco, aveva suddiviso il gruppo in coppie in base ai colori delle cinture. La logica era quella di affidare ad un kyu più alto un kyu più basso. 

    Quando le mie lenti a contatto si ritrovarono davanti la cintura blu intorno alla vita di Maria Giovanna, non riuscii a non immaginarmi - colpa del suo viso felino - un corpo sinuoso, seppur celato dall’abbondante kimono. 

    Era arrivata a fine gennaio, letale nell'eseguire i kata e cordiale nel rapportarsi con gli altri allievi. Dopo qualche settimana, il dojo era diventato la sua seconda casa. Il mio più grande traguardo con gli altri allievi lì dentro era stato raffinare quattro sfumature diverse di ciao: allegro, stanco, complice, frettoloso.

    A sei mesi dal suo arrivo, due allenamenti a settimana, non ero ancora riuscito a testarne nemmeno uno con Maria Giovanna. 

    Da quando lei aveva messo piede nel dojo, la gente incazzata sui poster alle pareti s'era fatta ancor più minacciosa: Lei è mia, non ci provare o ti ammazzo! e allora avevo abbassato ancor più lo sguardo. Ormai conoscevo a memoria la conformazione dei miei alluci.

    Formatesi le coppie, di fronte a Maria Giovanna, nascosi il mio imbarazzo nell'inchino reciproco che facemmo prima di iniziare l'esercizio.

    Bastò quel lieve movimento, per capire che le circa 270 ossa del mio scheletro si erano improvvisamente trasformate in un ammasso di calcinacci.

    Assumere la posizione di difesa richiesta dal Sensei, fu improvvisamente impegnativo. Nell’apparire disinvolto davanti a Maria Giovanna, mi persi le istruzioni successive: quando Filippo urlò Jordan Mawashi Geri! mi arrivò alle orecchie come una poltiglia verbale priva di contenuto. 

    Non riuscendo a guardare Maria Giovanna, mi parai istintivamente i testicoli (movenza per la quale, grazie alla dedizione dei miei compagni di classe al liceo, ero diventato - lì sì - cintura nera). 

    Tenendo le mie braccia incrociate verso il basso, il Jodan (viso, mascella, collo) Mawashi Geri (calcio circolare) di Maria Giovanna impattò sul mio zigomo sinistro.

    Sorprese tanto me, per il brusco ritorno, quanto lei, che non aveva incontrato il mio avambraccio a difesa. Però riuscii a guardarla negli occhi e fui felice di poter condividere con lei quell'attimo di stupore reciproco. Prima di cadere a terra svenuto.

    Avevo ripreso i sensi dopo poco. Avevo ripreso i sensi dopo poco. I kimono bianchi degli altri allievi erano ricomparsi come pop-up pubblicitari di un sito illegale.

    Focalizzai solo il viso di Maria Giovanna, gli altri rimasero appannati più per scelta emotiva che per postumi.

    Ehi, scusami tantissimo! mi disse lei, occhi grandi e preoccupati e sguardo delle fossette ancor più penetrante, come ti senti? Vuoi che chiamiamo un'ambulanza?

    Provai fastidio per la mancanza di intimità di quel plurale chiamiamo e presi coscienza in quel momento che mi trovavo steso per terra, ancora nel ventre cubico del dojo/palestra.

    I poster minacciosi alle pareti tenevano le mani alte, davanti alla bocca, cercando di soffocare risate di scherno. 

    No, sto bene. Adesso mi rialzo. Dammi solo qualche secondo. Diciamo duemilacinquecento, secondi. 

    Pronunciare queste parole, tra imbarazzo e dolore alla faccia, fu più che altro un'estrapolazione odontoiatrica.

    Lei sorrise. Il suo dentifricio e il suo detersivo dovevano essere della stessa marca visto che denti e kimono erano di un bianco lucente.

    Sei sicuro, Pietro? intervenne Filippo, braccia incrociate al petto.

    Certamente! Mi sento già meglio, mentii.

    Bene. Ma appena arrivi a casa metti comunque un po' di ghiaccio sulla faccia e se provi nausea, va' in ospedale.

    Assolutamente sì! Onorato di tanta considerazione da parte del mio Sensei, per poco non mi pisciai addosso per l'emozione. Ma di sicuro, pendendo dalle sue labbra per i consigli medici, pisciai sopra alla mia laurea in Chirurgia. 

    Mi tirai su molto meno agilmente di quanto avrei voluto. Una volta in piedi, incontrai gli occhi tondi preoccupati/curiosi/disinteressati/divertiti dei miei compagni di dojo. Ma mi girava la testa.

    La voce di Maria Giovanna riuscì a darmi un orientamento.

    Pietro, scusa se insisto ma mi sento un po' in colpa. Permettimi almeno di invitarti a mangiare qualcosa insieme dopo l'allenamento. Così, giusto per assicurarmi che tu stia bene davvero.

    Scortandomi verso una panca ai margini del dojo, mi stava proponendo una specie di appuntamento, mossa da un misto di premura e pietà.

    Era un calcio in faccia alla mia dignità, ma questo calcio almeno mi riassestò i pensieri.

    Con piacere. Ma più che mangiare, beviamo qualcosa. Possibilmente con una cannuccia.

    Quello che vuoi, sorrise a occhi bassi, così mi racconti anche un po' di te, visto che sei sempre silenzioso e sulle tue.

    Quello dipende dalla mancanza di ossigenazione al cervello per colpa della fatica.

    Sì, certo. Arrivi affaticato da casa?

    È che abito al quarto piano. Senza ascensore.

    Quasi per confermare la mia tesi, mi sedetti pesantemente sulla panca.

    Però la lucidità per la risposta pronta ce l'hai. È incoraggiante per quanto riguarda la tua ripresa. 

    "Finché si tratta di risposte me la cavo abbastanza bene. Su domande e approcci sono stato bocciato più volte."

    Ragazzi, riprendiamo! aveva tuonato il Sensei. Pietro, forse è meglio che per oggi ti fermi, sei d'accordo?

    Dopo il mio quarto secondo di silenzio imbarazzato, Maria Giovanna mi aveva sussurrato complice: "Qui si tratta di risposta. È pane per i tuoi denti. Ce la puoi fare."

    D'accordissimo, Sensei! avevo urlato dalla panca. Poi, abbassando il volume e rivolgendomi a Maria Giovanna, le avevo risposto: I miei denti al momento possono masticare pane solo se preventivamente inzuppato nell'acqua.

    Lei mi sorrise mal celando una punta di preoccupazione. Io le sorrisi sperando di soffocare il dolore alla mandibola.

    Allora a dopo! mi disse prima di girarsi e raggiungere gli altri al centro del dojo.

    Ciao! le risposi.

    Con mia stessa sorpresa, avevo appena aggiunto un nuovo ciao a quei quattro utilizzati con il resto del dojo. Il ciao mezzo-innamorato.

    CAPITOLO QUATTRO

    Maria Giovanna aveva i capelli sciolti e ancora un po' umidi dopo la doccia di fine allenamento. Le scendevano lungo il volto e aggiungevano punti interrogativi ricci e nerissimi a quelli che già avevo io in testa, cercando di decifrare il suo sguardo.

    L'enoteca in cui stavano cenando era un localetto tra i tanti del quartiere Monti, al centro di Roma. Per entrare, poche ore prima, Maria Giovanna aveva semplicemente aperto una delle porte schierate nel buio, lungo un viale in salita lastricato di sanpietrini.

    Non ricordavo il nome, ma l'insegna recava l'ennesimo gioco di parole tra di vino e divino.

    Di solito, a fine allenamento, la fame mi avrebbe portato ad ingoiare una mucca semplicemente ingerendola intera. Ma, un po' per la mandibola dolorante un po' per lo stomaco chiuso dall'emozione, masticavo a fatica una delle bruschettine d'accompagnamento ai calici di rosso che avevamo ordinato. Pagandoli poco meno dell'intera bottiglia.

    Allora, come stai? mi chiese lei.

    Alla grande! risposi, sperando non mi fossero partiti residui di bruschettina al pomodoro.

    Poi incoraggiato dalla stordente combinazione vino rosso più calo di zuccheri azzardai: Il mio piano di farmi prendere a calci in faccia per avere un pretesto per chiederti di uscire, ha funzionato! sorrisi, incurante del rischio di frammenti di bruschettina attaccati ai denti.

    Un piano molto articolato... e autolesionistico. Pensa..., aggiunse sporgendosi verso di me. Movimento elastico di ricci neri, ... avrebbe funzionato anche senza il sacrificio del calcio in faccia.

    Davvero?

    Già. Sarebbe bastato semplicemente chiedere. Invece ti ho invitato io ad uscire. E in più adesso rimarrai col dubbio che l'abbia fatto solo per senso di colpa...

    In silenzio afferrai il tavolo. Come a voler cercare un pulsante segreto che aprisse una botola sotto i miei piedi e mi permettesse di sparire.

    Arrivò la risata di Maria Giovanna.

    Dai scherzo! Siamo nel 2020. Ormai noi donne siamo emancipate: libere di chiedere ad un uomo di uscire dopo avergli dato un calcio in faccia!

    Concordo! risposi nascondendo il sospiro di sollievo, viva l'emancipazione e i calci in faccia!

    Maria Giovanna sembrò divertita. All'altezza del proprio petto avvolto in una camicetta bianca, il suo calice di rosso emanava lievi vibrazioni assecondando quelle del tavolinetto un po' zoppo.

    Era un cuore in mostra, dal battito rilassato e rilassante.

    Cercai di convincere a seguire il ritmo anche il mio, ben nascosto da sterno, pelle e maglietta degli Avengers.

    Comunque, riprese lei, nonostante la facilità con cui hai incassato quel calcio, sembri sempre sulla difensiva.

    "In effetti sì, ma ti risparmio la storia del bambino timido e senza amici che preferisce rifugiarsi in camera sua tra libri e fumetti. Tu, al contrario, sembri molto... (trova un sinonimo di cazzuta, mi dissi) determinata. E a tuo agio con le persone."

    Ti risparmio la storia della bambina, sorella più piccola di due fratelli maschi, del padre esigente e del clima di competizione costante, alimentato in modo doloso tipo gli incendi di questa estate nella pineta di Ostia.

    Per un attimo, ognuno abbassò lo sguardo verso il proprio calice, nella penombra tremolante di candele, intorno a noi pareti in muratura antica e scaffali di bottiglie nere.

    Poi afferrai il calice.

    Brindiamo al presente, alla faccia del passato. E a questa uscita! 

    Mi venne fuori un po' teatrale. E il vino non schizzò fuori dal bicchiere per una questione di millimetri. Ma funzionò.

    Maria Giovanna, aiutata da un paio di ricci che le tirarono su gli angoli della bocca, sorrise. Gli occhi nuovamente pieni della fiamma della candela sul tavolo.

    Puoi fare di meglio, ma stavolta senza l'aiuto di calci in faccia rompi-ghiaccio, mi provocò.

    Reagii come le zampe della rana di Galvani attraversate dalla scarica elettrica (che cazzo di esempio da nerd!), e feci un secondo tentativo: Brindiamo a questa uscita tra noi: che sia la prima di una lunga serie!

    I calici, finalmente, tintinnarono.

    CAPITOLO CINQUE

    Nonostante la matematica non sarà mai il mio mestiere, fui rapidissimo - al momento del conto - a calcolare affitti arretrati del monolocale, bollette, internet, tasse, abbonamento ATAC, libri di testo per la specializzazione in Chirurgia, lezioni di karate, spese al supermercato.

    Il risultato dei miei calcoli fu che avrei camminato sull'orlo del precipizio finanziario per le successive due settimane.

    Indossai la maschera della disinvoltura e mi imposi per pagare da solo quel conto radical chic.

    No, dai, provò a replicare Maria Giovanna, ti ho invitato io. Facciamo almeno a metà!

    "Non se ne parla! Tu, invitandomi prima che lo facessi io hai scalfito il mio orgoglio di maschio alfa. Adesso tocca a me prendere in mano la situazione come farebbe ogni uomo ben piantato nel ventunesimo secolo. Con il potere dei soldi!"

    Maria Giovanna rise e ciò mi permise di prendere tempo e constatare che, fortunatamente, le monete dorate nel mio portafoglio erano quasi tutte da 50 centesimi e non da 10 o da 20.

    Di fronte alle torrette di spiccioli che innalzai sopra il pre-scontrino-non-fiscale-paraculo, anticipai qualsiasi commento di Maria Giovanna: 

    Così mi libero di tutte le monete inutili, visto che il mio portafoglio aveva iniziato a pesare quanto (Tutta l'acqua presente nel corpo umano? Il martello di Thor?) un bilanciere da palestra.

    In realtà, nel portafoglio la mia tessera sanitaria si sarebbe sentita incredibilmente sola per il resto della serata.

    Hai fatto bene a lasciarti solo banconote, approvò Maria Giovanna, sarebbe stato volgare dare la mancia in monete allo chauffeur della limousine parcheggiata qui fuori.

    Trafitto dai suoi occhi spalancati e da decine di altri occhi generati dii suoi ricci tondi, calai la maschera.

    E va bene. Diciamo che lo stipendio da specializzando mi allontana da gente tipo Bruce Wayne...

    "L'avevo intuito dalla Muraglia cinese riprodotta in miniatura con le monete", sorrise lei.

    Mi prese sottobraccio con sguardo complice. Tra spazi angusti e arroccamenti di tavolini da due (occupati anche da quattro-sei degustatori improvvisati), mi guidò verso l'uscita.

    Bruce Wayne è Ironman, giusto? mi sussurrò ad un tratto all'orecchio sinistro.

    No, Bruce Wayne è Batman. Iron man è Tony Stark. Sono entrambi miliardari, ma per motivi diversi. È poi Batman è un personaggio della Dc Comics, Ironman è della Marvel e...

    Rimasi in silenzio, inebriato dal contatto fisico delle nostre braccia e dall'improvvisa sensazione di calore sulla guancia sinistra. 

    Fuori dall'enoteca, mi lasciai condurre come un palloncino tra le mani di una bambina, in una giornata senza vento. 

    Dissi solo: No, Bruce Wayne è Batman.

    CAPITOLO SEI

    Come in un colpo di scena hollywoodiano, il nostro stare sottobraccio cadde nel vuoto, ma venne salvato all’ultimo momento dalle nostre dita: acchiappandosi al volo, si intrecciarono mano nella mano. 

    Subendo la scelta registica come umili spettatori, io e Maria Giovanna con l’enoteca alle spalle iniziammo a scalpicciare per il quartiere Monti. Una sfilata semibuia di portoni chiusi e strade strette. 

    Io non mi azzardavo a chiederle cosa volesse fare. Temevo di rompere un incantesimo che - complice il silenzio e il respiro antico dei palazzi circostanti - ci teneva sospesi nel tempo.

    Ogni tanto, una comitiva di fronte ad una porticina poco illuminata - boccale o calice in mano - interrompeva il flusso con chiacchiere e risate; qualche individuo solitario - muto fantasma controcorrente - ci ricordava che non eravamo le ultime creature sopravvissute nell'universo; qualche vibrazione in sottofondo - sonorità jazz o rock - sfuggiva allo spessore delle porte chiuse e scandiva il nostro tempo privo di

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