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Il tatuatore
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Il tatuatore
E-book415 pagine4 ore

Il tatuatore

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Info su questo ebook

Originale come Stieg Larsson
Da brividi come Jo Nesbø

Un grande thriller

Brighton. L’ispettore Francis Sullivan, giovane e ambizioso, è stato appena promosso, e questo è il suo primo caso importante. Marni Mullins, una tatuatrice di Brighton, ha trovato un corpo orribilmente scuoiato. Dalle prime indagini sul cadavere risulta chiaro che non si tratta di un omicidio isolato ma dell’opera di un serial killer. Il modus operandi e la firma sono agghiaccianti: mentre la vittima era ancora in vita, l’assassino ha rimosso intere porzioni di pelle, presumibilmente tatuate. Questa pista porta Sullivan a credere che una come Marni, che conosce il mondo dei tatuaggi come le sue tasche, sia l’unica persona in grado di aiutarlo. Ma lei ha tante ragioni per non fidarsi della polizia. E quando riuscirà a identificare il prossimo bersaglio del killer, lo dirà a Sullivan o si metterà da sola alla ricerca del “Ladro di Tatuaggi”? 

Il thriller d'esordio più sorprendente e originale dell'anno

Potente e avvincente come Stieg Larsson e Jo Nesbø

Un serial killer metodico e spietato. Una donna con un terribile segreto. Un gioco in cui il prezzo dei tatuaggi è la morte. L’ispettore Sullivan è al suo primo caso.

«Il thriller più originale della fiera del libro di Francoforte.»
The Bookseller

Avete mai letto qualcosa del genere?
Alison Belsham
Ha iniziato scrivendo sceneggiature, e nel 2001 è stata finalista nella BBC Drama Writer competition. Nel 2016 ha presentato Il tatuatore al Bloody Scotland Crime Writing, uno dei più prestigiosi eventi per il genere thriller, ed è stata giudicata vincitrice. Secondo The Bookseller è stato uno dei libri più interessanti tra quelli presentati a Francoforte 2017.
LinguaItaliano
Data di uscita14 feb 2018
ISBN9788822719027
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    Anteprima del libro

    Il tatuatore - Alison Belsham

    EN.jpg

    Indice

    I

    Capitolo 1. Marni

    Capitolo 2. Francis

    Capitolo 3. Francis

    Capitolo 4. Marni

    Capitolo 5. Rory

    Capitolo 6. Francis

    Capitolo 7. Marni

    II

    Capitolo 8. Francis

    Capitolo 9. Francis

    III

    Capitolo 10. Rory

    Capitolo 11. Francis

    Capitolo 12. Thierry

    IV

    Capitolo 13. Francis

    V

    Capitolo 14. Rory

    Capitolo 15. Francis

    VI

    Capitolo 16. Francis

    Capitolo 17. Rory

    Capitolo 18. Francis

    Capitolo 19. Marni

    Capitolo 20. Rory

    Capitolo 21. Marni

    Capitolo 22. Francis

    VII

    Capitolo 23. Rory

    Capitolo 24. Francis

    Capitolo 25. Marni

    VIII

    Capitolo 26. Francis

    IX

    Capitolo 27. Marni

    Capitolo 28. Rory

    Capitolo 29. Francis

    X

    Capitolo 30. Francis

    Capitolo 31. Rory

    Capitolo 32. Marni

    Capitolo 33. Francis

    Capitolo 34. Marni

    XI

    Capitolo 35. Marni

    Capitolo 36. Marni

    Capitolo 37. Francis

    XII

    Capitolo 38. Rory

    Capitolo 39. Francis

    XIII

    Capitolo 40. Francis

    Capitolo 41. Marni

    Capitolo 42. Rory

    XIV

    Capitolo 43. Francis

    Capitolo 44. Marni

    XV

    Capitolo 45. Marni

    Capitolo 46. Francis

    XVI

    Capitolo 47. Marni

    XVII

    Capitolo 48. Marni

    Capitolo 49. Francis

    Capitolo 50. Marni

    Capitolo 51. Rory

    Capitolo 52. Francis

    Capitolo 53. Marni

    Capitolo 54. Rory

    Capitolo 55. Marni

    Capitolo 56. Francis

    Capitolo 57. Marni

    Capitolo 58. Francis

    Capitolo 59. Marni

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    1917

    Questa è un’opera di finzione. I nomi, i personaggi, i luoghi,

    le organizzazioni, gli eventi e gli avvenimenti sono frutto

    dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in modo fittizio

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta,

    memorizzata su un qualsiasi supporto o trasmessa in qualsiasi forma e

    tramite qualsiasi mezzo senza un esplicito consenso da parte dell’editore

    Published in Great Britain by Trapeze,

    an imprint of The Orion Publishing Group Ltd.

    Copyright © 2018 Alison Belsham

    Titolo originale:The Tattoo Thief

    The moral right of Alison Belsham to be identified as

    the author of this work has been asserted in accordance with

    the Copyright, Designs and Patents Act of 1988

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Beatrice Messineo

    Prima edizione ebook: maggio 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-1867-9

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Alison Belsham

    Il tatuatore

    Newton Compton editori

    OMINO.jpg

    Per i miei ragazzi, Rupert e Tim

    Uno, due e tre,

    questo tatuaggio è per me.

    Quattro, cinque e sei

    un altro taglio gli farei.

    Sette e ancora otto,

    oltre non aspetto.

    I

    Sfilo la maglia insanguinata dal corpo di quest’uomo, scoprendo il meraviglioso tatuaggio che ha sulla schiena. La fotocopia che estraggo dalla mia tasca è tutta stropicciata, ma riesco comunque a confrontare l’immagine con quella sulla pelle. Per fortuna dalla strada principale arriva abbastanza luce. E vedo chiaramente che i due disegni sono identici. Un ricco tatuaggio polinesiano sulla spalla sinistra, un cerchio con al centro un’intricata fantasia tribale che forma un viso arrabbiato. Dai margini della circonferenza partono due ali stilizzate, una va verso la scapola e l’altra verso il lato sinistro del petto. C’è sangue dappertutto.

    Ma le immagini combaciano. Ho preso l’uomo giusto.

    Gli premo il collo, c’è ancora battito. Abbastanza debole da non causarmi problemi, però. È essenziale finire il lavoro con il corpo ancora caldo. Se il cadavere si raffredda, la pelle s’irrigidisce e le membra diventano più dure. Questo complicherebbe le cose e io non posso permettermi errori. Ovviamente scuoiare un corpo ancora vivo comporta molto più sangue. Ma a me non dà fastidio.

    Lo zaino è qui a terra, l’ho buttato mentre trascinavo il corpo fra i cespugli. Non è stato difficile, il parchetto è vuoto a quest’ora. Giusto un colpo alla testa, è crollato in ginocchio. Nessun rumore. Nessun urlo. Nessun testimone. Sapevo che avrebbe imboccato questa strada all’uscita del locale: l’ho osservato attentamente in precedenza. La gente è così stupida. Non ha avuto il minimo sospetto, neanche quando gli ho tagliato la strada con una chiave inglese in mano. Nel giro di qualche istante il sangue gli usciva a fiotti dalla tempia, inumidendo il terreno. È sempre la prima mossa quella che dà più soddisfazione.

    Una volta a terra l’ho afferrato da sotto le ascelle, trascinandolo sul marciapiede il più velocemente possibile. Volevo portarlo dietro gli arbusti, in modo che nessuno potesse vederci. È pesante, ma io sono forte e l’ho trascinato in mezzo a due siepi di alloro.

    Lo sforzo mi ha lasciato senza fiato. Stendo le mani, a palmo in giù. L’ombra di un tremito. Serro i pugni e li distendo di nuovo. Le mani sbattono come ali di farfalle, come il mio cuore contro la cassa toracica. Impreco a denti stretti. Una mano ferma è essenziale per portare a termine il mio compito. Ma ho la soluzione. È nella tasca laterale dello zaino. Una scatola di compresse insieme a una bottiglietta d’acqua. Propranololo: il betabloccante preferito dai giocatori di biliardo. Ne butto giù due e chiudo gli occhi, aspettando che facciano effetto. Controllo di nuovo, il tremore è svanito. Ora posso cominciare.

    Faccio un respiro profondo, infilo la mano nello zaino e prendo la custodia dei coltelli. Mi assale un’ondata di soddisfazione mentre con le dita sfioro la pelle morbida e l’acciaio duro al suo interno. Ho affilato le lame con grande cura ieri sera. Un presentimento, si potrebbe dire. Sentivo che oggi sarebbe stato il gran giorno.

    Appoggio la custodia sulla schiena dell’uomo e sciolgo i lacci che la tengono chiusa. La pelle si srotola con un leggero rumore metallico, scoprendo le lame fredde. Scelgo il solito coltello con il manico corto che utilizzo per i tagli iniziali, con cui delineo i contorni della pelle che poi andrò a rimuovere. Dopo di che, per la scuoiatura vera e propria, scelgo una lama piatta e ricurva. Tutti i miei coltelli vengono dal Giappone e costano una piccola fortuna. Ma ne vale la pena. Vengono forgiati con le stesse tecniche usate per le spade dei samurai. L’acciaio temperato mi permette di incidere con velocità e precisione, come se stessi ritagliando delle sagome da un panetto di burro.

    Appoggio gli altri coltelli a terra accanto al corpo e controllo ancora una volta il battito. Si è indebolito, ma è ancora vivo. Dalla testa continua a sgorgare sangue, più lentamente però. È ora del taglio di prova – forte e veloce su una coscia. Non c’è il minimo sussulto, non fa nemmeno un rantolo. Soltanto il continuo e inesorabile scorrere del sangue melmoso. Bene. Non deve assolutamente muoversi mentre taglio.

    È giunto il momento. Con una mano tengo la pelle ben distesa e con l’altra faccio la prima incisione. Dalla spalla, la lama scorre agilmente lungo gli angoli frastagliati della scapola, seguendo l’andamento del disegno. Un rivolo rosso appare sulla scia tracciata dal coltello. Mi scivola tra le dita, è caldo. Trattengo il fiato mentre la lama si fa strada nella pelle, godendomi il brivido che mi corre lungo la schiena, il sangue che mi ribolle rovente nel ventre.

    Sarà morto prima ancora che abbia finito.

    Non è il primo. E non sarà l’ultimo.

    Capitolo 1

    Marni

    Gli aghi penetravano nella pelle così velocemente che gli occhi non riuscivano a seguirli, depositavano uno strato di inchiostro scuro sotto l’epidermide, lasciando in superficie un bouquet di sanguinanti rose in fiore. A intervalli di pochi secondi, Marni Mullins asciugava le gocce vermiglie con un fazzoletto di carta pulendo i contorni del disegno sul braccio del suo cliente. Giù uno strato di vasellina, e poi di nuovo gli aghi appuntiti a fondo nella pelle, tracciando una nuova linea scura destinata a durare per sempre. Ecco l’alchimia fra pelle e inchiostro.

    Per Marni il lavoro era un luogo sicuro. Si lasciava trasportare dal ronzio e dalla vibrazione leggera della macchina per tatuaggi, fuggendo temporaneamente da tutti i ricordi che la perseguitavano, dalle cose che non avrebbe mai potuto dimenticare.

    Nera e rossa. L’impronta che lasciava sulla pelle morbida. Per quanto Marni cercasse di tenerlo fermo con il braccio libero, il suo cliente sussultava e si muoveva sotto le punture degli aghi. Un dolore che conosceva bene. In fondo anche lei aveva saggiato il morso affilato di quegli stessi aghi, no? E anche per troppe ore. Sì, poteva capirlo, ma era un prezzo che bisognava pagare – un dolore momentaneo che andava sopportato, perché la ricompensa sarebbe durata per tutta la vita. E dopo, nessuno poteva togliertela.

    Con uno scatto del polso si spostò dietro l’orecchio una ciocca di capelli. Sospirò spazientita quando le ricaddero di nuovo davanti agli occhi, li soffiò via con uno sbuffo preciso. Immerse l’ago a sette punte in un piccolo barattolo pieno d’acqua: doveva cambiare l’inchiostro nero con quello ardesia.

    «Marni?»

    «Eccomi. Come va, Steve?».

    Il suo cliente era steso sul lettino a pancia in giù. Si voltò verso di lei, sbattendo gli occhi e sorridendole imbarazzato. «Potremmo fare una pausa?».

    Marni guardò l’orologio. Lo tatuava senza sosta da ben tre ore e di colpo si rese conto di tutta la tensione che le si era accumulata nelle spalle.

    «Certo». Tre ore di sessione erano tante, persino per un cliente abituale come Steve. «Stavi andando alla grande», aggiunse, mettendo a posto l’ago sul supporto accanto allo sgabello. Lo diceva sempre a tutti, che se lo meritassero o no – e Steve, con tutti i suoi lamenti e i sussulti continui, non lo meritava affatto.

    Anche lei aveva bisogno di una pausa, se non voleva avere un attacco di claustrofobia. Alle convention era sempre così, luci artificiali, aria consumata e folla rumorosa. Non c’erano finestre, impossibile capire se fosse giorno o notte. Marni aveva sempre bisogno di vedere il cielo, ovunque si trovasse. Lì dentro l’aria si era fatta calda e pesante, le sale erano piene di corpi accalcati, gente venuta a farsi tatuare e curiosi che osservavano gli aghi. In sottofondo, rock sparato ad altissimo volume e il continuo ronzio delle macchinette che correvano su pelli insanguinate.

    Marni fece un respiro profondo, scrocchiando il collo e liberandosi di un po’ di tensione. L’odore acre di inchiostro, sangue e disinfettante aveva invaso l’aria. Si tolse i guanti di lattice e li gettò nel cestino. Steve si stava stiracchiando, distendeva il braccio, apriva e chiudeva il pugno per riattivare la circolazione. Era molto più pallido di quando avevano iniziato.

    «Va’ a prendere qualcosa da mangiare. Ci vediamo qui fra mezz’ora».

    Per tenere pulito il tatuaggio, Marni lo avvolse immediatamente nella pellicola trasparente. Solo dopo indicò a Steve la caffetteria. Quando rimase sola fendette la calca di persone ferme sulle scale e raggiunse il piano terra. Superò un paio di uscite di sicurezza e si fiondò all’aperto. Fece delle lunghe boccate d’aria fresca. Solo allora si rese conto che in realtà aveva un disperato bisogno di una piccola pausa. Appoggiò la schiena contro la parete fredda di cemento e chiuse gli occhi, cercando di rilassarsi e rilasciare tutto il peso che le gravava sul petto – la gente, quell’edificio.

    Aprì di nuovo gli occhi e sbatté le palpebre. La lucentezza innaturale delle pareti era stata rimpiazzata da un sole brillante. I gabbiani vorticavano in cielo gridando e chiamandosi mentre in fondo alla strada una striscia di mare risplendeva invitante. Marni assaporò con gusto l’aria pregna di salsedine e inarcò la schiena fin quasi a farsi male. Una dopo l’altra, le articolazioni si muovevano e scrocchiavano mentre ruotava le spalle. Non riuscì a cancellare un dubbio: stava diventando troppo vecchia per tatuare? Non sapeva fare nient’altro, però – e non voleva fare altro, a dirla tutta. Non c’era nulla che amasse così dannatamente tanto. Aveva iniziato a tatuare a diciotto anni, diciannove lunghissimi anni prima. In tutto quel tempo, aveva decorato migliaia di metri quadri di pelle.

    Infilando la mano in borsa alla ricerca di un pacchetto di sigarette, Marni si avventurò nel labirinto di vicoletti che formavano Brighton’s Lanes. Era festa nazionale e i turisti si riversavano in strada attirati come gazze ladre dalle vetrine luminose delle gioiellerie vintage, dei negozi dell’usato e delle pretenziose boutique che promettevano meravigliosi abiti da sposa e scarpette irresistibili. Tutti i suoi locali preferiti erano pieni, ma non si diede per vinta. Quel giorno voleva godersi la sua dose di caffeina all’aria aperta, così si lasciò alle spalle i Lanes e imboccò North Street, diretta verso i Pavilion Gardens.

    C’era una lunga fila al bar, il che significava che sarebbe tornata da Steve in ritardo, ma qualche altro minuto all’aria aperta non poteva farle che bene. Guardò il cielo. Azzurro chiaro. Non il celeste brillante tipico delle giornate estive, ma un blu pastello mitigato dalle nuvole in dissolvenza che sbiadivano verso un orizzonte grigio e nebbioso fino a mescolarsi al mare. La giornata perfetta per un fine settimana di festa.

    «Cosa prendi, cara?»

    «Un americano senza latte. Doppio, per favore».

    «Ecco a te».

    «E un muffin», aggiunse all’ultimo minuto. Glicemia bassa. Non era certo la scelta ideale per una diabetica, ma più tardi avrebbe compensato con una dose di insulina.

    Dal Pavilion uscirono alcuni turisti, chiacchieravano affascinati da quello che avevano visto. Era una villa stile Disney costruita ai tempi della Reggenza, una specie di torta nuziale di cupole a forma di cipolla, torri appuntite e stucchi color crema. A Marni ricordava le storie di Sheherazade e le Mille e una notte. Se ne era innamorata sin dal primo giorno che aveva messo piede a Brighton. Sospirò, guardandosi intorno alla ricerca di un posto in cui sedersi. Tutte le panchine erano occupate, la gente si stendeva sul prato, mangiando e bevendo, ridendo o prendendo beatamente un po’ di sole.

    Lo vide all’improvviso, e lo stomaco le finì sottosopra. Si voltò di scatto, sperando con tutta se stessa che lui non la notasse. Non era proprio dell’umore adatto per incontrare suo marito. Ex marito, a essere precisi. Un uomo imprevedibile il più delle volte, e sempre impegnativo dal punto di vista emotivo. Si erano sposati appena maggiorenni e da allora erano stati sempre insieme – certo, tranne che negli ultimi dodici anni. Ma non era mai passato un solo giorno senza che le invadesse i pensieri. Avevano un figlio, e questo complicava ancora di più una relazione che si poteva spiegare solo con la classica definizione amore e odio.

    Azzardò un ultimo sguardo fugace e vide Thierry Mullins che attraversava il prato con un’espressione funesta e il viso scuro. Aveva un’aria losca, continuava a guardarsi alle spalle. Ma che ci faceva lì? Sarebbe dovuto essere alla convention, era membro del comitato organizzativo.

    «Sono due sterline e quaranta, grazie».

    Marni pagò il caffè, afferrò il bicchiere di cartone e scivolò furtivamente verso il lato opposto del locale cercando in tutti i modi di non farsi vedere da Thierry. Quando si accese una sigaretta le mani le tremavano ancora per l’ondata di adrenalina. Perché le faceva quell’effetto? Ormai avevano passato più tempo da divorziati che da sposati, eppure lui era identico al giorno del loro primo incontro. Alto e slanciato, con un volto affascinante e la pelle coperta di tatuaggi. Era così che Marni aveva scoperto quella forma di arte viva, che aveva amato immediatamente. Cercava di evitarlo, eppure si sentiva sempre più attratta da lui. In un paio di occasioni erano andati vicinissimi a rimettersi insieme, finché il suo istinto di autoconservazione non le aveva fatto tirare di colpo il freno. Eppure non ce la faceva a voltare pagina, e ormai ci aveva rinunciato. Fece un tiro profondo. Caffeina, nicotina e respiri. Chiuse gli occhi, aspettando che i principi chimici facessero il loro effetto.

    Spense il mozzicone di sigaretta nei rimasugli di caffè e si guardò intorno in cerca di un cestino, scorgendo un grosso cassonetto verde dell’immondizia sul retro del locale. Schiacciò il pedale, sollevando il coperchio. Mentre gettava il bicchiere, venne assalita da una zaffata putrida. Era un odore di gran lunga peggiore della solita puzza dei cassonetti nelle giornate temperate. La bile le risalì in gola, mentre si affacciava per curiosare all’interno. Se ne pentì all’istante.

    In mezzo alle lattine di Coca schiacciate, i giornali stracciati e i contenitori dei vari fast food riusciva a scorgere qualcosa. Linee pallide e lucide che ben presto presero la forma di un braccio, una gamba, una schiena. Un corpo umano, inequivocabilmente morto. Qualcosa si mosse là dentro – un topo: rosicchiava i lembi di una ferita scura e profonda. Disturbato dalla luce del giorno, squittì e scomparve fra l’immondizia.

    Marni fece un passo indietro. Il coperchio del cassonetto si chiuse rumorosamente.

    E lei corse via.

    Capitolo 2

    Francis

    Francis Sullivan chiuse gli occhi mentre l’ostia consacrata gli si scioglieva in bocca attaccandosi al palato. Provò a concentrarsi sui mormorii dei sacerdoti e dei fedeli intorno a lui, ma la sua mente continuava a vagare inquieta.

    Ispettore Francis Sullivan.

    Pronunciò quelle parole in silenzio, assaporandone il gusto sulla lingua. Ecco come l’avrebbero chiamato dal mattino seguente, il primo giorno del nuovo lavoro. La promozione inaspettata lo aveva reso, a ventinove anni, l’ispettore più giovane di tutte le forze armate del Sussex. Si sentiva più nervoso del primo giorno di liceo. Sicuramente era una bella cosa, ma comunque terrificante. Un grosso atto di fede da parte dei suoi superiori. È vero, aveva superato tutti gli esami a pieni voti. E nel colloquio con la commissione aveva risposto in modo brillante. Ma perché l’avevano promosso così presto, quando aveva relativamente poca esperienza sul campo? Forse perché suo padre era stato un apprezzato patrocinante per la corona? Era un pensiero che non sopportava.

    Il nuovo superiore, l’ispettore capo Martin Bradshaw, si era mostrato ben poco entusiasta quando gli aveva comunicato la promozione. Non gli aveva nemmeno fatto le congratulazioni. Francis si era chiesto se fosse stato favorevole alla decisione, o se fosse stato semplicemente scavalcato dagli altri membri della commissione.

    Lo stomaco gli si chiuse pensando a Rory Mackay, il sergente Rory Mackay. Superato da un suo sottoposto, costretto a fargli da vice. Lo aveva incontrato la settimana prima a una presentazione formale nell’ufficio del capo, e l’anziano sergente lo aveva trattato con totale indifferenza. Per tutto il tempo si era tenuto incollato al volto la smorfia di uno che trova un verme spaccato a metà nella mela che ha appena morso. Francis aveva accolto quella freddezza con educato distacco professionale – conosceva bene i rischi di diventare pappa e ciccia con i membri della propria squadra – ma, dentro di sé, sentiva che il loro rapporto non sarebbe stato affatto facile.

    Il sergente sperava di vederlo fallire. E Francis sapeva che non era il solo.

    «Il sangue di Cristo».

    Francis aprì di colpo gli occhi e alzò la testa, pronto a bere un esiguo sorso di vino dal calice.

    «Amen», mormorò.

    E così sia.

    Forse era davvero troppo presto? Durante le selezioni era sempre stato calmo e sicuro di sé. Le prove scritte non gli avevano mai causato problemi. Il successo sulla carta gli aveva creato negli anni delle aspettative troppo alte da soddisfare? Le insidie di una promozione affrettata erano un argomento mitologico fra i membri delle forze armate. Ne aveva sentite tante di storie al bar, apocrife e non. Ti trovavi costretto a correre quando ancora dovevi imparare a camminare. Fallivi, ancora e ancora, nella smania di raggiungere un qualche risultato. Nella sua situazione, non sarebbe neanche servito un errore madornale per finire nelle retrovie. Bastavano giusto un paio di casi irrisolti.

    L’ansia guastava il sapore del traguardo raggiunto. Ispettore Francis Sullivan. Non era riuscito a dormire dopo aver ricevuto la notizia. La concentrazione su cui avrebbe dovuto fare pieno affidamento era svanita nel nulla. Evaporata. Dannazione. Forse puzzava ancora di latte, ma non era affatto stupido. Sapeva benissimo che la squadra che aveva il compito di dirigere non lo credeva in grado di svolgere il lavoro. Non era pronto, secondo loro. E quindi doveva portare tutti dalla sua parte sin dal primo giorno, dal primissimo caso. Altrimenti avrebbe fallito, e avrebbe dato ragione a chi lo criticava. Di certo non gli avrebbero dato una mano. Bradshaw e Mackay lo tenevano d’occhio. Aspettavano. Prima o poi avrebbero trovato un modo per farlo inciampare.

    Alzò la testa verso la statua di Gesù sulla croce, sospeso sopra il presbiterio. Il Figlio di Dio gli lanciava uno sguardo di rimprovero e Francis abbassò di nuovo il capo. Borbottò qualche parola di una preghiera, si fece il segno della croce e tornò a sedersi, sentendosi in colpa per quella distrazione.

    Intonò l’inno finale in modo meccanico, senza capire il significato delle parole, e poi si inginocchiò a pregare. Per una manciata di minuti tornò a concentrarsi sui motivi per cui era lì – un pensiero a sua madre, una grazia per la sorella. Una benedizione a tutti i suoi cari. Tranne suo padre.

    Il cellulare nella tasca dei pantaloni vibrò senza dargli il tempo di prenderlo prima che partisse la suoneria. Un unico bip che nella chiesa raccolta sembrò molto più lungo e rumoroso. Si voltarono tutti, una donna lo zittì con disapprovazione. Mise immediatamente il telefono in modalità silenziosa e guardò padre William.

    Francis chinò la testa in segno di scuse, poi lesse furtivamente il messaggio.

    Era da parte del sergente Mackay.

    Cominci un giorno prima. Trovato cadavere ai Pavilion Gardens.

    Non appena poté alzarsi senza offendere la suscettibilità dei parrocchiani si diresse verso i portoni aperti in fondo alla chiesa. Nel portico, padre William si morse un labbro prima di parlare.

    «Francis».

    «Non mi scuserò mai abbastanza, padre. Pensavo di averlo spento».

    «Non è per questo che sono preoccupato. Piuttosto, sembravi turbato durante la funzione. Vuoi parlarne?»

    «Mi piacerebbe», rispose Francis. E diceva sul serio. «Ma devo scappare. Hanno trovato un cadavere».

    Padre William si fece il segno della croce borbottando qualcosa, e poi gli posò una mano sul braccio. «C’è così tanto male al mondo. Sono preoccupato per te e questo lavoro, Francis. Sei sempre sull’orlo della disperazione».

    «Ma dalla parte della giustizia».

    «È Dio il giudice ultimo, non dimenticarlo».

    Una signora di mezz’età diede una spinta a Francis. Stava rubando troppo tempo al vicario.

    Il giudice ultimo. Si ripeté quella frase ancora e ancora. In paradiso, di sicuro. Ma qui sulla Terra dare la caccia al male e agli uomini che lo fanno era compito di gente come lui. Il suo lavoro era trovare gli assassini e consegnarli alla giustizia. E adesso il primo della lista aveva bussato alla porta, e lui era determinato a scovarlo. Perciò, ben venga l’aiuto di Dio.

    Ma se non fosse arrivato sostegno dall’alto, be’, se la sarebbe cavata da solo.

    Capitolo 3

    Francis

    L’auto di Francis avanzava lentamente su New Road. La folla del giorno di festa non si faceva da parte neanche con il lampeggiante blu acceso. Ogni maledetto centimetro di strada era occupato – il che significava che nessuno riconosceva più la propria corsia e tutte le auto pensavano di avere la precedenza. Un paio di ululati di sirena, e una famiglia troppo lenta si fece da parte, fissandolo con sguardi stizziti. L’ispettore alzò gli occhi al cielo.

    Parcheggiò di fronte a una fila di panchine alle porte dei Pavilion Gardens. Una donna che dava il gelato al figlio lo sgridò perché stava passando proprio dove camminava lei, ma per il resto la gente che si accalcava lì era troppo impegnata ad allungare il collo oltre il cancello per accorgersi del suo arrivo. Notò con sollievo che l’intera area era stata recintata e diversi poliziotti sorvegliavano il cordone.

    Mostrò il distintivo e lo lasciarono immediatamente passare. Rory Mackay lo vide e gli andò incontro con indosso la tuta bianca della scientifica.

    «Sergente Mackay», lo salutò Francis con un cenno del capo. «Aggiornami, cos’abbiamo?»

    «Prima devi mettere la tuta, capo», rispose il collega, fulminandolo con lo sguardo. «Ne ho una in più nel portabagagli della macchina».

    Francis lo seguì fino a una Mitsubishi argentata parcheggiata in mezzo ad altre macchine di fronte al cancello nord, dall’altro lato dei giardini. Si maledisse in silenzio per non essersi portato una tuta della scientifica sulla scena del crimine. E pure per non essersi diretto verso quel lato dei giardini, dove avrebbe parcheggiato con più facilità.

    «Pensavo che saresti arrivato prima, dato che è il tuo primo caso».

    Francis s’irrigidì. «Ero in chiesa, Mackay. Non avrei dovuto neanche leggerlo, il messaggio. Almeno fino alla fine della messa».

    «Vero».

    Francis notò il sorrisetto che per un secondo apparve sul volto del sergente.

    Mackay aprì il bagagliaio e passò a Francis una tuta bianca. Ne approfittò per fare un rapido inventario del contenuto dell’auto. Tre scatole di Stella, bottiglie, due casse di Heineken, diverse lattine. Carbonella per il barbecue. Non ci voleva molto a intuire quali piani si era fatto Mackay per quella domenica.

    «Dovrebbe andarti bene. Ma sta’ attento, questi cosi si strappano facilmente».

    «So come funziona. Le ho già indossate in passato», rispose Francis.

    La tuta era di una taglia più piccola, le gambe dei pantaloni troppo corte. Nell’attesa Rory si appoggiò alla fiancata dell’auto e fece qualche tiro della sigaretta elettronica.

    «Mettiamoci subito al lavoro», disse Francis, aggiustandosi le maniche.

    Mackay richiuse il bagagliaio, poi raggiunsero la caffetteria.

    «Alle 11,47 di stamattina ci è arrivata la segnalazione di un cadavere abbandonato nei cassonetti sul retro del Pavilion Gardens Café. Non abbiamo altri dettagli al momento».

    «Qualche idea su chi possa aver fatto la chiamata?»

    «Una voce femminile. Ma ha riattaccato prima che il sergente potesse chiederle un nominativo».

    «E il numero?»

    «Un telefono usa e getta non intestato».

    Quella era la prima pista da seguire.

    «Il corpo?», continuò Francis.

    «Maschio, nudo. Evidenti segni di contusione alla nuca e una ferita importante sulla spalla sinistra e sulla schiena. Niente documenti, ma un discreto numero di tatuaggi che dovrebbero agevolare il riconoscimento».

    «Nient’altro?»

    «Potremo passare al vaglio il contenuto del cassonetto quando il corpo sarà rimosso, stiamo solo aspettando Rose».

    Rose Lewis, patologa forense. Erano in buone mani. Francis aveva lavorato con lei a un paio di casi quand’era poliziotto semplice.

    «Bene, meglio che dia un’occhiata», disse Francis.

    Mentre si avvicinavano alla caffetteria, Rory rispose al cellulare. «Sì, signore. È arrivato ora, signore… Ho sigillato la zona e messo all’opera la scientifica. Abbiamo chiamato la patologa, sì…».

    Rory restò in silenzio per qualche secondo, annuendo. «Sì, credo che abbia il telefono acceso ora. Era in chiesa».

    Dal suo tono di voce si capiva benissimo come la pensava su quell’argomento. Francis accelerò, non era proprio così che aveva sperato di iniziare il suo primo caso.

    Attraversarono il prato e Rory gli fece segno di andare avanti, verso un lato della caffetteria. Sul retro dell’edificio c’erano diversi cassonetti di plastica verde. Non appena si avvicinarono, l’odore intenso assalì le narici di Francis costringendolo a respirare dalla bocca. Il riflesso faringeo gli fece venire i conati, la bocca si riempì di saliva. Combatté contro l’istinto di vomitare. L’area brulicava di poliziotti della scientifica vestiti di bianco – setacciavano il terreno, misuravano distanze e scattavano foto.

    «Apri», ordinò Rory.

    A guardia del cassonetto di destra c’era l’agente semplice Tony Hitchins. Quando Francis e Rory si avvicinarono, pestò il pedale che sollevava il coperchio evitando accuratamente di guardare all’interno. Francis infilò un paio di guanti in

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