Non mi sfuggirai
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Anteprima del libro
Non mi sfuggirai - Gianni Ciardi
Vanligt)
I – Rea Altieri
Perfino un attimo può avere la forza dell’eternità. Un pensiero fastidioso che accompagnò le mie due ultime ore in aula, mentre ascoltavo la voce bassa e monotona del docente di diritto privato, chiusa in una stanza colma di scomode sedie di plastica.
Avrei fatto volentieri a meno di frequentare quelle lezioni, ma il professore era intransigente sulla frequenza: pretendeva che gli studenti partecipassero al corso assiduamente. La sua memoria era ferrea, infatti non dimenticava mai una faccia. Con gli studenti che non avevano seguito le sue indicazioni, calava la mano in modo pesante al momento dell’esame di fine anno.
La lezione fu una vera tortura. L’aria era calda e stagnante, carica di odori sgradevoli. Gli studenti si agitavano sulle sedie, nervosi e rassegnati, alcuni stanchi della giornata giunta alla fine, altri tesi per la verifica che ci sarebbe stata a breve.
Non ero affatto preoccupata per la verifica imminente, tuttavia la stanchezza per lo studio intensivo delle ultime settimane cominciava a farsi sentire. Mi consolava l’avvicinarsi del traguardo finale verso l’avvocatura, la mia passione, e un meritato periodo di riposo.
Quando il docente dichiarò conclusa la dissertazione, gli studenti uscirono veloci nel corridoio della facoltà quasi deserto, come se cercassero una scialuppa di salvataggio su una nave che affonda. In attesa che la fiumana passasse, mi accomodai su una panca di lucido legno scuro. Il rumore dei passi frenetici degli studenti svanì velocemente, lasciando il posto al silenzio che già regnava nell’ateneo.
Tirai fuori la giacca di lino color caramello dalla capiente borsa e sistemai i pochi appunti di approfondimento che avevo avuto la forza di scrivere. Dopo averla indossata, lasciai l’edificio e m’incamminai lungo il viale principale, passando a fianco della grande statua di Minerva, la dea della guerra e della saggezza, simbolo dell’università. Pochi studenti notavano le proporzioni sgraziate del corpo, la testa piccola, le braccia tozze protese al cielo e la veste a pieghe parallele identica al fusto di una colonna. Nonostante tutto, la scultura mi piaceva, non tanto per il suo impatto estetico, bensì per il suo valore simbolico: guerra e saggezza in un’unica figura, un connubio che sembrava discordante, ma nel quale io avevo sempre visto la lotta per affermare le proprie idee.
L’aria era frizzante e il cielo azzurro stava sbiadendo rapidamente. Qualche studente si attardava tra i viali alberati e gli edifici silenziosi. Decisi di aumentare il passo. Non volevo perdere il treno delle 19:15. Di solito per andare a Roma usavo l’auto, una Smart bianca, ma dei rumori sospetti mi avevano convinta a lasciarla alle cure del meccanico, quindi, a malincuore, avevo preso i mezzi pubblici.
Arrivai all’altezza del grande portale d’accesso dell’università, che si affacciava sul piazzale dedicato ad Aldo Moro. Costeggiai il perimetro esterno e imboccai il viale alberato che mi avrebbe portata in vista della stazione Termini, un percorso pressoché rettilineo tra edifici ministeriali e uffici.
L’oscurità era calata velocemente. Vedevo le sagome indistinte di alcune persone a qualche centinaio di metri, forse altri studenti che si dirigevano alla ferrovia o magari dei turisti. Le ombre della sera annullavano i confini delle cose e isolavano i pensieri e le emozioni.
Pensai di essere sola, ma sbagliavo. All’improvviso, alle spalle, avevo udito una voce roca dal forte accento romano. Feci finta di non aver sentito, continuando a camminare.
La voce si fece più vicina.
Mi voltai, solo per un attimo. Un uomo basso e stempiato, vestito con jeans macchiati e un giubbotto scuro, stava chiedendo qualcosa: «Ehi, bella bambina! Mi offri una sigaretta?». Il volto dell’uomo, debolmente illuminato da un lampione, aveva la pelle simile a carta vetrata. Gli occhi erano piccoli e scuri. La bocca larga disegnava una linea sottile e dura.
«Non fumo», risposi senza fermarmi.
Lo sconosciuto aveva replicato senza desistere. «Potremmo bere qualcosa insieme.»
Con un senso d’inquietudine, mi diedi della stupida per non aver chiesto la compagnia di qualche studente: molti colleghi di corso si sarebbero offerti volentieri di non lasciarmi sola durante il tragitto fino alla stazione. Un’imperdonabile leggerezza! Se avesse saputo le mie intenzioni, papà, il commissario di polizia di Mirona, non avrebbe mai permesso che girassi da sola di sera per Roma. Aveva ragione, me ne rendevo conto, ma era ormai tardi per pentirsene.
«Devo prendere il treno, sono in ritardo!» avevo tagliato corto, sperando di chiudere la faccenda.
Aumentai il passo, riuscivo a scorgere le luci della stazione in lontananza. Bastava percorrere il viale, superare tre traverse, e sarei stata al sicuro tra la folla dei viaggiatori.
La speranza di farcela aumentò man mano che avvicinavo quei bagliori dorati. Mancava davvero poco. Attraversai il viale correndo, ma fu lì, a pochi passi dalla salvezza, che il viaggio terminò. Due braccia robuste mi afferrarono da dietro, spingendomi nella prima delle tre vie laterali, quella meno illuminata, tra le automobili in sosta.
La borsa con gli appunti della lezione cadde a terra.
«Dai, non fare la difficile!» disse l’uomo. «Si vede che hai una voglia matta di divertirti», aggiunse, tenendomi tra le braccia e schiacciandomi al muro col suo peso.
Avevo avvertito il suo odore, acido, rivoltante. La nausea mi assalì come un’ondata di piena.
«Ti prego, lasciami andare. Posso darti dei soldi!» La mia voce era debole ed esitante. Avevo cercato di mostrarmi accomodante per evitare che la situazione degenerasse ulteriormente.
Speravo ancora di cavarmela, ma l’uomo pose fine alla trattativa in modo fin troppo chiaro: «No, bambina, non cerco soldi. Voglio qualcosa di più prezioso».
Mi tappò la bocca con la mano ruvida e callosa.
Per tutta risposta provai a urlare.
Tentò subito di toccare il seno. I suoi movimenti erano frenetici: cercavano di bilanciare i miei tentativi di fuga con la voglia che gli stava bruciando nelle vene.
Il mio corpo fu travolto da scosse elettriche di puro terrore e nella testa i pensieri si fecero vorticosi e confusi. Avevo gli occhi rivolti verso il viale, in cerca di una speranza di libertà, e compresi che tutto sarebbe andato nel peggiore dei modi quando intravidi due sagome che, accortesi di quello che stava accadendo, avevano cambiato strada indifferenti al mio destino.
Ero davvero al limite delle forze: stavo per cedere a quella furia bestiale. L’uomo dallo sguardo avido di desiderio se ne rese perfettamente conto. Mi strattonò, facendomi cadere sul marciapiede. Urtai la testa sull’asfalto umido e rimasi stordita. Quel che avevo percepito, a quel punto, furono pochi frammenti di voci e immagini confuse senza alcun filo conduttore, come scene tagliate da chissà quale filmato. Non seppi dire quanto tempo fossi rimasta a terra: nei momenti di paura si perde la cognizione del tempo, che tende a dilatarsi a dismisura e accresce la solitudine e l’insicurezza.
Fu il suono acuto dell’ambulanza che mi costrinse a riaprire gli occhi: l’immagine si era stabilizzata e le voci erano scomparse. Un uomo era inginocchiato accanto a me, sussurrandomi parole d’incoraggiamento. «è finita, non muoverti. I soccorsi stanno arrivando.» Aveva una voce profonda e calda. Non riuscivo a distinguere i lineamenti del volto. La luce balbettante del lampione alle sue spalle metteva in penombra i dettagli essenziali.
«Dove è andato?» Tentai di sollevarmi sui gomiti, ma fu inutile: la testa mi doleva e una vertigine mi costrinse a stare immobile.
«Calma, non muoverti. è scappato, ma non ti farà più alcun male. La polizia lo troverà.»
«Mi hai salvata. Se non fosse stato per te, io…» Esitai per il brivido di quello che sarebbe potuto accadere. Lacrime di sollievo velarono il mio volto.
Cercai di mettermi di nuovo in piedi, però le gambe esitarono per lo sforzo. Stavo per cadere di nuovo, se non fosse stato per il ragazzo che prontamente mi sostenne. Guardai la borsa, poggiata sul marciapiede accanto a me.
«L’ho recuperata», spiegò seguendo la direzione del mio sguardo. «è per merito suo che mi sono accorto di te. Nessuno lascerebbe la propria borsa per strada senza un motivo davvero valido!»
Puntai lo sguardo su di lui. Fu quella la prima vera occasione per studiare l’aspetto del mio soccorritore. Era alto e longilineo, con capelli castani spettinati secondo la moda del momento. Gli occhi erano scuri e la fronte spaziosa. La bocca era perfetta, incorniciata da un ciuffo accennato di barba sotto il labbro inferiore. Piccole escoriazioni sugli zigomi risaltavano sulla pelle liscia.
Cominciai a tremare, di nuovo. Sembrava che il cuore stesse per scoppiare. Stavo esaurendo le ultime energie. Dovetti appoggiami al muro per non cadere. Compresi che tutto doveva essere una reazione naturale alla brutta esperienza che avevo vissuto.
Il ragazzo mi guardò con un’espressione rassicurante e provai per lui tutta la gratitudine possibile.
Il suono sempre più acuto e fastidioso tra i palazzi scuri annunciava l’arrivo dell’ambulanza: entro pochi secondi ci avrebbe raggiunti.
«Mi chiamo Thomas.» La risposta arrivò un istante prima della mia domanda, quasi avesse letto nel pensiero.
«Ti ringrazio per avermi difesa», dissi indicando le sue ferite.
«Guariranno presto.»
Tacemmo entrambi: era una situazione fuori dall’ordinario e non trovammo altro da dirci. Ci guardammo, indifferenti alle voci e ai suoni che provenivano da lontano.
L’arrivo dei soccorsi impedì che l’imbarazzo continuasse.
Qualche curioso assistette alla scena. Per molte persone la sofferenza altrui costituisce lo spettacolo più irresistibile, pensai con amarezza.
Al pronto soccorso mi venne riscontrata una leggera commozione cerebrale, niente che un paio di giorni di assoluto riposo non potesse sistemare. A Thomas furono applicate tre piccole garze adesive sul volto. Due poliziotti ci interrogarono separatamente, ci fecero descrivere l’aggressore e compilarono un modulo per la denuncia.
Papà mi trovò in sala d’aspetto. La furia, che doveva aver provato quando era stato avvertito dell’accaduto, si placò nel momento in cui mi vide rannicchiata sulla sedia, con le braccia strette al petto e la testa china, tra una piccola folla di persone mute e in attesa di buone notizie. Si avvicinò e mi scosse dal torpore, cercando di non lasciar trapelare il suo disappunto.
«Papà, mi dispiace.» Ero mortificata. Lui era l’ultima persona che avrei voluto far soffrire. Era l’uomo che amavo di più.
«Lascia perdere, tesoro!» Il suo volto era teso. Un sorriso tirato disegnava sottili rughe ai lati della bocca. Piegato sulle ginocchia, sfiorò con la mano destra la bendatura che mi coronava la folta chioma nera. «Torno subito, giusto il tempo di parlare con il dottore, e ti porto a casa», annunciò mentre si rimetteva in piedi. «A casa nostra», aggiunse con tono fermo, quello che non ammetteva repliche.
Sparì alla vista in un lampo. Avrei voluto ribattere, tuttavia decisi di lasciar perdere. Non era il caso di mettere alla prova il suo autocontrollo più di quanto non avessi già fatto. Per quella notte sarei tornata a dormire nella mia vecchia stanza e avrei cercato di tollerare la presenza della nuova compagna di papà. Non dovevo far altro che dire quattro frasi di pura cortesia e chiudermi in camera.
Mi piegai in avanti, puntando i gomiti sulle ginocchia, con le dita sottili e delicate impegnate a intrecciare le ciocche di capelli libere dalla morsa della fasciatura. Lo sguardo era fisso: il pensiero era lontano da lì, ma in nessun posto.
«Ciao!»
La voce mi fece sussultare. Thomas si era seduto accanto e mi puntava addosso uno sguardo intenso e un sorriso largo. Indossava una tuta grigio chiaro e un giubbetto in pelle nera.
«è arrivato mio padre», dissi. «Sta facendo il terzo grado al medico. Tu, come ti senti?»
I miei occhi erano concentrati sulle sue medicazioni.
«Te l’ho detto. è tutto a posto. Io sono una roccia», si schernì indicando, impacciato, garze e cerotti.
«Già, vedo!» Sorrisi per la prima volta. Tra una frase e l’altra, studiai attentamente il ragazzo. Gli occhi castani incorniciati da folte sopracciglia conferivano un’espressione bonaria all’ovale del volto. C’era però dell’altro in lui, lo sentivo, e tuttavia non riuscivo a capire cosa fosse. La sua voce vellutata trasmetteva serenità. Istintivamente, senza pensarci, mi slanciai verso di lui e abbracciai quel corpo solido.
Lui esitò per la sorpresa, poi rispose all’approccio.
«Credo che mio padre voglia ringraziarti, tra poco tornerà», sussurrai a occhi chiusi. Il contatto mi scaldò: avevo sentito un calore piacevole, sconosciuto e intenso. Quell’abbraccio ci ricompensò entrambi per quanto era accaduto.
Fu Thomas, a un certo punto, ad agitarsi e io reagii di conseguenza, abbandonando la presa.
«Devo andare.» All’improvviso, senza più il suo bel sorriso, si alzò e si diresse verso l’uscita della sala.
«Ma… ehi, aspetta!» protestai confusa.
Thomas si girò all’altezza della porta automatica. «Sono certo che avrò l’occasione di conoscerlo.» Sorrise con una smorfia che sembrava sapere cose che ignoravo e si dileguò.
Quando papà fece ritorno, rassicurato sulle mie condizioni, stavo ancora pensando a Thomas, in particolar modo allo sguardo indecifrabile che mi aveva indirizzato prima di andarsene, un vero enigma.
Uscimmo dall’ospedale che le stelle avevano cominciato a brillare vivacemente. L’aria era fresca. Si era alzato un vento capriccioso, fastidioso.
La conversazione continuò in auto.
«Senti, papà, non dire a Caterina quello che è accaduto: preferisco che ne resti all’oscuro.»
«Noterà la benda.»
«La tolgo, tanto non serve più. Il dolore alla testa è quasi passato.» Prima che potesse protestare, con un gesto rapido, avevo sfilato la garza.
Caterina Cosentino, la nuova compagna di papà, era una delle ragioni che mi avevano spinta a lasciare la casa paterna. La mia matrigna era una signora elegante nei modi e nell’abbigliamento curato. I lunghi capelli color rame, sempre raccolti dietro la nuca a evidenziare il collo lungo e regale, e gli occhiali a goccia le davano l’aspetto tipico della dirigente d’azienda. La consideravo simpatica, eppure il nostro era un rapporto del tutto superficiale. Non avevo mai fatto sforzi per conoscerla davvero, poiché non ero stata capace di aggirare il muro di diffidenza che si era creato tra noi fin dal principio. Caterina aveva però un pregio fondamentale: viveva la vita senza intromettersi in quella degli altri. Quando papà me la fece conoscere, compresi che era arrivato il momento di trasferirmi nella casa che mi era stata intestata da piccola. Una decisione, quella, che non aveva avuto niente a che fare con Caterina. Volevo che papà potesse vivere appieno la nuova storia d’amore: io sarei stata solo d’intralcio. Me ne andai con la serenità nell’anima e l’emozione per l’indipendenza che ne conseguiva. Il denaro non era stato un problema dato che il nonno materno mi aveva assegnato una cospicua rendita dal patrimonio di famiglia. Era il momento di cambiare: una vita autonoma per me, un nuovo inizio per papà con la donna che gli aveva fatto ritrovare la serenità tanto desiderata.
«Terrai questo segreto anche con Marta?» chiese lui.
«Forse. Ci devo pensare un po’. Se sapesse quello che è successo, mi coprirebbe di premure.»
Presi il telefono dalla borsa e inviai un messaggio a Marta per informarla che avrei dormito a casa di papà.
«Sì.» Aveva annuito con un mezzo sorriso. Sapeva che detestavo attirare gli sguardi altrui, occhiate che l’avvenenza catturava spontaneamente.
Accesi l’autoradio sulla mia emittente preferita, Run Power. Volevo dimenticare al più presto l’aggressione, anche se il volto di Thomas non faceva che tornarmi in mente. Il ricordo m’infastidì parecchio perché sentivo che non era solo meritata riconoscenza. Che fosse curiosità? O, magari, c’era anche dell’altro? Dovevo riordinare le idee, le emozioni che quell’esperienza aveva scatenato in me, anche se non sapevo come fare.
‘Confusione’ fu la parola che affiorò sulle mie labbra.
Quasi avesse letto nel pensiero, papà chiese: «Lo conoscevi?».
«No, mai visto prima», risposi, e subito me ne pentì. La risposta era perfetta per una domanda tanto vaga: era un’implicita ammissione del fatto che stessi pensando a Thomas. Lui se ne accorse e serrò gli occhi indagatori sulla strada scorrevole.
«Sei sicura?» Il suo tono era serio.
«Certo! Lui non sa neppure come mi chiamo. Ho dimenticato di dirglielo. Perché?»
Non capivo dove volesse arrivare con l’interrogatorio.
«Abita in città anche lui. Che coincidenza!»
La rivelazione mi colse di sorpresa e papà se ne rese conto.
Ricordai, in un istante, l’ultima frase di Thomas: ‘Sono certo che avrò l’occasione di conoscerlo’. Possibile che Thomas sapesse chi fossi? Era quello il motivo per cui non aveva chiesto nemmeno il nome? Che mi avesse vista in città? Domande che richiedevano risposte.
«Domani gli telefono per ringraziarlo», disse papà strappandomi a quel flusso di pensieri. «È il minimo che si possa fare. I colleghi di Roma mi hanno dato il suo recapito telefonico. Magari potremmo invitarlo a cena. Ho proprio voglia di vederlo in faccia.»
«è una buona idea», avevo annuito, pensandolo davvero.
«Non hai molta voglia di parlare, eh?»
«Ho solo voglia di dormire un po’.»
«Capito.»
Gli ultimi minuti di viaggio furono accompagnati dalle note di ‘Like a Prayer’. Amavo quella canzone e la voce calda di Madonna: mi ricordava i giorni sereni dell’estate precedente, passati con gli amici di sempre. Mi chiesi, con un po’ di nostalgia nel cuore, se la stagione in arrivo sarebbe stata altrettanto appagante.
Papà parcheggiò sotto casa, nel quartiere residenziale a nord della città. Caterina ci stava aspettando.
L’appartamento era al quarto piano di uno stabile d’inizio Novecento, con decori floreali in stucco lungo le cornici delle finestre e le linee marcapiano. L’interno rivelava il buon gusto della donna: quadri astratti, tappeti mediorientali, mobili d’antiquariato e piante in ogni stanza, davano alla casa quello che era il suo tocco personale.
Caterina ci accolse con spontanea cordialità. Ci invitò a rinfrescarci in attesa della cena e sparì in cucina per apparecchiare la tavola.
Andai nella mia vecchia stanza e mi stesi sul letto in ferro battuto. Quel mondo privato, venticinque metri quadrati di libri e fotografie, era stato risparmiato dai progetti di ristrutturazione di Caterina. Papà, appena trasferita nel nuovo appartamento, mi aveva abbracciata dicendo: «Questa rimane la tua stanza. Puoi tornare quando vuoi».
Dieci minuti dopo, venne lui a chiamarmi per la cena.
Mangiai con poco gusto, benché Caterina fosse una cuoca provetta. La conversazione era stata, come sempre, breve e superficiale, condita dai distratti commenti della donna sulla giornata appena trascorsa, per lo più pettegolezzi sui colleghi dell’ufficio e questioni sulla gestione della casa. Papà ascoltava quelle chiacchiere con attenzione, mentre mangiava.
Lui, invece, non accennava mai al suo lavoro e lei non faceva domande al riguardo. Caterina era l’elemento stabilizzatore nella sua vita: lei gli dava quella serenità necessaria a sostenere la tensione quotidiana del commissariato che dirigeva.
Lei era stata premurosa come al solito. «Mangia qualcosa tesoro. Sei molto pallida.»
Avevo letto uno sguardo inquisitorio e preoccupato sul volto di papà, così feci uno sforzo e mangiai buona parte della bistecca con verdure che aveva cucinato.
Quando ritenni di aver fatto onore al pasto, la ringraziai per la cena e baciai papà sulla guancia, augurando loro la buona notte.
Presi sonno in pochi minuti, desiderosa di dimenticare tutto.
Il giorno successivo, all’alba, ero già pronta per tornare nel mio appartamento. Trovai papà in cucina, seduto davanti a una tazza di caffè, vestito di tutto punto e rasato, pronto per iniziare il lavoro in commissariato. Caterina era già uscita.
«Dormito bene?»
«Sì, come un orso in letargo.» Presi dal frigorifero una confezione monouso di succo di frutta.
Lui rise di gusto per il paragone. Disse che avevo ereditato dalla mamma un forte senso dell’umorismo. Come sempre succedeva, sentirla nominare, mi rattristò, anche se mantenni uno sguardo neutro. Era morta quando avevo dodici anni, in un incidente stradale. Di lei conservavo alcuni filmati, realizzati in occasione delle feste di compleanno, e tante fotografie che mantenevano vivi i ricordi dai contorni sempre più sbiaditi.
Le somigliavo parecchio, nel fisico e nel volto: avevo ereditato i suoi zigomi alti, gli occhi verdi, i lunghi capelli neri e il corpo longilineo. Papà diceva spesso che, ancor più che nell’aspetto, le affinità maggiori erano nelle sfumature del carattere. Secondo lui, infatti, avevo ereditato il suo coraggio e l’emotività, misti a un’ironia pungente. Nonostante l’affetto di papà e dei nonni, le attenzioni date dal giorno della sua morte, nessuno era riuscito a compensarne l’assenza, l’amore e il calore del contatto. Non lo avrei mai ammesso con nessuno che mi mancava molto.
«Che programmi hai, oggi?» La domanda di papà mi scosse dalla solitudine dell’assenza.
«Be’, torno a casa», risposi esitando un attimo. «Mi metterò a studiare per l’esame.»
«Diritto privato, giusto?»
«Sì, l’esame è vicino.»
Lui annuì e disse che era stato l’esame più impegnativo che avesse mai preparato. Quasi con imbarazzo, rivelò di averlo sostenuto due volte: la prima prova era stata giudicata insoddisfacente dal professore, la seconda elogiata.
«Ricordo ancora le parole del professor Cimmino. Vede che avevo ragione? Studiare qualche settimana in più le ha giovato, complimenti!
» Sorrise compiaciuto. «Vuoi sapere la verità? Quella seconda volta non avevo aperto libro. Avevo semplicemente rifatto la prova.»
Le sue parole non facevano altro che confermare la convinzione che gli esami fossero una convergenza di condizioni: allo studio di base doveva necessariamente aggiungersi una buona dose di fortuna, nonché la predisposizione favorevole degli insegnanti. In caso contrario, tutto era molto più difficile.
Terminata la frugale colazione, papà si alzò dalla sedia e si avviò verso l’ingresso, armeggiando con chiavi e cellulare. «Chiamerò quel ragazzo, più tardi.»
Non risposi. Rimasta sola, nella grande casa silenziosa, mi ritrovai a pensare a Thomas. Non riuscivo a liberarmi di lui. Che stesse diventando un’ossessione?
Guardai il riflesso allo specchio dorato di forma ovale che troneggiava in corridoio. «Voglio sapere chi sei, Thomas!» disse l’immagine.
Ero uscita dall’appartamento in cerca di risposte.
II – Thomas Caridi
Avevo coperto di nuovo le abrasioni con il correttore. Il trucco, la sera prima, aveva funzionato a meraviglia. Nessuno dei familiari si era accorto di nulla, nemmeno mia madre che era sempre attenta ai dettagli. Avevo chiamato per avvertire che avrei tardato. Una volta a casa trovai mia madre in salotto: stava guardando la televisione. Mio padre, Giuseppe, era già a letto: era diventato più taciturno del solito, ultimamente, e aveva preso l’abitudine di andare a dormire piuttosto presto. Mio fratello Simone, invece, era uscito per incontrare gli amici, come spesso accadeva.
Non mi ero fermato a parlare con mia madre, limitandomi a un semplice saluto per dirigermi subito in bagno, dove mi ero guardato allo specchio per togliere, facendo molta attenzione, la garza dal volto. Trovato un correttore per la pelle, l’avevo applicato sulle sottili ramificazioni raggrumate. Non avevo un’idea plausibile per giustificare il mio aspetto e non era il caso di raccontare quello che era successo. Lei si sarebbe preoccupata eccessivamente. Ne avrei parlato con Simone, forse, quando fosse rincasato.
Vivevo nella casa dei miei genitori, un appartamento di edilizia popolare spazioso con quattro stanze, un bagno e un balcone che circondava per intero il perimetro esterno delle mura. Un tempo aveva ospitato l’intera famiglia, al momento quattro persone. Mi piaceva vivere lì, ma se avessi potuto permettermelo, avrei preso in affitto un monolocale tutto mio. Le tasse universitarie e i libri da acquistare però prosciugavano quasi per intero il magro stipendio di collaboratore esterno al Mitreo, un giornale locale. Dato che non volevo chiedere soldi, dovevo accontentarmi di vivere lì con loro.
Il mattino seguente mi ero svegliato presto: dovevo studiare. Prima di andare in cucina, ero andato silenzioso in bagno, dove avevo fatto di nuovo uso del correttore.
Mamma stava preparando la colazione. L’aroma del caffè riempiva il piccolo locale, occupato da ripiani logorati dall’usura e credenze ammaccate in più punti.
Entrai nella stanza e mi accomodai in quella che era la mia sedia abituale.
«Buongiorno.»
«Il caffè è pronto», si limitò a dire lei.
Mi porse la tazzina, sistemandola sul tavolo di legno.
«Grazie.» Presi a sorseggiare la bevanda, gustandola con lentezza.
«Ieri sera sei andato in redazione, dopo l’università?»
«Sì», avevo mentito, sapendo che voleva una spiegazione per il ritardo. «Dovevo consegnare l’articolo di cui ti avevo parlato la settimana scorsa.»
«C’è possibilità che ti assumano in via definitiva?» Era una domanda che ripeteva spesso ultimamente.
«Forse, ma è una questione che verrà affrontata in seguito, credo.» Avevo parecchi dubbi al riguardo.
Lei sorrise, senza proseguire oltre. Era sicura che avrei raggiunto grandi traguardi in futuro, glielo leggevo sulla faccia rugosa, perché riuscivo a meraviglia in qualsiasi cosa decidessi di fare. Fin da piccolo avevo dimostrato una spiccata propensione all’eccellenza, nello sport come nello studio.
Leggevo, a volte, nei suoi occhi interrogativi amari la sorpresa di essere riuscita a mettere al mondo un ragazzo capace come lei non era mai stata. Sapevo che si considerava una persona insignificante. Alla sua età aveva smesso di fare progetti per il futuro e si accontentava ormai di una vita priva di sogni e di speranze. Le troppe delusioni di un’esistenza faticosa l’avevano spinta a credere di non valere il costo degli abiti dozzinali che indossava: quella convinzione deleteria di essere del tutto inutile la faceva cadere in depressione a fasi alterne, precipitandola in una realtà distante e impermeabile fatta di silenzi assordanti. E non esistevano parole che la potessero convincere del contrario. L’abbracciavo spesso e le baciavo il collo per darle conforto, per ricordarle di non arrendersi. Lei cercava subito di liberarsi dalla stretta e si lamentava sorridendo, timida come una ragazzina. Nonostante la sua reazione, intuivo quanto le facesse piacere quel contatto fugace. Quei gesti ripetitivi davano sollievo a entrambi, ogni giorno, e scacciavano, seppur per breve tempo, i cattivi
pensieri.
«Papà è già uscito?»
«Sì, come al solito. Si fumerà un paio di sigarette in auto mentre legge il giornale», chiarì con rassegnazione. Mio padre aveva l’obbligo tassativo di non fumare più, dopo l’ultimo infarto, e per un po’ di tempo era riuscito addirittura a non farlo. In seguito, aveva ripreso il vizio e ogni tanto lo sorprendevamo con la sigaretta tra le dita, anche se nessuno di noi se la sentiva di rimproverarlo.
Per assurdo, capita che ci faccia sentire meglio quello che più ci nuoce.
I miei genitori avevano smesso di vivere
nell’istante in cui abbandonarono la gioia di fare nuovi progetti. Li paragonavo, non potevo farne a meno, alle piante che mia madre coltivava sul balcone: come quelle, stavano fermi in attesa di ricevere quello che il destino aveva in serbo.
«Vado in biblioteca, mamma. Devo fare alcune ricerche per l’esame. Chiamami con il cellulare, se serve.» Sistemai la tazzina vuota nel lavabo.
«Va bene», rispose mentre rassettava la cucina.
Le diedi un abbraccio, afferrandola di spalle. Lei lasciò fare, immobile, in attesa che la liberassi dalla stretta. Le sorrisi e lasciai la cucina.
Tornato nella mia stanza, afferrai le chiavi della vecchia Fiat Punto nera, un cardigan grigio, la borsa che conteneva appunti di lavoro e documenti vari, e me ne andai.
Mi diressi nella zona nord della città, la biblioteca si trovava all’interno della villa comunale. Le sale di lettura erano due, con scaffalature metalliche grigie addossate alle pareti. I libri in catalogo era davvero molti, utili per qualsiasi approfondimento, considerato l’esiguità dello spazio disponibile.
Entrai nell’edificio e salutai la bibliotecaria, una signora minuta con vistosi occhiali a goccia e i capelli grigi. Vagai tra le pareti coperte di libri, in cerca di un volume di storia dell’arte, La scultura del Cinquecento nelle chiese di Roma. Trovato il piccolo testo, cominciai a sfogliarlo con attenzione: serviva per approfondire il programma del corso monografico tenuto dal professor Calvesi, docente universitario di fama internazionale.
Due studenti del vicino liceo artistico e due signori anziani occupavano i larghi tavoli da studio della sala. Tutti sembravano concentrati su quanto stavano leggendo.
Verso mezzogiorno la vibrazione del cellulare avvertì di una chiamata in arrivo. Prima di rispondere, ero uscito dalla stanza per non disturbare gli altri lettori. Scesi veloce le scale e arrivai all’uscita dell’edificio. Il sole era una piacevole carezza sul volto. Poche persone, per lo più anziani e qualche studente, passeggiavano tra i viali alberati della villa.
Sbirciai il display: un numero che non conoscevo. «Pronto!»
«Salve, sono il commissario Enrico Altieri. Parlo con Thomas Caridi?» chiese una voce metallica.
«Sì, sono io.» Sapevo che prima o poi quella telefonata sarebbe arrivata. In fin dei conti, era naturale che il commissario di Mirona volesse conoscere l’uomo che aveva salvato sua figlia, a maggior ragione se viveva nella stessa città.
«Spero di non disturbarla. Io e mia figlia vorremmo invitarla a cena, questa sera, se non ha altri impegni, s’intende.»
Avevo immaginato la telefonata, ma mai un invito, particolare quello che mi colse alla sprovvista. «Signore, non deve sentirsi in obbligo. Ho fatto solo quello che chiunque altro.»
«Nessun obbligo. Da quello che ha raccontato Rea non è poi così certo che chiunque altro avrebbe agito come ha fatto lei. Mi farebbe davvero piacere conoscerla. La prego di accettare l’invito.»
«Verrò con molto piacere.» L’agitazione iniziale aveva lasciato spazio a una nuova, rassicurante calma.
«Fantastico! Prenoto un tavolo al Thirteen. Che ne dice di vederci alle 21?»
«Perfetto, commissario. Grazie.»
«Di nulla. Anzi, sono io che devo ringraziare