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E-book457 pagine5 ore

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Info su questo ebook

Misteriosi bagliori nel bosco di una piccola città vicino a Roma sono il preludio di una serie di omicidi. Uno sconvolgente segreto non deve essere rivelato, eppure l’assassino lascia sulla scena di ogni crimine la riproduzione di un’opera d’arte, frammenti di un messaggio che la polizia locale, diretta dal commissario Enrico Altieri, cerca di decifrare. Si tratta dei dipinti di Sebastiano del Piombo, Giotto, Tintoretto, Monet, El Greco e Guercino, in mostra nei più famosi musei del mondo, ma cosa hanno a che fare con gli eventi che si stanno verificando? Per quale motivo il killer seriale propone quegli strani indizi? Cosa ha scatenato la sua reazione omicida? Cosa vuole dire, se uccide chiunque ritenga essere coinvolto? Il caso dal forte impatto mediatico spinge gli inquirenti a coinvolgere nell’indagine il famoso giornalista e scrittore israeliano David Royal, ostacolati dai servizi segreti italiani. Thomas Caridi, studente universitario esperto d’arte e collaboratore di una testata giornalistica di provincia, partecipa alla soluzione dell’enigma, aiutato dalla figlia del commissario. Il legame d’amore tra i due giovani complica ulteriormente la situazione dai risvolti sorprendenti e imprevedibili. E una potente famiglia del Medio Oriente, convinta che esistano uomini simili a dèi, nascosti agli occhi dell’umanità, inizia una lunga caccia all’uomo: l’obiettivo è quello di scatenare il fondamentalismo islamico. Il vecchio palestinese Bashir Hussein Sadr, coinvolto in gioventù in un evento simile a quanto si sta verificando a Mirona, è ossessionato dalle misteriose luci e invia suo nipote Khamis a indagare per conto della famiglia. Solo chi decifrerà il messaggio dell’assassino arriverà alla verità e alla persona cui esso è rivolto.
LinguaItaliano
Data di uscita26 mar 2020
ISBN9788831665230
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    Anteprima del libro

    Non mi sfuggirai - Gianni Ciardi

    Van­ligt)

    I – Rea Altieri

    Per­fi­no un at­ti­mo può ave­re la for­za dell’eter­ni­tà. Un pen­sie­ro fa­sti­dio­so che ac­com­pa­gnò le mie due ul­ti­me ore in au­la, men­tre ascol­ta­vo la vo­ce bas­sa e mo­no­to­na del do­cen­te di di­rit­to pri­va­to, chiu­sa in una stan­za col­ma di sco­mo­de se­die di pla­sti­ca.

    Avrei fat­to vo­len­tie­ri a me­no di fre­quen­ta­re quel­le le­zio­ni, ma il pro­fes­so­re era in­tran­si­gen­te sul­la fre­quen­za: pre­ten­de­va che gli stu­den­ti par­te­ci­pas­se­ro al cor­so as­si­dua­men­te. La sua me­mo­ria era fer­rea, in­fat­ti non di­men­ti­ca­va mai una fac­cia. Con gli stu­den­ti che non ave­va­no se­gui­to le sue in­di­ca­zio­ni, ca­la­va la ma­no in mo­do pe­san­te al mo­men­to dell’esa­me di fi­ne an­no.

    La le­zio­ne fu una ve­ra tor­tu­ra. L’aria era cal­da e sta­gnan­te, ca­ri­ca di odo­ri sgra­de­vo­li. Gli stu­den­ti si agi­ta­va­no sul­le se­die, ner­vo­si e ras­se­gna­ti, al­cu­ni stan­chi del­la gior­na­ta giun­ta al­la fi­ne, al­tri te­si per la ve­ri­fi­ca che ci sa­reb­be sta­ta a bre­ve.

    Non ero af­fat­to pre­oc­cu­pa­ta per la ve­ri­fi­ca im­mi­nen­te, tut­ta­via la stan­chez­za per lo stu­dio in­ten­si­vo del­le ul­ti­me set­ti­ma­ne co­min­cia­va a far­si sen­ti­re. Mi con­so­la­va l’av­vi­ci­nar­si del tra­guar­do fi­na­le ver­so l’av­vo­ca­tu­ra, la mia pas­sio­ne, e un me­ri­ta­to pe­rio­do di ri­po­so.

    Quan­do il do­cen­te di­chia­rò con­clu­sa la dis­ser­ta­zio­ne, gli stu­den­ti usci­ro­no ve­lo­ci nel cor­ri­do­io del­la fa­col­tà qua­si de­ser­to, co­me se cer­cas­se­ro una scia­lup­pa di sal­va­tag­gio su una na­ve che af­fon­da. In at­te­sa che la fiu­ma­na pas­sas­se, mi ac­co­mo­dai su una pan­ca di lu­ci­do le­gno scu­ro. Il ru­mo­re dei pas­si fre­ne­ti­ci de­gli stu­den­ti sva­nì ve­lo­ce­men­te, la­scian­do il po­sto al si­len­zio che già re­gna­va nell’ate­neo.

    Ti­rai fuo­ri la giac­ca di li­no co­lor ca­ra­mel­lo dal­la ca­pien­te bor­sa e si­ste­mai i po­chi ap­pun­ti di ap­pro­fon­di­men­to che ave­vo avu­to la for­za di scri­ve­re. Do­po aver­la in­dos­sa­ta, la­sciai l’edi­fi­cio e m’in­cam­mi­nai lun­go il via­le prin­ci­pa­le, pas­san­do a fian­co del­la gran­de sta­tua di Mi­ner­va, la dea del­la guer­ra e del­la sag­gez­za, sim­bo­lo dell’uni­ver­si­tà. Po­chi stu­den­ti no­ta­va­no le pro­por­zio­ni sgra­zia­te del cor­po, la te­sta pic­co­la, le brac­cia toz­ze pro­te­se al cie­lo e la ve­ste a pie­ghe pa­ral­le­le iden­ti­ca al fu­sto di una co­lon­na. No­no­stan­te tut­to, la scul­tu­ra mi pia­ce­va, non tan­to per il suo im­pat­to este­ti­co, ben­sì per il suo va­lo­re sim­bo­li­co: guer­ra e sag­gez­za in un’uni­ca fi­gu­ra, un con­nu­bio che sem­bra­va di­scor­dan­te, ma nel qua­le io ave­vo sem­pre vi­sto la lot­ta per af­fer­ma­re le pro­prie idee.

    L’aria era friz­zan­te e il cie­lo az­zur­ro sta­va sbia­den­do ra­pi­da­men­te. Qual­che stu­den­te si at­tar­da­va tra i via­li al­be­ra­ti e gli edi­fi­ci si­len­zio­si. De­ci­si di au­men­ta­re il pas­so. Non vo­le­vo per­de­re il tre­no del­le 19:15. Di so­li­to per an­da­re a Ro­ma usa­vo l’au­to, una Smart bian­ca, ma dei ru­mo­ri so­spet­ti mi ave­va­no con­vin­ta a la­sciar­la al­le cu­re del mec­ca­ni­co, quin­di, a ma­lin­cuo­re, ave­vo pre­so i mez­zi pub­bli­ci.

    Ar­ri­vai all’al­tez­za del gran­de por­ta­le d’ac­ces­so dell’uni­ver­si­tà, che si af­fac­cia­va sul piaz­za­le de­di­ca­to ad Al­do Mo­ro. Co­steg­giai il pe­ri­me­tro ester­no e im­boc­cai il via­le al­be­ra­to che mi avreb­be por­ta­ta in vi­sta del­la sta­zio­ne Ter­mi­ni, un per­cor­so pres­so­ché ret­ti­li­neo tra edi­fi­ci mi­ni­ste­ria­li e uf­fi­ci.

    L’oscu­ri­tà era ca­la­ta ve­lo­ce­men­te. Ve­de­vo le sa­go­me in­di­stin­te di al­cu­ne per­so­ne a qual­che cen­ti­na­io di me­tri, for­se al­tri stu­den­ti che si di­ri­ge­va­no al­la fer­ro­via o ma­ga­ri dei tu­ri­sti. Le om­bre del­la se­ra an­nul­la­va­no i con­fi­ni del­le co­se e iso­la­va­no i pen­sie­ri e le emo­zio­ni.

    Pen­sai di es­se­re so­la, ma sba­glia­vo. All’im­prov­vi­so, al­le spal­le, ave­vo udi­to una vo­ce ro­ca dal for­te ac­cen­to ro­ma­no. Fe­ci fin­ta di non aver sen­ti­to, con­ti­nuan­do a cam­mi­na­re.

    La vo­ce si fe­ce più vi­ci­na.

    Mi vol­tai, so­lo per un at­ti­mo. Un uo­mo bas­so e stem­pia­to, ve­sti­to con jeans mac­chia­ti e un giub­bot­to scu­ro, sta­va chie­den­do qual­co­sa: «Ehi, bel­la bam­bi­na! Mi of­fri una si­ga­ret­ta?». Il vol­to dell’uo­mo, de­bol­men­te il­lu­mi­na­to da un lam­pio­ne, ave­va la pel­le si­mi­le a car­ta ve­tra­ta. Gli oc­chi era­no pic­co­li e scu­ri. La boc­ca lar­ga di­se­gna­va una li­nea sot­ti­le e du­ra.

    «Non fu­mo», ri­spo­si sen­za fer­mar­mi.

    Lo sco­no­sciu­to ave­va re­pli­ca­to sen­za de­si­ste­re. «Po­trem­mo be­re qual­co­sa in­sie­me.»

    Con un sen­so d’in­quie­tu­di­ne, mi die­di del­la stu­pi­da per non aver chie­sto la com­pa­gnia di qual­che stu­den­te: mol­ti col­le­ghi di cor­so si sa­reb­be­ro of­fer­ti vo­len­tie­ri di non la­sciar­mi so­la du­ran­te il tra­git­to fi­no al­la sta­zio­ne. Un’im­per­do­na­bi­le leg­ge­rez­za! Se aves­se sa­pu­to le mie in­ten­zio­ni, pa­pà, il com­mis­sa­rio di po­li­zia di Mi­ro­na, non avreb­be mai per­mes­so che gi­ras­si da so­la di se­ra per Ro­ma. Ave­va ra­gio­ne, me ne ren­de­vo con­to, ma era or­mai tar­di per pen­tir­se­ne.

    «De­vo pren­de­re il tre­no, so­no in ri­tar­do!» ave­vo ta­glia­to cor­to, spe­ran­do di chiu­de­re la fac­cen­da.

    Au­men­tai il pas­so, riu­sci­vo a scor­ge­re le lu­ci del­la sta­zio­ne in lon­ta­nan­za. Ba­sta­va per­cor­re­re il via­le, su­pe­ra­re tre tra­ver­se, e sa­rei sta­ta al si­cu­ro tra la fol­la dei viag­gia­to­ri.

    La spe­ran­za di far­ce­la au­men­tò man ma­no che av­vi­ci­na­vo quei ba­glio­ri do­ra­ti. Man­ca­va dav­ve­ro po­co. At­tra­ver­sai il via­le cor­ren­do, ma fu lì, a po­chi pas­si dal­la sal­vez­za, che il viag­gio ter­mi­nò. Due brac­cia ro­bu­ste mi af­fer­ra­ro­no da die­tro, spin­gen­do­mi nel­la pri­ma del­le tre vie la­te­ra­li, quel­la me­no il­lu­mi­na­ta, tra le au­to­mo­bi­li in so­sta.

    La bor­sa con gli ap­pun­ti del­la le­zio­ne cad­de a ter­ra.

    «Dai, non fa­re la dif­fi­ci­le!» dis­se l’uo­mo. «Si ve­de che hai una vo­glia mat­ta di di­ver­tir­ti», ag­giun­se, te­nen­do­mi tra le brac­cia e schiac­cian­do­mi al mu­ro col suo pe­so.

    Ave­vo av­ver­ti­to il suo odo­re, aci­do, ri­vol­tan­te. La nau­sea mi as­sa­lì co­me un’on­da­ta di pie­na.

    «Ti pre­go, la­scia­mi an­da­re. Pos­so dar­ti dei sol­di!» La mia vo­ce era de­bo­le ed esi­tan­te. Ave­vo cer­ca­to di mo­strar­mi ac­co­mo­dan­te per evi­ta­re che la si­tua­zio­ne de­ge­ne­ras­se ul­te­rior­men­te.

    Spe­ra­vo an­co­ra di ca­var­me­la, ma l’uo­mo po­se fi­ne al­la trat­ta­ti­va in mo­do fin trop­po chia­ro: «No, bam­bi­na, non cer­co sol­di. Vo­glio qual­co­sa di più pre­zio­so».

    Mi tap­pò la boc­ca con la ma­no ru­vi­da e cal­lo­sa.

    Per tut­ta ri­spo­sta pro­vai a ur­la­re.

    Ten­tò su­bi­to di toc­ca­re il se­no. I suoi mo­vi­men­ti era­no fre­ne­ti­ci: cer­ca­va­no di bi­lan­cia­re i miei ten­ta­ti­vi di fu­ga con la vo­glia che gli sta­va bru­cian­do nel­le ve­ne.

    Il mio cor­po fu tra­vol­to da scos­se elet­tri­che di pu­ro ter­ro­re e nel­la te­sta i pen­sie­ri si fe­ce­ro vor­ti­co­si e con­fu­si. Ave­vo gli oc­chi ri­vol­ti ver­so il via­le, in cer­ca di una spe­ran­za di li­ber­tà, e com­pre­si che tut­to sa­reb­be an­da­to nel peg­gio­re dei mo­di quan­do in­tra­vi­di due sa­go­me che, ac­cor­te­si di quel­lo che sta­va ac­ca­den­do, ave­va­no cam­bia­to stra­da in­dif­fe­ren­ti al mio de­sti­no.

    Ero dav­ve­ro al li­mi­te del­le for­ze: sta­vo per ce­de­re a quel­la fu­ria be­stia­le. L’uo­mo dal­lo sguar­do avi­do di de­si­de­rio se ne re­se per­fet­ta­men­te con­to. Mi strat­to­nò, fa­cen­do­mi ca­de­re sul mar­cia­pie­de. Ur­tai la te­sta sull’asfal­to umi­do e ri­ma­si stor­di­ta. Quel che ave­vo per­ce­pi­to, a quel pun­to, fu­ro­no po­chi fram­men­ti di vo­ci e im­ma­gi­ni con­fu­se sen­za al­cun fi­lo con­dut­to­re, co­me sce­ne ta­glia­te da chis­sà qua­le fil­ma­to. Non sep­pi di­re quan­to tem­po fos­si ri­ma­sta a ter­ra: nei mo­men­ti di pau­ra si per­de la co­gni­zio­ne del tem­po, che ten­de a di­la­tar­si a di­smi­su­ra e ac­cre­sce la so­li­tu­di­ne e l’in­si­cu­rez­za.

    Fu il suo­no acu­to dell’am­bu­lan­za che mi co­strin­se a ria­pri­re gli oc­chi: l’im­ma­gi­ne si era sta­bi­liz­za­ta e le vo­ci era­no scom­par­se. Un uo­mo era in­gi­noc­chia­to ac­can­to a me, sus­sur­ran­do­mi pa­ro­le d’in­co­rag­gia­men­to. «è fi­ni­ta, non muo­ver­ti. I soc­cor­si stan­no ar­ri­van­do.» Ave­va una vo­ce pro­fon­da e cal­da. Non riu­sci­vo a di­stin­gue­re i li­nea­men­ti del vol­to. La lu­ce bal­bet­tan­te del lam­pio­ne al­le sue spal­le met­te­va in pe­nom­bra i det­ta­gli es­sen­zia­li.

    «Do­ve è an­da­to?» Ten­tai di sol­le­var­mi sui go­mi­ti, ma fu inu­ti­le: la te­sta mi do­le­va e una ver­ti­gi­ne mi co­strin­se a sta­re im­mo­bi­le.

    «Cal­ma, non muo­ver­ti. è scap­pa­to, ma non ti fa­rà più al­cun ma­le. La po­li­zia lo tro­ve­rà.»

    «Mi hai sal­va­ta. Se non fos­se sta­to per te, io…» Esi­tai per il bri­vi­do di quel­lo che sa­reb­be po­tu­to ac­ca­de­re. La­cri­me di sol­lie­vo ve­la­ro­no il mio vol­to.

    Cer­cai di met­ter­mi di nuo­vo in pie­di, pe­rò le gam­be esi­ta­ro­no per lo sfor­zo. Sta­vo per ca­de­re di nuo­vo, se non fos­se sta­to per il ra­gaz­zo che pron­ta­men­te mi so­sten­ne. Guar­dai la bor­sa, pog­gia­ta sul mar­cia­pie­de ac­can­to a me.

    «L’ho re­cu­pe­ra­ta», spie­gò se­guen­do la di­re­zio­ne del mio sguar­do. «è per me­ri­to suo che mi so­no ac­cor­to di te. Nes­su­no la­sce­reb­be la pro­pria bor­sa per stra­da sen­za un mo­ti­vo dav­ve­ro va­li­do!»

    Pun­tai lo sguar­do su di lui. Fu quel­la la pri­ma ve­ra oc­ca­sio­ne per stu­dia­re l’aspet­to del mio soc­cor­ri­to­re. Era al­to e lon­gi­li­neo, con ca­pel­li ca­sta­ni spet­ti­na­ti se­con­do la mo­da del mo­men­to. Gli oc­chi era­no scu­ri e la fron­te spa­zio­sa. La boc­ca era per­fet­ta, in­cor­ni­cia­ta da un ciuf­fo ac­cen­na­to di bar­ba sot­to il lab­bro in­fe­rio­re. Pic­co­le esco­ria­zio­ni su­gli zi­go­mi ri­sal­ta­va­no sul­la pel­le li­scia.

    Co­min­ciai a tre­ma­re, di nuo­vo. Sem­bra­va che il cuo­re stes­se per scop­pia­re. Sta­vo esau­ren­do le ul­ti­me ener­gie. Do­vet­ti ap­pog­gia­mi al mu­ro per non ca­de­re. Com­pre­si che tut­to do­ve­va es­se­re una rea­zio­ne na­tu­ra­le al­la brut­ta espe­rien­za che ave­vo vis­su­to.

    Il ra­gaz­zo mi guar­dò con un’espres­sio­ne ras­si­cu­ran­te e pro­vai per lui tut­ta la gra­ti­tu­di­ne pos­si­bi­le.

    Il suo­no sem­pre più acu­to e fa­sti­dio­so tra i pa­laz­zi scu­ri an­nun­cia­va l’ar­ri­vo dell’am­bu­lan­za: en­tro po­chi se­con­di ci avreb­be rag­giun­ti.

    «Mi chia­mo Tho­mas.» La ri­spo­sta ar­ri­vò un istan­te pri­ma del­la mia do­man­da, qua­si aves­se let­to nel pen­sie­ro.

    «Ti rin­gra­zio per aver­mi di­fe­sa», dis­si in­di­can­do le sue fe­ri­te.

    «Gua­ri­ran­no pre­sto.»

    Ta­cem­mo en­tram­bi: era una si­tua­zio­ne fuo­ri dall’or­di­na­rio e non tro­vam­mo al­tro da dir­ci. Ci guar­dam­mo, in­dif­fe­ren­ti al­le vo­ci e ai suo­ni che pro­ve­ni­va­no da lon­ta­no.

    L’ar­ri­vo dei soc­cor­si im­pe­dì che l’im­ba­raz­zo con­ti­nuas­se.

    Qual­che cu­rio­so as­si­stet­te al­la sce­na. Per mol­te per­so­ne la sof­fe­ren­za al­trui co­sti­tui­sce lo spet­ta­co­lo più ir­re­si­sti­bi­le, pen­sai con ama­rez­za.

    Al pron­to soc­cor­so mi ven­ne ri­scon­tra­ta una leg­ge­ra com­mo­zio­ne ce­re­bra­le, nien­te che un pa­io di gior­ni di as­so­lu­to ri­po­so non po­tes­se si­ste­ma­re. A Tho­mas fu­ro­no ap­pli­ca­te tre pic­co­le gar­ze ade­si­ve sul vol­to. Due po­li­ziot­ti ci in­ter­ro­ga­ro­no se­pa­ra­ta­men­te, ci fe­ce­ro de­scri­ve­re l’ag­gres­so­re e com­pi­la­ro­no un mo­du­lo per la de­nun­cia.

    Pa­pà mi tro­vò in sa­la d’aspet­to. La fu­ria, che do­ve­va aver pro­va­to quan­do era sta­to av­ver­ti­to dell’ac­ca­du­to, si pla­cò nel mo­men­to in cui mi vi­de ran­nic­chia­ta sul­la se­dia, con le brac­cia stret­te al pet­to e la te­sta chi­na, tra una pic­co­la fol­la di per­so­ne mu­te e in at­te­sa di buo­ne no­ti­zie. Si av­vi­ci­nò e mi scos­se dal tor­po­re, cer­can­do di non la­sciar tra­pe­la­re il suo di­sap­pun­to.

    «Pa­pà, mi di­spia­ce.» Ero mor­ti­fi­ca­ta. Lui era l’ul­ti­ma per­so­na che avrei vo­lu­to far sof­fri­re. Era l’uo­mo che ama­vo di più.

    «La­scia per­de­re, te­so­ro!» Il suo vol­to era te­so. Un sor­ri­so ti­ra­to di­se­gna­va sot­ti­li ru­ghe ai la­ti del­la boc­ca. Pie­ga­to sul­le gi­noc­chia, sfio­rò con la ma­no de­stra la ben­da­tu­ra che mi co­ro­na­va la fol­ta chio­ma ne­ra. «Tor­no su­bi­to, giu­sto il tem­po di par­la­re con il dot­to­re, e ti por­to a ca­sa», an­nun­ciò men­tre si ri­met­te­va in pie­di. «A ca­sa no­stra», ag­giun­se con to­no fer­mo, quel­lo che non am­met­te­va re­pli­che.

    Spa­rì al­la vi­sta in un lam­po. Avrei vo­lu­to ri­bat­te­re, tut­ta­via de­ci­si di la­sciar per­de­re. Non era il ca­so di met­te­re al­la pro­va il suo au­to­con­trol­lo più di quan­to non aves­si già fat­to. Per quel­la not­te sa­rei tor­na­ta a dor­mi­re nel­la mia vec­chia stan­za e avrei cer­ca­to di tol­le­ra­re la pre­sen­za del­la nuo­va com­pa­gna di pa­pà. Non do­ve­vo far al­tro che di­re quat­tro fra­si di pu­ra cor­te­sia e chiu­der­mi in ca­me­ra.

    Mi pie­gai in avan­ti, pun­tan­do i go­mi­ti sul­le gi­noc­chia, con le di­ta sot­ti­li e de­li­ca­te im­pe­gna­te a in­trec­cia­re le cioc­che di ca­pel­li li­be­re dal­la mor­sa del­la fa­scia­tu­ra. Lo sguar­do era fis­so: il pen­sie­ro era lon­ta­no da lì, ma in nes­sun po­sto.

    «Ciao!»

    La vo­ce mi fe­ce sus­sul­ta­re. Tho­mas si era se­du­to ac­can­to e mi pun­ta­va ad­dos­so uno sguar­do in­ten­so e un sor­ri­so lar­go. In­dos­sa­va una tu­ta gri­gio chia­ro e un giub­bet­to in pel­le ne­ra.

    «è ar­ri­va­to mio pa­dre», dis­si. «Sta fa­cen­do il ter­zo gra­do al me­di­co. Tu, co­me ti sen­ti?»

    I miei oc­chi era­no con­cen­tra­ti sul­le sue me­di­ca­zio­ni.

    «Te l’ho det­to. è tut­to a po­sto. Io so­no una roc­cia», si scher­nì in­di­can­do, im­pac­cia­to, gar­ze e ce­rot­ti.

    «Già, ve­do!» Sor­ri­si per la pri­ma vol­ta. Tra una fra­se e l’al­tra, stu­diai at­ten­ta­men­te il ra­gaz­zo. Gli oc­chi ca­sta­ni in­cor­ni­cia­ti da fol­te so­prac­ci­glia con­fe­ri­va­no un’espres­sio­ne bo­na­ria all’ova­le del vol­to. C’era pe­rò dell’al­tro in lui, lo sen­ti­vo, e tut­ta­via non riu­sci­vo a ca­pi­re co­sa fos­se. La sua vo­ce vel­lu­ta­ta tra­smet­te­va se­re­ni­tà. Istin­ti­va­men­te, sen­za pen­sar­ci, mi slan­ciai ver­so di lui e ab­brac­ciai quel cor­po so­li­do.

    Lui esi­tò per la sor­pre­sa, poi ri­spo­se all’ap­proc­cio.

    «Cre­do che mio pa­dre vo­glia rin­gra­ziar­ti, tra po­co tor­ne­rà», sus­sur­rai a oc­chi chiu­si. Il con­tat­to mi scal­dò: ave­vo sen­ti­to un ca­lo­re pia­ce­vo­le, sco­no­sciu­to e in­ten­so. Quell’ab­brac­cio ci ri­com­pen­sò en­tram­bi per quan­to era ac­ca­du­to.

    Fu Tho­mas, a un cer­to pun­to, ad agi­tar­si e io rea­gii di con­se­guen­za, ab­ban­do­nan­do la pre­sa.

    «De­vo an­da­re.» All’im­prov­vi­so, sen­za più il suo bel sor­ri­so, si al­zò e si di­res­se ver­so l’usci­ta del­la sa­la.

    «Ma… ehi, aspet­ta!» pro­te­stai con­fu­sa.

    Tho­mas si gi­rò all’al­tez­za del­la por­ta au­to­ma­ti­ca. «So­no cer­to che avrò l’oc­ca­sio­ne di co­no­scer­lo.» Sor­ri­se con una smor­fia che sem­bra­va sa­pe­re co­se che igno­ra­vo e si di­le­guò.

    Quan­do pa­pà fe­ce ri­tor­no, ras­si­cu­ra­to sul­le mie con­di­zio­ni, sta­vo an­co­ra pen­san­do a Tho­mas, in par­ti­co­lar mo­do al­lo sguar­do in­de­ci­fra­bi­le che mi ave­va in­di­riz­za­to pri­ma di an­dar­se­ne, un ve­ro enig­ma.

    Uscim­mo dall’ospe­da­le che le stel­le ave­va­no co­min­cia­to a bril­la­re vi­va­ce­men­te. L’aria era fre­sca. Si era al­za­to un ven­to ca­pric­cio­so, fa­sti­dio­so.

    La con­ver­sa­zio­ne con­ti­nuò in au­to.

    «Sen­ti, pa­pà, non di­re a Ca­te­ri­na quel­lo che è ac­ca­du­to: pre­fe­ri­sco che ne re­sti all’oscu­ro.»

    «No­te­rà la ben­da.»

    «La tol­go, tan­to non ser­ve più. Il do­lo­re al­la te­sta è qua­si pas­sa­to.» Pri­ma che po­tes­se pro­te­sta­re, con un ge­sto ra­pi­do, ave­vo sfi­la­to la gar­za.

    Ca­te­ri­na Co­sen­ti­no, la nuo­va com­pa­gna di pa­pà, era una del­le ra­gio­ni che mi ave­va­no spin­ta a la­scia­re la ca­sa pa­ter­na. La mia ma­tri­gna era una si­gno­ra ele­gan­te nei mo­di e nell’ab­bi­glia­men­to cu­ra­to. I lun­ghi ca­pel­li co­lor ra­me, sem­pre rac­col­ti die­tro la nu­ca a evi­den­zia­re il col­lo lun­go e re­ga­le, e gli oc­chia­li a goc­cia le da­va­no l’aspet­to ti­pi­co del­la di­ri­gen­te d’azien­da. La con­si­de­ra­vo sim­pa­ti­ca, ep­pu­re il no­stro era un rap­por­to del tut­to su­per­fi­cia­le. Non ave­vo mai fat­to sfor­zi per co­no­scer­la dav­ve­ro, poi­ché non ero sta­ta ca­pa­ce di ag­gi­ra­re il mu­ro di dif­fi­den­za che si era crea­to tra noi fin dal prin­ci­pio. Ca­te­ri­na ave­va pe­rò un pre­gio fon­da­men­ta­le: vi­ve­va la vi­ta sen­za in­tro­met­ter­si in quel­la de­gli al­tri. Quan­do pa­pà me la fe­ce co­no­sce­re, com­pre­si che era ar­ri­va­to il mo­men­to di tra­sfe­rir­mi nel­la ca­sa che mi era sta­ta in­te­sta­ta da pic­co­la. Una de­ci­sio­ne, quel­la, che non ave­va avu­to nien­te a che fa­re con Ca­te­ri­na. Vo­le­vo che pa­pà po­tes­se vi­ve­re ap­pie­no la nuo­va sto­ria d’amo­re: io sa­rei sta­ta so­lo d’in­tral­cio. Me ne an­dai con la se­re­ni­tà nell’ani­ma e l’emo­zio­ne per l’in­di­pen­den­za che ne con­se­gui­va. Il de­na­ro non era sta­to un pro­ble­ma da­to che il non­no ma­ter­no mi ave­va as­se­gna­to una co­spi­cua ren­di­ta dal pa­tri­mo­nio di fa­mi­glia. Era il mo­men­to di cam­bia­re: una vi­ta au­to­no­ma per me, un nuo­vo ini­zio per pa­pà con la don­na che gli ave­va fat­to ri­tro­va­re la se­re­ni­tà tan­to de­si­de­ra­ta.

    «Ter­rai que­sto se­gre­to an­che con Mar­ta?» chie­se lui.

    «For­se. Ci de­vo pen­sa­re un po’. Se sa­pes­se quel­lo che è suc­ces­so, mi co­pri­reb­be di pre­mu­re.»

    Pre­si il te­le­fo­no dal­la bor­sa e in­viai un mes­sag­gio a Mar­ta per in­for­mar­la che avrei dor­mi­to a ca­sa di pa­pà.

    «Sì.» Ave­va an­nui­to con un mez­zo sor­ri­so. Sa­pe­va che de­te­sta­vo at­ti­ra­re gli sguar­di al­trui, oc­chia­te che l’av­ve­nen­za cat­tu­ra­va spon­ta­nea­men­te.

    Ac­ce­si l’au­to­ra­dio sul­la mia emit­ten­te pre­fe­ri­ta, Run Po­wer. Vo­le­vo di­men­ti­ca­re al più pre­sto l’ag­gres­sio­ne, an­che se il vol­to di Tho­mas non fa­ce­va che tor­nar­mi in men­te. Il ri­cor­do m’in­fa­sti­dì pa­rec­chio per­ché sen­ti­vo che non era so­lo me­ri­ta­ta ri­co­no­scen­za. Che fos­se cu­rio­si­tà? O, ma­ga­ri, c’era an­che dell’al­tro? Do­ve­vo rior­di­na­re le idee, le emo­zio­ni che quell’espe­rien­za ave­va sca­te­na­to in me, an­che se non sa­pe­vo co­me fa­re.

    ‘Con­fu­sio­ne’ fu la pa­ro­la che af­fio­rò sul­le mie lab­bra.

    Qua­si aves­se let­to nel pen­sie­ro, pa­pà chie­se: «Lo co­no­sce­vi?».

    «No, mai vi­sto pri­ma», ri­spo­si, e su­bi­to me ne pen­tì. La ri­spo­sta era per­fet­ta per una do­man­da tan­to va­ga: era un’im­pli­ci­ta am­mis­sio­ne del fat­to che stes­si pen­san­do a Tho­mas. Lui se ne ac­cor­se e ser­rò gli oc­chi in­da­ga­to­ri sul­la stra­da scor­re­vo­le.

    «Sei si­cu­ra?» Il suo to­no era se­rio.

    «Cer­to! Lui non sa nep­pu­re co­me mi chia­mo. Ho di­men­ti­ca­to di dir­glie­lo. Per­ché?»

    Non ca­pi­vo do­ve vo­les­se ar­ri­va­re con l’in­ter­ro­ga­to­rio.

    «Abi­ta in cit­tà an­che lui. Che coin­ci­den­za!»

    La ri­ve­la­zio­ne mi col­se di sor­pre­sa e pa­pà se ne re­se con­to.

    Ri­cor­dai, in un istan­te, l’ul­ti­ma fra­se di Tho­mas: ‘So­no cer­to che avrò l’oc­ca­sio­ne di co­no­scer­lo’. Pos­si­bi­le che Tho­mas sa­pes­se chi fos­si? Era quel­lo il mo­ti­vo per cui non ave­va chie­sto nem­me­no il no­me? Che mi aves­se vi­sta in cit­tà? Do­man­de che ri­chie­de­va­no ri­spo­ste.

    «Do­ma­ni gli te­le­fo­no per rin­gra­ziar­lo», dis­se pa­pà strap­pan­do­mi a quel flus­so di pen­sie­ri. «È il mi­ni­mo che si pos­sa fa­re. I col­le­ghi di Ro­ma mi han­no da­to il suo re­ca­pi­to te­le­fo­ni­co. Ma­ga­ri po­trem­mo in­vi­tar­lo a ce­na. Ho pro­prio vo­glia di ve­der­lo in fac­cia.»

    «è una buo­na idea», ave­vo an­nui­to, pen­san­do­lo dav­ve­ro.

    «Non hai mol­ta vo­glia di par­la­re, eh?»

    «Ho so­lo vo­glia di dor­mi­re un po’.»

    «Ca­pi­to.»

    Gli ul­ti­mi mi­nu­ti di viag­gio fu­ro­no ac­com­pa­gna­ti dal­le no­te di ‘Li­ke a Prayer’. Ama­vo quel­la can­zo­ne e la vo­ce cal­da di Ma­don­na: mi ri­cor­da­va i gior­ni se­re­ni dell’esta­te pre­ce­den­te, pas­sa­ti con gli ami­ci di sem­pre. Mi chie­si, con un po’ di no­stal­gia nel cuo­re, se la sta­gio­ne in ar­ri­vo sa­reb­be sta­ta al­tret­tan­to ap­pa­gan­te.

    Pa­pà par­cheg­giò sot­to ca­sa, nel quar­tie­re re­si­den­zia­le a nord del­la cit­tà. Ca­te­ri­na ci sta­va aspet­tan­do.

    L’ap­par­ta­men­to era al quar­to pia­no di uno sta­bi­le d’ini­zio No­ve­cen­to, con de­co­ri flo­rea­li in stuc­co lun­go le cor­ni­ci del­le fi­ne­stre e le li­nee mar­ca­pia­no. L’in­ter­no ri­ve­la­va il buon gu­sto del­la don­na: qua­dri astrat­ti, tap­pe­ti me­dio­rien­ta­li, mo­bi­li d’an­ti­qua­ria­to e pian­te in ogni stan­za, da­va­no al­la ca­sa quel­lo che era il suo toc­co per­so­na­le.

    Ca­te­ri­na ci ac­col­se con spon­ta­nea cor­dia­li­tà. Ci in­vi­tò a rin­fre­scar­ci in at­te­sa del­la ce­na e spa­rì in cu­ci­na per ap­pa­rec­chia­re la ta­vo­la.

    An­dai nel­la mia vec­chia stan­za e mi ste­si sul let­to in fer­ro bat­tu­to. Quel mon­do pri­va­to, ven­ti­cin­que me­tri qua­dra­ti di li­bri e fo­to­gra­fie, era sta­to ri­spar­mia­to dai pro­get­ti di ri­strut­tu­ra­zio­ne di Ca­te­ri­na. Pa­pà, ap­pe­na tra­sfe­ri­ta nel nuo­vo ap­par­ta­men­to, mi ave­va ab­brac­cia­ta di­cen­do: «Que­sta ri­ma­ne la tua stan­za. Puoi tor­na­re quan­do vuoi».

    Die­ci mi­nu­ti do­po, ven­ne lui a chia­mar­mi per la ce­na.

    Man­giai con po­co gu­sto, ben­ché Ca­te­ri­na fos­se una cuo­ca pro­vet­ta. La con­ver­sa­zio­ne era sta­ta, co­me sem­pre, bre­ve e su­per­fi­cia­le, con­di­ta dai di­strat­ti com­men­ti del­la don­na sul­la gior­na­ta ap­pe­na tra­scor­sa, per lo più pet­te­go­lez­zi sui col­le­ghi dell’uf­fi­cio e que­stio­ni sul­la ge­stio­ne del­la ca­sa. Pa­pà ascol­ta­va quel­le chiac­chie­re con at­ten­zio­ne, men­tre man­gia­va.

    Lui, in­ve­ce, non ac­cen­na­va mai al suo la­vo­ro e lei non fa­ce­va do­man­de al ri­guar­do. Ca­te­ri­na era l’ele­men­to sta­bi­liz­za­to­re nel­la sua vi­ta: lei gli da­va quel­la se­re­ni­tà ne­ces­sa­ria a so­ste­ne­re la ten­sio­ne quo­ti­dia­na del com­mis­sa­ria­to che di­ri­ge­va.

    Lei era sta­ta pre­mu­ro­sa co­me al so­li­to. «Man­gia qual­co­sa te­so­ro. Sei mol­to pal­li­da.»

    Ave­vo let­to uno sguar­do in­qui­si­to­rio e pre­oc­cu­pa­to sul vol­to di pa­pà, co­sì fe­ci uno sfor­zo e man­giai buo­na par­te del­la bi­stec­ca con ver­du­re che ave­va cu­ci­na­to.

    Quan­do ri­ten­ni di aver fat­to ono­re al pa­sto, la rin­gra­ziai per la ce­na e ba­ciai pa­pà sul­la guan­cia, au­gu­ran­do lo­ro la buo­na not­te.

    Pre­si son­no in po­chi mi­nu­ti, de­si­de­ro­sa di di­men­ti­ca­re tut­to.

    Il gior­no suc­ces­si­vo, all’al­ba, ero già pron­ta per tor­na­re nel mio ap­par­ta­men­to. Tro­vai pa­pà in cu­ci­na, se­du­to da­van­ti a una taz­za di caf­fè, ve­sti­to di tut­to pun­to e ra­sa­to, pron­to per ini­zia­re il la­vo­ro in com­mis­sa­ria­to. Ca­te­ri­na era già usci­ta.

    «Dor­mi­to be­ne?»

    «Sì, co­me un or­so in le­tar­go.» Pre­si dal fri­go­ri­fe­ro una con­fe­zio­ne mo­nou­so di suc­co di frut­ta.

    Lui ri­se di gu­sto per il pa­ra­go­ne. Dis­se che ave­vo ere­di­ta­to dal­la mam­ma un for­te sen­so dell’umo­ri­smo. Co­me sem­pre suc­ce­de­va, sen­tir­la no­mi­na­re, mi rat­tri­stò, an­che se man­ten­ni uno sguar­do neu­tro. Era mor­ta quan­do ave­vo do­di­ci an­ni, in un in­ci­den­te stra­da­le. Di lei con­ser­va­vo al­cu­ni fil­ma­ti, rea­liz­za­ti in oc­ca­sio­ne del­le fe­ste di com­plean­no, e tan­te fo­to­gra­fie che man­te­ne­va­no vi­vi i ri­cor­di dai con­tor­ni sem­pre più sbia­di­ti.

    Le so­mi­glia­vo pa­rec­chio, nel fi­si­co e nel vol­to: ave­vo ere­di­ta­to i suoi zi­go­mi al­ti, gli oc­chi ver­di, i lun­ghi ca­pel­li ne­ri e il cor­po lon­gi­li­neo. Pa­pà di­ce­va spes­so che, an­cor più che nell’aspet­to, le af­fi­ni­tà mag­gio­ri era­no nel­le sfu­ma­tu­re del ca­rat­te­re. Se­con­do lui, in­fat­ti, ave­vo ere­di­ta­to il suo co­rag­gio e l’emo­ti­vi­tà, mi­sti a un’iro­nia pun­gen­te. No­no­stan­te l’af­fet­to di pa­pà e dei non­ni, le at­ten­zio­ni da­te dal gior­no del­la sua mor­te, nes­su­no era riu­sci­to a com­pen­sar­ne l’as­sen­za, l’amo­re e il ca­lo­re del con­tat­to. Non lo avrei mai am­mes­so con nes­su­no che mi man­ca­va mol­to.

    «Che pro­gram­mi hai, og­gi?» La do­man­da di pa­pà mi scos­se dal­la so­li­tu­di­ne dell’as­sen­za.

    «Be’, tor­no a ca­sa», ri­spo­si esi­tan­do un at­ti­mo. «Mi met­te­rò a stu­dia­re per l’esa­me.»

    «Di­rit­to pri­va­to, giu­sto?»

    «Sì, l’esa­me è vi­ci­no.»

    Lui an­nuì e dis­se che era sta­to l’esa­me più im­pe­gna­ti­vo che aves­se mai pre­pa­ra­to. Qua­si con im­ba­raz­zo, ri­ve­lò di aver­lo so­ste­nu­to due vol­te: la pri­ma pro­va era sta­ta giu­di­ca­ta in­sod­di­sfa­cen­te dal pro­fes­so­re, la se­con­da elo­gia­ta.

    «Ri­cor­do an­co­ra le pa­ro­le del pro­fes­sor Cim­mi­no. Ve­de che ave­vo ra­gio­ne? Stu­dia­re qual­che set­ti­ma­na in più le ha gio­va­to, com­pli­men­ti!» Sor­ri­se com­pia­ciu­to. «Vuoi sa­pe­re la ve­ri­tà? Quel­la se­con­da vol­ta non ave­vo aper­to li­bro. Ave­vo sem­pli­ce­men­te ri­fat­to la pro­va.»

    Le sue pa­ro­le non fa­ce­va­no al­tro che con­fer­ma­re la con­vin­zio­ne che gli esa­mi fos­se­ro una con­ver­gen­za di con­di­zio­ni: al­lo stu­dio di ba­se do­ve­va ne­ces­sa­ria­men­te ag­giun­ger­si una buo­na do­se di for­tu­na, non­ché la pre­di­spo­si­zio­ne fa­vo­re­vo­le de­gli in­se­gnan­ti. In ca­so con­tra­rio, tut­to era mol­to più dif­fi­ci­le.

    Ter­mi­na­ta la fru­ga­le co­la­zio­ne, pa­pà si al­zò dal­la se­dia e si av­viò ver­so l’in­gres­so, ar­meg­gian­do con chia­vi e cel­lu­la­re. «Chia­me­rò quel ra­gaz­zo, più tar­di.»

    Non ri­spo­si. Ri­ma­sta so­la, nel­la gran­de ca­sa si­len­zio­sa, mi ri­tro­vai a pen­sa­re a Tho­mas. Non riu­sci­vo a li­be­rar­mi di lui. Che stes­se di­ven­tan­do un’os­ses­sio­ne?

    Guar­dai il ri­fles­so al­lo spec­chio do­ra­to di for­ma ova­le che tro­neg­gia­va in cor­ri­do­io. «Vo­glio sa­pe­re chi sei, Tho­mas!» dis­se l’im­ma­gi­ne.

    Ero usci­ta dall’ap­par­ta­men­to in cer­ca di ri­spo­ste.

    II – Thomas Caridi

    Ave­vo co­per­to di nuo­vo le abra­sio­ni con il cor­ret­to­re. Il truc­co, la se­ra pri­ma, ave­va fun­zio­na­to a me­ra­vi­glia. Nes­su­no dei fa­mi­lia­ri si era ac­cor­to di nul­la, nem­me­no mia ma­dre che era sem­pre at­ten­ta ai det­ta­gli. Ave­vo chia­ma­to per av­ver­ti­re che avrei tar­da­to. Una vol­ta a ca­sa tro­vai mia ma­dre in sa­lot­to: sta­va guar­dan­do la te­le­vi­sio­ne. Mio pa­dre, Giu­sep­pe, era già a let­to: era di­ven­ta­to più ta­ci­tur­no del so­li­to, ul­ti­ma­men­te, e ave­va pre­so l’abi­tu­di­ne di an­da­re a dor­mi­re piut­to­sto pre­sto. Mio fra­tel­lo Si­mo­ne, in­ve­ce, era usci­to per in­con­tra­re gli ami­ci, co­me spes­so ac­ca­de­va.

    Non mi ero fer­ma­to a par­la­re con mia ma­dre, li­mi­tan­do­mi a un sem­pli­ce sa­lu­to per di­ri­ger­mi su­bi­to in ba­gno, do­ve mi ero guar­da­to al­lo spec­chio per to­glie­re, fa­cen­do mol­ta at­ten­zio­ne, la gar­za dal vol­to. Tro­va­to un cor­ret­to­re per la pel­le, l’ave­vo ap­pli­ca­to sul­le sot­ti­li ra­mi­fi­ca­zio­ni rag­gru­ma­te. Non ave­vo un’idea plau­si­bi­le per giu­sti­fi­ca­re il mio aspet­to e non era il ca­so di rac­con­ta­re quel­lo che era suc­ces­so. Lei si sa­reb­be pre­oc­cu­pa­ta ec­ces­si­va­men­te. Ne avrei par­la­to con Si­mo­ne, for­se, quan­do fos­se rin­ca­sa­to.

    Vi­ve­vo nel­la ca­sa dei miei ge­ni­to­ri, un ap­par­ta­men­to di edi­li­zia po­po­la­re spa­zio­so con quat­tro stan­ze, un ba­gno e un bal­co­ne che cir­con­da­va per in­te­ro il pe­ri­me­tro ester­no del­le mu­ra. Un tem­po ave­va ospi­ta­to l’in­te­ra fa­mi­glia, al mo­men­to quat­tro per­so­ne. Mi pia­ce­va vi­ve­re lì, ma se aves­si po­tu­to per­met­ter­me­lo, avrei pre­so in af­fit­to un mo­no­lo­ca­le tut­to mio. Le tas­se uni­ver­si­ta­rie e i li­bri da ac­qui­sta­re pe­rò pro­sciu­ga­va­no qua­si per in­te­ro il ma­gro sti­pen­dio di col­la­bo­ra­to­re ester­no al Mi­treo, un gior­na­le lo­ca­le. Da­to che non vo­le­vo chie­de­re sol­di, do­ve­vo ac­con­ten­tar­mi di vi­ve­re lì con lo­ro.

    Il mat­ti­no se­guen­te mi ero sve­glia­to pre­sto: do­ve­vo stu­dia­re. Pri­ma di an­da­re in cu­ci­na, ero an­da­to si­len­zio­so in ba­gno, do­ve ave­vo fat­to di nuo­vo uso del cor­ret­to­re.

    Mam­ma sta­va pre­pa­ran­do la co­la­zio­ne. L’aro­ma del caf­fè riem­pi­va il pic­co­lo lo­ca­le, oc­cu­pa­to da ri­pia­ni lo­go­ra­ti dall’usu­ra e cre­den­ze am­mac­ca­te in più pun­ti.

    En­trai nel­la stan­za e mi ac­co­mo­dai in quel­la che era la mia se­dia abi­tua­le.

    «Buon­gior­no.»

    «Il caf­fè è pron­to», si li­mi­tò a di­re lei.

    Mi por­se la taz­zi­na, si­ste­man­do­la sul ta­vo­lo di le­gno.

    «Gra­zie.» Pre­si a sor­seg­gia­re la be­van­da, gu­stan­do­la con len­tez­za.

    «Ie­ri se­ra sei an­da­to in re­da­zio­ne, do­po l’uni­ver­si­tà?»

    «Sì», ave­vo men­ti­to, sa­pen­do che vo­le­va una spie­ga­zio­ne per il ri­tar­do. «Do­ve­vo con­se­gna­re l’ar­ti­co­lo di cui ti ave­vo par­la­to la set­ti­ma­na scor­sa.»

    «C’è pos­si­bi­li­tà che ti as­su­ma­no in via de­fi­ni­ti­va?» Era una do­man­da che ri­pe­te­va spes­so ul­ti­ma­men­te.

    «For­se, ma è una que­stio­ne che ver­rà af­fron­ta­ta in se­gui­to, cre­do.» Ave­vo pa­rec­chi dub­bi al ri­guar­do.

    Lei sor­ri­se, sen­za pro­se­gui­re ol­tre. Era si­cu­ra che avrei rag­giun­to gran­di tra­guar­di in fu­tu­ro, glie­lo leg­ge­vo sul­la fac­cia ru­go­sa, per­ché riu­sci­vo a me­ra­vi­glia in qual­sia­si co­sa de­ci­des­si di fa­re. Fin da pic­co­lo ave­vo di­mo­stra­to una spic­ca­ta pro­pen­sio­ne all’ec­cel­len­za, nel­lo sport co­me nel­lo stu­dio.

    Leg­ge­vo, a vol­te, nei suoi oc­chi in­ter­ro­ga­ti­vi ama­ri la sor­pre­sa di es­se­re riu­sci­ta a met­te­re al mon­do un ra­gaz­zo ca­pa­ce co­me lei non era mai sta­ta. Sa­pe­vo che si con­si­de­ra­va una per­so­na in­si­gni­fi­can­te. Al­la sua età ave­va smes­so di fa­re pro­get­ti per il fu­tu­ro e si ac­con­ten­ta­va or­mai di una vi­ta pri­va di so­gni e di spe­ran­ze. Le trop­pe de­lu­sio­ni di un’esi­sten­za fa­ti­co­sa l’ave­va­no spin­ta a cre­de­re di non va­le­re il co­sto de­gli abi­ti doz­zi­na­li che in­dos­sa­va: quel­la con­vin­zio­ne de­le­te­ria di es­se­re del tut­to inu­ti­le la fa­ce­va ca­de­re in de­pres­sio­ne a fa­si al­ter­ne, pre­ci­pi­tan­do­la in una real­tà di­stan­te e im­per­mea­bi­le fat­ta di si­len­zi as­sor­dan­ti. E non esi­ste­va­no pa­ro­le che la po­tes­se­ro con­vin­ce­re del con­tra­rio. L’ab­brac­cia­vo spes­so e le ba­cia­vo il col­lo per dar­le con­for­to, per ri­cor­dar­le di non ar­ren­der­si. Lei cer­ca­va su­bi­to di li­be­rar­si dal­la stret­ta e si la­men­ta­va sor­ri­den­do, ti­mi­da co­me una ra­gaz­zi­na. No­no­stan­te la sua rea­zio­ne, in­tui­vo quan­to le fa­ces­se pia­ce­re quel con­tat­to fu­ga­ce. Quei ge­sti ri­pe­ti­ti­vi da­va­no sol­lie­vo a en­tram­bi, ogni gior­no, e scac­cia­va­no, sep­pur per bre­ve tem­po, i cat­ti­vi pen­sie­ri.

    «Pa­pà è già usci­to?»

    «Sì, co­me al so­li­to. Si fu­me­rà un pa­io di si­ga­ret­te in au­to men­tre leg­ge il gior­na­le», chia­rì con ras­se­gna­zio­ne. Mio pa­dre ave­va l’ob­bli­go tas­sa­ti­vo di non fu­ma­re più, do­po l’ul­ti­mo in­far­to, e per un po’ di tem­po era riu­sci­to ad­di­rit­tu­ra a non far­lo. In se­gui­to, ave­va ri­pre­so il vi­zio e ogni tan­to lo sor­pren­de­va­mo con la si­ga­ret­ta tra le di­ta, an­che se nes­su­no di noi se la sen­ti­va di rim­pro­ve­rar­lo.

    Per as­sur­do, ca­pi­ta che ci fac­cia sen­ti­re me­glio quel­lo che più ci nuo­ce.

    I miei ge­ni­to­ri ave­va­no smes­so di vi­ve­re nell’istan­te in cui ab­ban­do­na­ro­no la gio­ia di fa­re nuo­vi pro­get­ti. Li pa­ra­go­na­vo, non po­te­vo far­ne a me­no, al­le pian­te che mia ma­dre col­ti­va­va sul bal­co­ne: co­me quel­le, sta­va­no fer­mi in at­te­sa di ri­ce­ve­re quel­lo che il de­sti­no ave­va in ser­bo.

    «Va­do in bi­blio­te­ca, mam­ma. De­vo fa­re al­cu­ne ri­cer­che per l’esa­me. Chia­ma­mi con il cel­lu­la­re, se ser­ve.» Si­ste­mai la taz­zi­na vuo­ta nel la­va­bo.

    «Va be­ne», ri­spo­se men­tre ras­set­ta­va la cu­ci­na.

    Le die­di un ab­brac­cio, af­fer­ran­do­la di spal­le. Lei la­sciò fa­re, im­mo­bi­le, in at­te­sa che la li­be­ras­si dal­la stret­ta. Le sor­ri­si e la­sciai la cu­ci­na.

    Tor­na­to nel­la mia stan­za, af­fer­rai le chia­vi del­la vec­chia Fiat Pun­to ne­ra, un car­di­gan gri­gio, la bor­sa che con­te­ne­va ap­pun­ti di la­vo­ro e do­cu­men­ti va­ri, e me ne an­dai.

    Mi di­res­si nel­la zo­na nord del­la cit­tà, la bi­blio­te­ca si tro­va­va all’in­ter­no del­la vil­la co­mu­na­le. Le sa­le di let­tu­ra era­no due, con scaf­fa­la­tu­re me­tal­li­che gri­gie ad­dos­sa­te al­le pa­re­ti. I li­bri in ca­ta­lo­go era dav­ve­ro mol­ti, uti­li per qual­sia­si ap­pro­fon­di­men­to, con­si­de­ra­to l’esi­gui­tà del­lo spa­zio di­spo­ni­bi­le.

    En­trai nell’edi­fi­cio e sa­lu­tai la bi­blio­te­ca­ria, una si­gno­ra mi­nu­ta con vi­sto­si oc­chia­li a goc­cia e i ca­pel­li gri­gi. Va­gai tra le pa­re­ti co­per­te di li­bri, in cer­ca di un vo­lu­me di sto­ria dell’ar­te, La scul­tu­ra del Cin­que­cen­to nel­le chie­se di Ro­ma. Tro­va­to il pic­co­lo te­sto, co­min­ciai a sfo­gliar­lo con at­ten­zio­ne: ser­vi­va per ap­pro­fon­di­re il pro­gram­ma del cor­so mo­no­gra­fi­co te­nu­to dal pro­fes­sor Cal­ve­si, do­cen­te uni­ver­si­ta­rio di fa­ma in­ter­na­zio­na­le.

    Due stu­den­ti del vi­ci­no li­ceo ar­ti­sti­co e due si­gno­ri an­zia­ni oc­cu­pa­va­no i lar­ghi ta­vo­li da stu­dio del­la sa­la. Tut­ti sem­bra­va­no con­cen­tra­ti su quan­to sta­va­no leg­gen­do.

    Ver­so mez­zo­gior­no la vi­bra­zio­ne del cel­lu­la­re av­ver­tì di una chia­ma­ta in ar­ri­vo. Pri­ma di ri­spon­de­re, ero usci­to dal­la stan­za per non di­stur­ba­re gli al­tri let­to­ri. Sce­si ve­lo­ce le sca­le e ar­ri­vai all’usci­ta dell’edi­fi­cio. Il so­le era una pia­ce­vo­le ca­rez­za sul vol­to. Po­che per­so­ne, per lo più an­zia­ni e qual­che stu­den­te, pas­seg­gia­va­no tra i via­li al­be­ra­ti del­la vil­la.

    Sbir­ciai il di­splay: un nu­me­ro che non co­no­sce­vo. «Pron­to!»

    «Sal­ve, so­no il com­mis­sa­rio En­ri­co Al­tie­ri. Par­lo con Tho­mas Ca­ri­di?» chie­se una vo­ce me­tal­li­ca.

    «Sì, so­no io.» Sa­pe­vo che pri­ma o poi quel­la te­le­fo­na­ta sa­reb­be ar­ri­va­ta. In fin dei con­ti, era na­tu­ra­le che il com­mis­sa­rio di Mi­ro­na vo­les­se co­no­sce­re l’uo­mo che ave­va sal­va­to sua fi­glia, a mag­gior ra­gio­ne se vi­ve­va nel­la stes­sa cit­tà.

    «Spe­ro di non di­stur­bar­la. Io e mia fi­glia vor­rem­mo in­vi­tar­la a ce­na, que­sta se­ra, se non ha al­tri im­pe­gni, s’in­ten­de.»

    Ave­vo im­ma­gi­na­to la te­le­fo­na­ta, ma mai un in­vi­to, par­ti­co­la­re quel­lo che mi col­se al­la sprov­vi­sta. «Si­gno­re, non de­ve sen­tir­si in ob­bli­go. Ho fat­to so­lo quel­lo che chiun­que al­tro.»

    «Nes­sun ob­bli­go. Da quel­lo che ha rac­con­ta­to Rea non è poi co­sì cer­to che chiun­que al­tro avreb­be agi­to co­me ha fat­to lei. Mi fa­reb­be dav­ve­ro pia­ce­re co­no­scer­la. La pre­go di ac­cet­ta­re l’in­vi­to.»

    «Ver­rò con mol­to pia­ce­re.» L’agi­ta­zio­ne ini­zia­le ave­va la­scia­to spa­zio a una nuo­va, ras­si­cu­ran­te cal­ma.

    «Fan­ta­sti­co! Pre­no­to un ta­vo­lo al Thir­teen. Che ne di­ce di ve­der­ci al­le 21?»

    «Per­fet­to, com­mis­sa­rio. Gra­zie.»

    «Di nul­la. An­zi, so­no io che de­vo rin­gra­zia­re

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