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Le Americhe in Scala 1:1: In viaggio, da New York a Buenos Aires
Le Americhe in Scala 1:1: In viaggio, da New York a Buenos Aires
Le Americhe in Scala 1:1: In viaggio, da New York a Buenos Aires
E-book428 pagine5 ore

Le Americhe in Scala 1:1: In viaggio, da New York a Buenos Aires

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Info su questo ebook

Le Americhe in Scala 1:1 è un affascinante resoconto del viaggio compiuto da New York a Buenos Aires con mezzi di trasporto pubblico di superficie. Attraverso vivaci descrizioni delle persone, dei luoghi e delle culture incontrate lungo il percorso, l’autore accompagna il lettore in un viaggio trasformativo che va oltre il semplice turismo. Dalle strade trafficate di New York, alle foreste tropicali, alle maestose vette delle Ande, Molinari esplora i diversi paesaggi e le ricche trame culturali delle Americhe, condividendo intuizioni ed esperienze che provengono da incontri di persona con la popolazione locale. Lo stile di scrittura coinvolgente e le osservazioni acute dell’autore rendono questo libro un must-read per chiunque cerchi di comprendere e apprezzare i molteplici aspetti di questa vasta e complessa regione. Le Americhe in Scala 1:1 è molto più di un semplice resoconto di viaggio, è un’approfondita esplorazione personale e illuminante esperienza umana attraverso le Americhe.

La versione eBook comprende 86 fotografie originali dell'autore.

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Seduto a tavolino all’ombra di un portico che si affaccia sul Jardin Hidalgo, ho in programma di godermi in silenzio questa brezza calda e asciutta che mi tiene in vita nelle ore più torride della giornata, ma lo sconosciuto del tavolo accanto, un uomo sulla cinquantina, camicia bianca e capelli curati e appena più lunghi della moda, occhiali dalla montatura nera e rettangolare posati leggeri su un naso aquilino, ha voglia di parlare e di conoscere. 
- Mi scusi, lei di dov’è?
Mentre sorseggiamo entrambi un caffè lungo, i convenevoli lasciano presto posto ad estratti di vita. Intuisco come sia un uomo dal passato tormentato, ma che ha avuto il coraggio di sedersi a lato di sé stesso per godere di una prospettiva diversa del proprio io e dei legami sociali. Di sicuro non avrei mai immaginato di che tipo di aiuto si fosse avvalso: il pejote. Le fettine di carne verde scivolano nella conversazione naturalmente, quasi fossimo figli della stessa terra e delle stesse tradizioni native.
- Ti fa vedere la realtà delle cose, ti apre la strada per risolvere i problemi e ti infonde tranquillità e coscienza. A me ha dato visione lucida e pace per 6 mesi.
Ne parla come se tutti lo provassero, come se il pejote fosse il rito di passaggio dei giovani messicani.

Le genti delle Americhe hanno tenuto fede alla loro fama di curiosi e ciarlieri.
Sono partito da New York da solo per un viaggio durato circa 3 mesi, con destinazione Buenos Aires, e non c’è stata piazza o città dove non abbia incontrato qualcuno disposto a raccontarmi del suo paese o della sua vita.
Storie che si sono mescolate al profumo del cibo di strada, ai lunghi percorsi in treno ed in autobus, alla luce tersa degli altopiani e al sole cocente delle pianure. Le chiese barocche, il Canale che divide i continenti, l’azzurro del Titicaca o la folla del Machu Picchu sono icone abusate che, per molti, varrebbero da sole il viaggio, ma in realtà sono solo turismo quando manchi il contatto con chi ci vive.
Tre mesi passano in fretta e si diluiscono sulla vastità dell’itinerario, ma è nel faccia a faccia, nel rapporto seppure fugace con le persone che restano indelebili i ricordi del viaggio vero, la presa di coscienza e il rispetto per vite diverse.
LinguaItaliano
Data di uscita11 mag 2023
ISBN9791222406145
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    Anteprima del libro

    Le Americhe in Scala 1:1 - Michele Molinari

    Introduzione

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    I chicken bus

    Questa è la seconda edizione del libro che narra il viaggio compiuto tra New York e Buenos Aires con mezzi di trasporto pubblici e di superficie. Si era alla metà del primo decennio del nuovo secolo, una vita fa. Ricordo che in tasca tenevo un cellulare Ericsson con tre linee di schermo rigorosamente in bianco e nero e nello zaino libri di carta. Non c’erano Social ma Conoscenti.

    Io ero al termine dell’esperienza di vita newyorkese, non che disdegnassi la vita tra le mille luci della grande metropoli, ma cercavo qualcosa che mi scaldasse di più il cuore. Ancora non sapevo cosa, così decisi di viaggiare, lontano, verso sud che più a sud non ce n’è. Magari, chissà, qualcosa avrei trovato.

    Da allora è passata tantissima acqua sotto i ponti del Rio de la Plata, perché poi, a Buenos Aires, mi ci sono fermato a lungo, ma ancora ricordo quel viaggio come una splendida avventura piena di gente, colori, sapori, qualche pericolo.

    Da tempo accarezzavo l’idea di rimettere mano al testo, la prima edizione è quasi una bozza, dargli una nuova occasione di vita, perché i viaggi, in realtà, non finiscono mai: quando sono veri cambiano le persone e continuano ad accompagnarle nei loro passi.

    Il viaggio

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    La via ferrata tra Riobamba e Alusí, in Ecuador

    Fa freddo, il cielo è coperto, tira vento e minaccia pioggia; me ne vado in una giornata che invoglia a stare chiusi in casa. Se proprio potrei mettermi a guardare fuori.

    E invece no, eccomi in strada all’imbocco di quella che per anni è stata la mia stazione della metropolitana: 7th Avenue a Park Slope, Brooklyn. L’ingresso è stretto tra il marciapiede di Flatbush Avenue, il chiosco dei giornali e delle caramelle, il cinema che di lussuoso ha solo il nome: Pavillion.

    Scendo i consumati gradini di cemento e arrivo al mezzanino dove c’è sempre la pozzanghera di una perdita d’acqua. Strisciata di scheda magnetica e passo il tornello, direzione da prendere Manhattan, verso Penn Station.

    Ultima tappa: Retiro, a Buenos Aires.

    Ma non diretto, no. Molte tappe di approssimazione successiva collegate da treni, autobus e traghetti, magari anche qualche tratta a piedi e non solo per sgranchire le gambe. Perché quando si cerca bisogna farlo con calma, prendersi il tempo di guardare oltre, di vedere. Vedere cambiare i volti e gli abiti, le valli verdi mutare in deserti e poi montagne e ancora campi coltivati, ascoltare i diversi dialetti e le musiche e quello che la gente vorrà raccontarmi sulla vita, la loro, la vita nelle Americhe.

    Stati Uniti d’America

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    Economy Class sui treni Amtrak.

    Fuori dal finestrino il lago Pontchartrain

    Subway - da 7th Ave a 34th St

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    34th Street Penn Station

    Passata la rush hour la metropolitana riprende fiato prima dell’uscita degli studenti da scuola. I treni passano con meno frequenza e i vagoni sono semivuoti. Nel mio siamo solo in sette, me compreso. Una ragazza afroamericana che ticchetta sul suo Palm, una coppia di donne cinesi che parlano a voce alta e una silenziosa madre messicana con due bambini frignoni.

    Quando il treno esce dal tunnel e rallenta per infilarsi sul Manhattan Bridge il vagone si inonda di luce e i due bambini sono gli unici che si mettono a guardare fuori dai finestrini.

    Che spettacolo, è senza dubbio un bel vedere, un viaggio nel viaggio: ponti da tutte le parti e grattacieli e ciminiere e le chiatte che navigano sull’East River, non c’è modo migliore per entrare a Manhattan che attraverso uno dei suoi ponti. Nessun altro pare essersi reso conto che oltre i finestrini c’è una vista.

    La ragazza continua a fissare lo schermo del palmare come fosse la sfera di cristallo, ogni tanto la bocca le si stringe in un ghigno o apre in un sorriso. Le gambe grosse sono infilate nei jeans e accavallate in una posa che sembra copiata da una pubblicità di lingerie. Ha treccine alla rasta, una quantità indefinibile, legate sopra alla testa con uno degli elastici verdi che i postini usano per tenere unita la corrispondenza dello stesso destinatario. Le unghie lunghe e smaltate di viola grattano il cuoio capelluto tra una treccina e l’altra, poi i polpastrelli le aggiustano e le lisciano sino a dove la gomma dell’elastico blocca la mano. È sospesa nei suoi pensieri. Isolata anche dal vociare incessante delle due cinesi che le stanno a fronte, anche se un po’ defilate.

    Queste portano sacchetti della spesa pieni d’erbe e verdure: enormi foglie innervate di rosso escono tra i manici, alcune sono appoggiate sul pavimento in un sacchetto rotolato più lontano a causa degli scossoni del treno. Stanno sedute una a fianco all’altra, ma gridano come se stessero ciascuna alla finestra della propria casa separata dal vicolo.

    Gente di New York che fa cose comuni. Porta i figli a scuola o dalla nonna, arriva tardi in ufficio o presto a un appuntamento, va a fare spesa dove costa meno o c’è più scelta.

    Poi ci sono io, con la punta del naso fredda e le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, mi guardo attorno e penso che, io, non sto facendo nulla di comune. Sto cambiando casa e latitudine, sto cambiando vita.

    E giusto perché sono in viaggio m’assale quella leggera ansia dello spirito, e dello stomaco, che tanto vorrei non avere.

    34th Street Penn Station, sono arrivato, mando giù un caffè e un muffin. M’è già passato tutto.

    Treno - da New York a Washington

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    ... tre bandiere, in cima ad aste altissime ornate alla sommità da aquile dorate, sbattono nell’aria qui più tiepida ...

    Tutti gli Acela, i treni a grande velocità che percorrono il Northeast Corridor collegando frequentemente, ma non sempre in modo rapido, Washington a Boston via New York, sono fermi nelle officine di riparazione da quando una settimana fa si sono evidenziate delle crepe nel sistema frenante di un paio di motrici. Amtrak, la compagnia che opera i treni, ha trasferito i biglietti già venduti su altri convogli che percorrono la stessa linea, con il risultato che quello sul quale mi trovo è preso d’assalto e oversold tre volte, come annunciano di continuo. In pratica lo stesso posto è stato venduto e assegnato anche a tre passeggeri diversi.

    La gente non passa i bagagli dai finestrini solo perché questi sono sigillati per via dell’aria condizionata, ma ci sono passeggeri seduti per terra e persino in piedi nei passaggi tra le carrozze, appoggiati alle porte dei bagni e aggrappati ai portabagagli. I più irrequieti continuano a camminare avanti e indietro facendosi largo nella ressa, sbuffano e si lamentano mentre io mi sprofondo nella poltrona di seconda ma larga e comoda come la Frau. Per un colpo di fortuna ho trovato il mio posto libero e, quando è arrivato uno degli altri aventi diritto, l’ho ricevuto con uno smagliante sorriso ma ho guardato bene dall’alzarmi. Si è seduto sul bracciolo dandomi le spalle, per un po’, finché non è partito in cerca di qualcosa di meno rigido.

    È stata trovata in bagno la borsetta di Judith Filamore. La signora Filamore è pregata di rivolgersi al capotreno.

    Greg, l’etichetta della valigetta riporta nome, cognome, indirizzo e numero di telefono, è alla mia destra. S’infila i tappi per le orecchie di neoprene giallo e si mette a lavorare sul laptop. Cerca, inutilmente, un servizio di wifi. Credo che sull’Acela ci fosse, incluso nel prezzo del biglietto. Siamo su un regionale, ma Greg non demorde.

    Le nubi si sono diradate ed è uscito il sole che, filtrato dalle fronde degli alberi allineati sulla massicciata, entra nella carrozza dove sono accese le luci basse e si è fatto silenzio. Anche gli errabondi si sono messi il cuore in pace e hanno accettato di buon cuore il loro destino. Passa, a fatica, il controllore e annuncia che al bar ci sono quattro sgabelli disponibili, qualcuno se ne va verso il centro del treno. Saranno ancora liberi quando ci arriveranno?

    Sui treni regionali non c’è una carrozza ristorante, ma qualche tavolino con poltroncine e un banco dove si vendono bibite troppo gassate e succhi di frutta dolcissimi, patatine in sacchetti colorati e difficili da aprire, sandwich freddi e indigesti, noccioline tostate e molto salate, biscotti con pezzetti di cioccolato sintetico, uva passa passata da anni, bottigliette di acqua minerale costosissima, caffè ustionante e insapore. Il barista prende gli ordini e toglie da sotto il banco un vassoio di cartone, lo apre e gli dà vita nelle tre dimensioni: gli incavi a due angoli opposti sono per alloggiare le lattine delle bibite e la tazza del caffè, così che si bilancino, lo spazio al centro per le confezioni del cibo.

    Sulla sinistra è passata, in realtà siamo noi che ci muoviamo, Philadelphia e l’edificio neoclassico del Museum of Art. Poi sfila l’aeroporto Washington Baltimora BMI e finalmente arriviamo nella capitale federale.

    Si cambia treno.

    Lasciate le banchine dei binari, tristi sporche e deprimenti, la stazione di Washington si presenta come uno splendido shopping mall con pavimenti di marmo e boutique esclusive. Faccio un giro, esco a respirare l’aria non condizionata mentre una scolaresca s’affretta a entrare da una delle porte che dà sulla grande piazza dove tre bandiere, in cima ad aste altissime ornate alla sommità da aquile dorate, sbattono nell’aria qui più tiepida che a New York.

    Treno - da Washington ad Atlanta

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    ... per la velocità, ecco che una macchia informe di luce risalta sulla materia delle foglie sfocate e non più distinguibili.

    Il Crescent, ogni treno ha un nome, parte al minuto spaccato nell’istante preciso in cui Luther entra nel mio scompartimento tendendo in un saluto la grande mano morbida e forte. Il train attendant, l’addetto al treno, si presenta con un sorriso bianco splendente sulla pelle nera butterata dall’acne, indossa una divisa colore blu notte con i bordini dorati, così come il berretto con visiera. Ha un marcato accento del Sud che me lo rende ancora più simpatico: La carrozza ristorante è già aperta e la lounge sarà aperta da qui a poco, se vuole cenare è meglio che faccia una prenotazione direttamente al ristorante, poi la chiameranno con l’interfono nella sua cabina.

    Le roomette, cabine cuccette ciascuna con il proprio bagno, possono alloggiare due persone. I sedili sono comodi e messi uno di fronte all’altro, stretti tra la finestrona e la porta scorrevole che dà sul corridoio. A lato di uno dei due sedili c’è il WC dissimulato da un gigantesco coperchio appoggia oggetti e il lavandino basculabile in acciaio con tanto di presa elettrica e specchiera. Il letto, con lenzuola, coperte e un paio di cuscini, è sopra la testa, si alza e s’abbassa spingendolo e aiutandosi con una manovella come quelle dei tendoni esterni degli esercizi commerciali.

    Andare a letto è un’impresa, come una scalata free climbing: un piede sul WC, uno in un incavo ricavato a fianco della porta, le mani aggrappate dove si trova, poi un ginocchio sul letto stesso stringendosi tra la parete e la curva del letto fatta per lasciare passare americani smilzi e atletici. A questo punto ci si tira su quasi senza sforzo. Dal bordo del letto un’imbragatura si collega ai ganci del soffitto con due uncini, così che in caso di sballottamenti o sonnambulismo non si finisca sul pavimento, un paio di metri abbondanti di sotto. A lato del cuscino, sulla parete, si trova l’interruttore della luce e l’ugello per un getto d’aria fresca, una tasca con scompartimenti per un libro, gli occhiali e quant’altro, un vano per la valigia o sacca. Più che una cabina di treno sembra la precorritrice di una capsula spaziale, e per questo la trovo molto divertente. Ma è pure comoda e il continuo rollio e beccheggio conciliano il sonno.

    Se si viaggia in coppia qualcuno deve dormire di sotto sulle due poltrone unite, sicuramente meno comodo del letto. Se invece viaggiate da soli e non ce la fate a raggiungere il letto, sono fatti vostri e vi dovrete accontentare delle poltrone. Magari se lo chiamate Luther vi aiuta pure a salire, spingendovi con le manone sulle terga, ma la risata divertita che sono certo gli esploderebbe vi terrà svegli tutta la notte per la vergogna.

    Ho lasciato a New York una primavera appena abbozzata: c’erano alberi fioriti ma il cielo bigio e nessun profumo nell’aria. Per sfidare il vento freddo che mi aspettava fuori casa ho indossato una felpa, un giubbotto e un cappello, uno di quelli da baseball, di colore beige con la scritta blu Brooklyn sulla fronte.

    Solo tre ore di treno più a sud c’è già un’aria diversa: ci sono foglie sugli alberi, che a New York erano ancora spogli, e l’odore che filtra dalle porte aperte alle stazioni intermedie è di terra umida. A Baltimora è ancora primavera quando le egrette si alzano in volo, spaventate al passaggio del treno, lungo il canale che divide la strada ferrata dall’aeroporto. A Washington non si capisce che stagione sia per via degli alveari di uffici e la serie di tunnel, ma l’aria è meno fresca. La primavera finisce da qualche parte attorno ad Alexandria, dove gli alberi hanno solo foglie e non più fiori, anche se c’è qualche specie a fioritura tardiva sino dentro al cuore della Virginia.

    Nel tratto che percorriamo prima del crepuscolo, il Crescent segue la direzione del tramonto. A secondo della curva dei binari il sole salta a destra o a sinistra della fila di vagoni, entrando dalla mia vetrata o fermandosi sulle nuove foglie verde pallido o giallo quasi limone sui rami degli alberi che spazzolano il treno e si piegano al suo passaggio. Alcuni punti del fogliame più denso lasciano passare solo pochi raggi di sole e allora, per la velocità, ecco che una macchia informe di luce risalta sulla materia delle foglie sfocate e non più distinguibili.

    Ci fermiamo a Manassas, dove sarà? La stazioncina è circondata da un enorme parcheggio ben organizzato e bordato da alberi e lampioni in stile lampade a gas adornati ciascuno da una bandiera americana nuova di zecca. Il patriottismo, negli Usa, è un sentimento che va esibito in pubblico, e meglio se a colori e a Stelle e Strisce. Raccogliamo un solo passeggero, un teenager con cappello da baseball e borsa di plastica cilindrica colore gialloverde fluorescente e cangiante. I genitori lo salutano sventolando la mano mentre sale il predellino e scompare nel vagone; il convoglio riparte e l’uomo cinge con un braccio le spalle della donna.

    Il sole ha ormai girato sull’altro lato del vagone, solo le cime degli alberi e i tetti sono illuminati a tonalità calde.

    Il conduttore continua a suonare la sirena come se passassimo da un passaggio a livello all’altro, ma in realtà ci sono solo capannoni, boschi e lottizzazioni pulite e compite. Speriamo che questa notte smetta di suonare.

    Non so se dipende dalla approssimativa posa dei binari o dalle sospensioni del treno, ma lo sballottamento è tale che se fossi una zangola sarei già pieno di burro sino alle orecchie.

    Ora di cena, yes! il cameriere m’ha chiamato con l’interfono come da regolamento: Mister Molineeery, time for dinner, sir.

    Non ricordo cos’ho mangiato perché non valeva la pena ricordarselo, so solo che sembrava lo stesso cibo che servono a bordo degli aerei, ma in porzioni consistentemente più abbondanti per ovvie ragioni di spazio. Chissà, forse si servono dallo stesso fornitore, o forse è questo quello che vogliono mangiare i viaggiatori che viaggiano per spostarsi e non per mangiare, perché se invece viaggiassero per mangiare credo proprio che su questo treno non viaggerebbero.

    I tavoli sono da quattro posti e il maître si occupa della loro assegnazione. Sono seduto di fronte a David e Jenny. David ha l’occhio sinistro mezzo chiuso e un’orecchio smozzicato come quello di un gatto che fa a botte e morsi nella stagione degli amori; ha un paio di baffi radi e lunghi sulle labbra piegate all’insù in un mezzo sorriso dolce, indossa una camicia da boscaiolo a scacchi neri e rossi che gli sta troppo larga. Jenny è bionda e ha le unghie rosse e smangiucchiate, soprattutto quelle della mano sinistra, il seno è alto e sodo e stretto in una T-shirt con la scritta Virginia is for Lovers. Sembrano due personaggi di un film di Cassavetes. Lei sta cercando di smettere di fumare ma alla prima stazioncina salta giù per un paio di boccate: la sigaretta tenuta con la destra si alterna nella bocca alle unghie dell’altra mano. Quando torna parliamo di fumo e di sigarette. Io ho smesso due anni fa, le dico mentendo, lei mi guarda attenta e poi mi dice che ho visto un documentario in TV, la TV è il centro del mondo, che parlava di quelli che vogliono smettere di fumare e non ci riescono, poi ho comprato le pillole che pubblicizzavano alla fine del documentario, se le compravo entro mezzora mi davano due flaconi al prezzo di uno, e così adesso ho la cura completa … ma non so quando inizierò. Ricordo che abbassai gli occhi sul purè di patate con il sugo di carne.

    Fuori è notte e non ho voglia di leggere, i compagni di viaggio non sono loquaci e considero sia una buona idea se me ne torno in cabina a dormire, come un bambino. Ma non ho fatto i conti con lo stato del materiale rotabile.

    Alle 3 del mattino Luther fa capolino attraverso la tenda del mio scompartimento, che faccio da parte in qualche modo scomposto. Il treno è bloccato e si trasborda sui bus, mi comunica attraverso il vetro spesso che attutisce la voce e sul quale ha bussato violentemente per svegliarmi.

    Siamo fermi da un paio d’ore, mi racconta qualcuno che s’è svegliato quando il treno ha smesso di muoversi come un cane che si scrolla l’acqua di dosso. Pare ci sia stato un deragliamento davanti a noi e il binario unico, siamo sulla costa più densamente popolata e civilizzata degli Stati Uniti ma c’è un binario unico, non permette di superare l’intoppo. Tutti giù con armi e bagagli e breve camminata sino ai bus che ci aspettano disposti in batteria nel parcheggio di una stazione nel cuore di una foresta. L’aria è umida e fresca, il cielo è stellato e si sente il richiamo di un gufo in lontananza. C’è chi dice sia Greensboro in North Carolina, non lo so per certo, era tutto molto buio e io stavo attento a non perdere il mio gruppo e il mitico Luther che ci conduce come un musher dirige una muta di cani sciolti e assonnati.

    Sul bus ci sediamo a caso, io mi sono fatto grande per occupare due sedili e stare più comodo, tanto c’è posto per tutti. Cado come un piombo in un sonno pesante. In un’ora, forse due o tre o anche quattro non lo so io dormivo, arriviamo a Charlotte, sempre in North Carolina, ancora addormentata sotto il cielo grigio dell’alba. Qui il Crescent che stava salendo verso nord ci aspetta per portarci a destinazione a sud, mentre i suoi passeggeri originali, trasbordati anch’essi con i bus, occupano ora le nostre precedenti cabine. Uno scambio alla pari.

    Mi riassegnano una roomette davanti agli stessi padre e figlio giocatori di scacchi che avevo in precedenza dall’altra parte del corridoio, e che troverò anche a colazione quando mi riconcilio con le cucine della Amtrak: oatmeal caldo, yogurt e pane tostato.

    Quando alle 9:00 s’è fatto largo il lungamente atteso annuncio che la carrozza ristorante era stata, e finalmente, aperta, siamo scattati tutti in piedi, aperto all’unisono le porte degli scompartimenti e riversati nel corridoio che da rigagnolo in secca s’è trasformato in un torrente in piena di gente frettolosa e dal passo svelto. Anche chi nella notte ha evidenziato problemi di deambulazione a salire e scendere da carrozze e bus ora sgambetta e sgomita per un piatto di scrambled eggs.

    La folla è eterogenea ma non ci sono pendolari, solo viaggiatori, gente che ama il treno per il piacere di non correre. In questo momento non si direbbe. A tutti piace guardare il paesaggio, leggere un libro, chiacchierare con la gente, concedersi un caffè mentre si attraversa una foresta e si scambiano opinioni davanti a un pasto caldo.

    Al tavolo, come d’ordinanza, siamo quattro. Darlene è magra e bionda e pensionata con un sorriso felice e composto, viene da Eugene nell’Oregon e conosce tutti i treni d’America per nome. Chuck e Robert sono i giocatori di scacchi, vengono da Long Island, NY. Parliamo di investimenti immobiliari e traffico stradale, due grandi conversation starters, spunti di conversazione, negli Usa, il gradino successivo è, di solito, riservato a sesso e soldi. Darlene non è mai stata a New York perché è convinta sia troppo pericolosa. Non concepisce il traffico e, stupita e inorridita, lascia cadere la mandibola quando Robert racconta di come impieghi più di un’ora d’auto per andare al lavoro guidando tra semafori e autostrade congestionate. E sarà sempre peggio, aggiunge il babbo, il valore delle case sul mercato e le spese di manutenzione e le tasse di proprietà sono diventate così alte che per permettermi una casa dignitosa per la mia famiglia presto dovrò andare a vivere ancora più lontano dal centro città. Questo basta e avanza perché Darlene cancelli definitivamente New York dalla sua lista. Per il momento ha in programma un giro d’Europa da compiere l’autunno prossimo, e giù che inizia un panegirico dei treni del Vecchio Continente e dell’architettura delle stazioni europee.

    Boschi che si alternano a radure che si alternano a boschi, siamo nella Piedmont Region, e quando comincia a piovere mi rendo conto di colpo di come non abbiamo incrociato un solo treno passeggeri, ma solo treni merci, in tutta la mattinata.

    Quando dal caffè si passa alla Diet Pepsi con il ghiaccio è un segnale che la colazione è terminata e si può iniziare a lavorare. Nel tavolo alle mie spalle Thomas smanetta sul portatile collegato ad Internet tramite il suo cellulare; sta navigando il sito della Amtrak e ci aggiorna sul ritardo che avremo ad Atlanta, quasi sei ore, e sui dettagli del deragliamento della notte scorsa. Lavora come Business Development Manager, per non so quale azienda e non mi interessa, ma ha dei fantastici biglietti da visita di cioccolato, cioccolato, che riserva esclusivamente per i clienti speciali. Quando a domanda rispondo e gli dico che sono in viaggio per Buenos Aires, ne toglie uno dallo zainetto e me lo porge con le due mani come se fosse la sciarpa bianca per un monaco tibetano. Grande come una carta da gioco e spesso come una sigaretta, il biglietto è contenuto in una scatolina di plastica rigida trasparente che lo protegge e impreziosisce. Un angolo s’è sciolto col caldo di ieri, quello in basso a destra, ma non ha perso del tutto la forma a parallelepipedo di biglietto da visita in tre dimensioni. Nome indirizzo e quant’altro sono scritti a caratteri colorati su una carta di riso che si può anche mangiare. Me lo porge come un amuleto di buon augurio.

    You made my day, man!

    Atlanta

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    … la pensilina della stazione di Amtrak tra un’autostrada a dieci corsie e un sovrappasso a sei.

    Non c’è nulla di glamorous e tanto meno di eccitante ad arrivare ad Atlanta in treno.

    Nata come Terminus Georgia e cresciuta attorno alla sua stazione ferroviaria, Atlanta ha ora rinnegato le radici e relegato la pensilina della stazione di Amtrak tra un’autostrada a dieci corsie e un sovrappasso a sei. Sembra la fermata di una linea poco trafficata di un treno locale in un quartiere reietto e in recessione economica. Mi torna in mente Darlene.

    Prima di raggiungere il centro città mi affaccio a uno sportello in stazione per chiedere un rimborso. Il tizio che mi risponde al di là del vetro sporco, quando finalmente gli è venuta voglia di ascoltarmi, mi informa che se compilo un paio di moduli in triplice copia e allego le ricevute che non so più dove ho messo e spendo i soldi dei francobolli e il tempo che mi ci vuole per il tutto e aspetto pazientemente che mi rispondano dopo qualche mese, potrebbero anche, bontà loro, restituirmi un paio di biglietti da 10 come indennizzo per il percorso fatto in bus invece che in treno. Precisiamo, mica in contanti, come voucher per il prossimo viaggio. Evviva.

    Non conosco nessuno che sia arrivato ad Atlanta con il treno, mi dirà Stephen visitando le sale del High Museum of Art.

    Visto, anche nelle giornate normali può succedere qualcosa di speciale.

    Treno - da Atlanta a New Orleans

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    Mi riassegnano una roomette davanti agli stessi padre e figlio giocatori di scacchi che avevo in precedenza dall’altra parte del corridoio ...

    Radiosa mattinata di sole dopo la pioggia battente della notte.

    Il rumore della superstrada copre anche quello del treno in arrivo con 10 minuti di ritardo annunciato. I binari sono stati riparati e il problema del deragliamento è stato risolto, questo treno arriva direttamente da New York.

    I primi a scendere sono gli studenti di una scolaresca in gita da Washington. Portano zaini enormi sulle spalle mentre sottobraccio tengono coperte e cuscini usati per passare la notte. Non sono cuscini gonfiabili da viaggio, quelli che avvolgono il collo e si vedono in aereo, bensì i cuscini dei loro letti, avvolti da fodere con le fantasie tipiche dei teenagers: fiori, righe, stemmi delle squadre di football e baseball. Qualcuno indossa ancora i pantaloni del pigiama con fantasie intonate, c’è anche una ragazzina con quelli di Bob Squarepants. Assonnati, trascinano le masserizie su per le scale che dai binari portano alla stazioncina all’altezza del sovrappasso stradale. Spolverano i gradini con le coperte e lucidano i corrimano con i cuscini, poi li buttano sulle panche della sala d’attesa tra la gente e i bagagli. Questa notte, sicuramente, li preferiranno a quelli dell’albergo che li ospita, così che si faranno accarezzare da tutte le mani di quanti hanno usato il corrimano della ripida rampa di scale.

    Solo quando il treno ha terminato di scaricare ci permettono di salire: sono da poco passate le 8:00. Monto e la carrozza è quasi vuota e il treno pure, ci sono due carrozze chiuse perché tanto non vale la pena aprirle visto l’esiguo numero di passeggeri. Partiamo con 10 minuti di ritardo sui 10 già accumulati e dopo 500 metri, ancora in stazione, ci fermiamo per altri 15 minuti prima di ripartire a passo d’uomo.

    Siamo distribuiti in ordine sparso, e ciascuno con il sedile a lato vuoto. Le carrozze sono abbastanza pulite, l’inserviente sta terminando di passare un battiscopa d’antiquariato, quelli con le spazzole a rullo, poi distribuiscono mini cuscini con la fodera di carta azzurrina.

    Finalmente usciamo dalla stazione e si degnano di annunciare che per ordine della TSA, Transportation Security Administration, si procederà al controllo dei documenti di identità assieme a quello dei biglietti. Fake news, nessuno controlla nulla di nulla, a parte i biglietti, ma questo basta perché Trudy della fila dietro senta la necessità di renderci partecipi di una sua molto personale considerazione. Mi stavo giusto chiedendo dove fosse la sicurezza, qui nessuno sa dove vada la gente. E vorrei ben vedere.

    Trudy è grassa, o forse incinta, sta seduta e non capisco bene. È sulla quarantina e sul viso ha ancora il trucco pesante di ieri, i capelli tinti di nero hanno le crescite di un colore tra il grigio e il marrone e sono spettinati come il cotone della maglietta arancione che le fa da miniabito. Anche se assolutamente non voglio, vengo a sapere che è madre di una figlia teenager che ha partorito da una settimana con il cesareo e che Trudy sta andando a trovare a New Orleans. Nessuno le ha rivolto la parola ma lei lo racconta a tutta la carrozza mentre pesca patatine da un sacchetto. Alle 9 in punto, quando annunciano che la carrozza ristorante è aperta, apre un altro sacchetto, questa volta di coni 3D al formaggio e salsa piccante, e svita il tappo di una bottiglietta di plastica che contiene un liquido rosso non bene identificato.

    Magari un giro al bar mi distrae.

    Ordino un caffè e un muffin ai mirtilli, niente di che ma nemmeno malaccio. Mi siedo nella carrozza lounge a fianco di un finestrone e sfoglio un giornale lasciato sul tavolo del controllore che se n’è appena andato. Sorseggio il caffè e guardo fuori, volto le pagine e sbircio un signore elegante, afroamericano, seduto al tavolino di fronte al mio. Indossa un cappello in paglietta avvolto da un nastro nero con una sottile linea bianca, ha i baffetti sottili e molto curati lungo tutto il labbro, la camicia nera

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