Matrioska praghese
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Thriller - romanzo breve (58 pagine) - Una Praga a tinte noir. Racconto finalista al Delos Passport Contest 2020
Praga, giorni nostri.
Honza e Dagmar.
Lui: maturo commissario di polizia. Indurito e amareggiato, sì, ma non al punto da aver perso i suoi valori. Nonostante sia stato proprio un ideale, e la avventata volontà di Honza nel perseguirlo, a causare la morte di sua figlia Anka, di soli due anni, durante la Rivoluzione di Velluto del 1989.
Lei: giovane donna, bloccata in una relazione autolesionista con Vit, tipico uomo bello ma sbagliato, in pericolo di vita per un debito ancora più sbagliato. Dagmar ha una personalità complessa, frutto di un’infanzia travagliata. Orfana, adottata da una famiglia ostaggio di una madre depravata, e poi orfana di nuovo, in modo tragico, a dieci anni. In quell’occasione ha conosciuto il poliziotto Honza, che nei suoi tratti ha rivisto in qualche modo la figlia perduta.
Tra i due, nasce e si consolida un legame che li unirà a vita, anche se nel tempo i confini e le caratteristiche di tale legame si sono fatti più sfumati, confusi. Diversi.
E quando l’attuale vita privata di Dagmar, e insieme i conti aperti del suo passato, si andranno ad intersecare con un’operazione segreta, nome in codice Matrioska Vampira, Honza dovrà fare le sue scelte.
Alberto Tivoli è nato a L’Aquila in un marzo nevoso del 1973. Nella sua città natale ha scoperto la narrativa, che lo accompagna da sempre, e il piacere dell’esplorazione tra le cime del Gran Sasso. Vive e lavora a Rieti come ingegnere. Nel tempo libero legge con passione, scrive con amore e viaggia per il mondo ogni volta che può con grande meraviglia. A partire dal 2015 alcuni suoi racconti brevi sono stati selezionati e pubblicati in antologie di autori vari, sulle riviste Robot (contest “I vagoni di Trainville”) e Writers Magazine Italia (Speciale Science Fiction del 2016). Per Delos Digital ha pubblicato gli ebook Yantra Zombie, Street Rider: Inizia la corsa, Street Rider: Il passaggio del testimone e Street Rider: Insieme al traguardo.
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Anteprima del libro
Matrioska praghese - Alberto Tivoli
I. Vyšehrad Park
Dagmar spalanca gli occhi.
Giace supina. Le mani giunte appena sotto i seni. Il ventre sale e scende con regolarità.
Si è addormenta in posizione fetale e si è risvegliata pronta per la bara. Come se durante la notte il suo corpo avesse compiuto il ciclo di una vita. Dal calore al freddo. Dagli istanti precedenti la nascita, alla resa finale.
Che cazzo di pensieri faccio
si biasima, quindi si tira su a sedere.
Piumone e lenzuolo ripiegati ai piedi del letto, per metà a terra. L’epidermide, lasciata nuda dalla canotta e dagli shorts, è butterata dalla pelle d’oca.
Un barlume grigio penetra dalle finestre. Una luminosità polverosa e stanca che riesce appena a superare le tende. La stanza è immersa nel silenzio e nell’odore di fumo di sigaretta e di alcool. Su tutto aleggia un sentore acido, nauseante. La porta, spalancata sul corridoio, le offre un’istantanea della cucina: il manico di una padella spunta dal bordo del lavandino, il rubinetto è aperto; un bicchiere giace su un fianco sopra il piano di lavoro; sul pavimento, frammenti di vetro tenuti insieme dall’etichetta di una bottiglia di liquore.
Sospira e posa i piedi a terra. Non calza le pantofole, ha bisogno del gelo dell’impiantito per non cedere. Deve dimostrare che è in grado di resistere.
Uno scatto elettrico, un sospiro idraulico, il termostato ha acceso la caldaia.
Sono le sei ante meridiem e una mano le si posa alla base della schiena.
– Vado a correre – spiega, sussultando. Quindi si sfila la canotta.
– Vai sempre così presto – si lamenta lui. La voce è roca e le parole impastate.
– Sei tornato tardi. – Gli shorts e le mutandine seguono la canotta, atterrando su una poltrona.
Le risponde con un mugugno e si giustifica: – Mica così tardi, è che gli altri volevano tirare ancora un po’ serata. – Reprime un rutto e con un tono di voce che cerca di essere allegro e tenero aggiunge: – Volevo farti trovare la colazione.
– Lo so – finge di crederci. – Grazie. – Si alza e raggiunge la soglia della stanza da bagno annessa alla camera.
– Sei un gran fica. – Vit si è puntellato sui gomiti. I capelli ricci, color fieno, sono sporchi e si arruffano verso l’alto. Non ha chiuso la lampo dei pantaloni e i risvolti sono coperti da chiazze scure, così le mutande. La camicia è lorda di vomito secco. Una cicca è spiaccicata sulla pianta di un calzino. Le scarpe, abbandonate in un angolo, spuntano da sotto la giacca.
– Riposati – gli dice con un sorriso sfiancato. Entra in bagno e chiude la porta.
Si siede sul WC per i bisogni mattutini e intanto lava i denti, abbracciando il lavandino in cui entra appena il suo pugno; il manico dello spazzolino tintinna contro la ceramica mentre ne pulisce la testina sotto l’acqua corrente. Se allungasse una gamba, il tallone poggerebbe sul piatto doccia protetto da una tenda che si apre e chiude a soffietto. Quel locale è come se le fosse stato cucito addosso. Come una bara. Vit e quelli prima di lui non ci sono mai entrati. Per loro, mette a disposizione la stanza in fondo al corridoio, quella con la vasca.
Indugia sotto la doccia. Gode dello scroscio caldo. Il vapore satura il suo rifugio. La condensa cola lungo il vetro dello specchio e della finestra, entrambi su misura per quel nucleo di spazio.
Torna in camera e si asciuga il corpo. Il radiatore scricchiola, accogliendo l’acqua calda pompata nel circuito di riscaldamento. Vit respira rumorosamente e inghiotte, torturato dal reflusso gastrico. Dagmar si raccomanda di lasciargli una bottiglia d’acqua a portata di mano.
Sceglie un body sportivo e una calzamaglia. Infila i leggings neri e una maglietta celeste. Completa la vestizione con una felpa, abbinata ai pantaloni, e le scarpe da corsa, che risaltano come un fuoco giallo racchiuso in una gabbia di fasce blu. La tela è sfilacciata in più punti e la pelle è screpolata. Stima i chilometri che ha percorso con quelle calzature: più di quattromila in poco meno di tre anni.
Vit si gira su un fianco. Sembra un asmatico. Lui non macina chilometri ma litri, da bassa ad alta gradazione, e chilogrammi di tabacco.
Dagmar raccoglie i capelli in una coda di cavallo. Infila guanti, scaldacollo e berretto nel marsupio. Niente trucco. I suoi occhi rilucono di aspettativa nello specchio in cui si affaccia prima di lasciare la camera da letto.
Chiude il rubinetto. Afferra la padella e fa colare le uova strapazzate e bruciate nella pattumiera. Scopa in un angolo i cocci della bottiglia di Becherovka e si serve una fetta di pane e miele.
Sosta sulla soglia di casa.
La pompa della caldaia torna a sibilare. Vit russa. Nella tromba delle scale riecheggiano sedie trascinate sul pavimento, sciacquoni che si scaricano, posate che cozzano contro stoviglie. Saluti e maledizioni. Risate e lamenti. Ha dimenticato di lasciare una bottiglia d’acqua accanto al suo uomo. Che si alzi per bere.
Dagmar scende le scale di corsa. Con la destra sfiora le travette in ferro battuto della ringhiera. Prende il ritmo grazie ai rintocchi metallici.
Rintocchi sempre più veloci.
* * *
Rintocchi via via più lenti.
La motrice si arresta.
Le porte dei vagoni si aprono con un sibilo simile a un sospiro, che ha un che di erotico.
Honza si alza per lasciare il posto a una ragazza che si regge il pancione con un braccio e con l’altro culla un Jack Russel. Lei gli sorride e il cagnetto gli lecca una manica del giubbotto sintetico.
Lui ricambia arcuando appena le labbra e si afferra alla sbarra che corre all’altezza dei suoi occhi. Il treno riparte con uno scossone.
Lunedì 4