Oltre l'infinito
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Hunted Series
È passato parecchio tempo dall’ultima volta che Dakota ha visto Jay, l’ibrido che genera il fuoco. Dopo aver combattuto fianco a fianco, condividendo ben più della lotta, l’aliena, che oramai si era rassegnata a perderlo per sempre dopo aver realizzato di amarlo, non si aspetta di rivederlo.
Quando accade, chiamati entrambi per compiere una nuova missione contro antichi e nuovi nemici, entrambi si rendono conto di non essersi affatto dimenticati. La passione è quella di sempre, l’antipatia anche, ma stavolta Dakota non è disposta a concedere più nulla a Jay e Jay non è disposto a cedere al desiderio di favola dell’aliena. Fino a quando un evento inaspettato non metterà in pericolo la vita di Dakota.
L’ombra del nemico, questa volta umano, è spietata, e in un groviglio di eventi in cui Dakota e Jay rischieranno il tutto per tutto, anche il loro rapporto subirà drastici cambiamenti, che li porteranno a cambiare radicalmente il punto di vista sul loro complicato rapporto.
Angela Contini
è nata in Germania ma è italianissima. Vive in un piccolo paesino con il marito e il figlio. Ama guardare serie TV, ascoltare musica e preparare dolci. La Newton Compton ha pubblicato Tutta la pioggia del cielo, Tutte le stelle del cielo e Tutto l'infinito del cielo.
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Anteprima del libro
Oltre l'infinito - Angela Contini
Capitolo 1
Dakota
Dopotutto dimenticare è un affare abbastanza semplice. Soprattutto se nella vita hai visto di peggio di un ragazzo che va via in moto, lasciandoti in compagnia di un magone ingestibile.
Oh, tranquilli, adesso è gestibilissimo. In fondo sono passati parecchi mesi da quel giorno. Non penso a lui da un pezzo, ormai. Ho ben altro di cui preoccuparmi. Ho la mia vita da rimettere in piedi. Ho tutto da reinventare. Lui occupa uno spazio infinitesimale nella mia testa. Lui se ne sta in un angolino sperduto della mia mente.
Non parlo più di lui. Forse non ne ho mai parlato. Forse ho solo immaginato di farlo. Ho solo ascoltato altri che parlavano di lui. So dov’è. Non so cosa fa. Non so con chi è. Ma non mi interessa. No. Non mi interessa più. Ho cancellato il suo volto dalla memoria. Il sorriso scanzonato, gli occhi chiari come il cielo, il corpo caldo come il fuoco. Tutto questo è solo un’eco lontana nel mio cuore. Un riverbero che di tanto in tanto ritorna a farmi bruciare quelle che ormai sono solo piccole ferite. Piccole. Piccolissime. Niente di cui preoccuparsi.
Jay è stato come un temporale improvviso nella mia vita, uno di quelli che pensi non ti coglierà impreparato se esci quando le nuvole si stanno ancora addensando. Poi, però, le nubi arrivano più in fretta del previsto e ti ritrovi fradicia. Ti dici che è colpa tua se sei troppo stupida da non aver pensato di prendere almeno un ombrello.
Pazienza. Ti sei presa il raffreddore. Sei stata male, molto male. Gola arrossata, occhi che lacrimavano, il cuore dolorante. Per un raffreddore, già. Uno di quelli che pensavi non avresti superato, ma poi ci sei riuscita. Alla fine il dolore è passato. Hai smesso di lacrimare e il cuore è tornato a battere a un ritmo normale. Non fa più male adesso. Adesso che quel raffreddore è andato via.
Lo smartphone squilla con insistenza. Cerco di ignorarlo sperando che il fastidiosissimo trillo cessi in fretta. Invece continua. Lo afferro spazientita e rispondo. «Kevan, ma non eri al cinema con Abby?»
«E tu non dovresti essere a casa a quest’ora?»
«Faccio un giro».
«Da sola?»
«Stai scherzando? Posso fulminare chiunque provi anche solo ad avvicinarsi a me e tu ti stai preoccupando?». Sento un sospiro dall’altra parte e la voce di Abby che dice: «Lasciala in pace, non è una ragazzina».
«Dai retta a Abby, Kevan». Un altro sospiro.
«Va bene», risponde e mi pare di vederli i suoi denti stretti. Kevan è come un fratello maggiore e come tale rompe le scatole dalla mattina alla sera.
Non appena interrompo la comunicazione mi allontano dal parcheggio del fast food dove lavoro. Un bell’avanzamento di carriera, già. Da membro di una Confederazione aliena a cameriera part time. Che razza di fine. Anche Kevan sta cercando di vivere una vita normale, ma lui a differenza mia, ha deciso di iscriversi all’università. Vuole diventare qualcuno, ha detto. Io, invece, penso che voglia diventare più simile agli umani. Non capirò mai la sua scelta, anche se ho imparato a rispettarla.
Mi piace passeggiare per le strade deserte dopo il lavoro. Mi aiuta a togliere di dosso la puzza di frittura, mi distrae da pensieri troppo invadenti. La memoria è un muscolo involontario e mi espone alla sofferenza.
Un’auto mi sfreccia accanto. Dietro la macchina, una volante della polizia con le sirene spiegate e i lampeggianti accesi, si lancia all’inseguimento. Provo quasi invidia. Sento la familiare sensazione adrenalinica nelle vene. Mi manca. Mi manca essere un soldato. A volte il bisogno di combattere diventa così forte che devo nascondermi in qualche campo di grano sperduto a lanciare fulmini a destra e manca per quietarlo almeno un po’. Non ci riesco mai. Dopo è anche peggio.
In prossimità di una birreria, la cui insegna sta cadendo a pezzi e si accende e spegne a intermittenza, incontro tre ragazzi ubriachi. Mi avvistano e sorridono confabulando fra loro. Mi osservano con insistenza, dandosi di gomito. Se fossi un’umana qualsiasi, l’istinto mi direbbe di cambiare strada, correre via a gambe levate, ma sono un’aliena e loro sono solo umani ubriachi. Mi dico che ci sarà da divertirsi fra un po’ e chissà, forse riuscirò a soddisfare la mia voglia di alzare le mani. Da troppo tempo non lo faccio.
Senza abbassare la testa percorro la distanza che ci divide. Li guardo dritto negli occhi, quasi sfidandoli. Passando tra loro colgo il familiare odore delle droghe con cui gli umani amano alterare la loro percezione della realtà. Stupidi primitivi.
«Ehi, tu!». Uno di loro mi afferra per un braccio. Mi volto a guardarlo. È carino. È alto. È robusto. Ma le sue mani sono fredde. Troppo fredde. Mi infastidiscono. Lo allontano con una spinta, sperando di provocare qualche reazione. Sorride. Solleva le mani. Arretro di un passo. Finisco contro un altro del gruppo. Lo sento appoggiarsi lascivamente contro di me con tutto il corpo, mentre una sua mano finisce sul mio sedere. «Dove vai, tesoro?».
Non rispondo. Fingo di avere timore di loro. Il tizio, al contrario dell’amico, non è affatto carino. È rozzo, puzza di sudore e agli angoli della bocca ha disgustosi accumuli di saliva. Mi libero di lui, ma un altro ancora mi afferra per un braccio. «Se vai in giro vestita così, stai cercando solo una cosa, tesoro, e noi te la possiamo dare, vero, ragazzi?». Un brusio si leva nel gruppo. Sorrisini, battutine idiote, offensive, allusive. Sconce.
«Quindi, voi, inutili accumuli di carne, credete che una gonna corta e un top servano a giustificare le vostre molestie? Credete che una donna debba andare in giro dentro un sacco per evitare attenzioni indesiderate o, peggio ancora, violenze? Pensate che, se una ragazza ha piacere a esporre il suo corpo per una vanità tutta personale, ciò significhi implicitamente che voi, animali primitivi, siate giustificati a infilarle l’inutile salsiccia che avete in mezzo alle gambe, nella vagina? Eh?».
Il tizio carino socchiude gli occhi. «Mi stai accendendo ancora di più, rossa».
Il tipo bavoso mi afferra per le braccia e mi trascina in un vicolo stretto e buio sul retro del locale, tra i bidoni dell’immondizia. In realtà mi lascio trascinare ostentando una timida ribellione.
«Questa muore dalla voglia di farsi scopare, ve lo dico io», afferma con tracotanza.
Quando uno dei tre mi spinge con forza contro il muro, cogliendomi di sorpresa e facendomi sussultare per il colpo, ne ho quasi abbastanza. Raggiungo il limite quando il tizio carino si spalma contro di me. Solo un altro corpo è stato tanto vicino al mio e poi nessuno più. E la rabbia sale al pensiero. Il suo volto si affaccia di nuovo alla mia mente. Stringo i denti, i pugni. Ribollisco di furia.
La mia mano scende a cercare la parte più sensibile del corpo dell’idiota che ho addosso. La afferro e gli sorrido. Il tipo sembra sorpreso, poi geme di piacere, finché non stringo di più e allora il suo gemito diventa di dolore. Sta per colpirmi per liberarsi. Sollevo velocemente una mano sul suo volto e sulle mie dita scorre la mia forza naturale. L’elettricità si espande fino al braccio nudo. Ogni volta è come un brivido che mi rinvigorisce. La sua espressione sconvolta quanto quella dei suoi compagni mi lascia soddisfatta come non mai, ma non ho ancora finito con loro. Allento la presa sul suo insulso pezzo di carne, quello che credeva essere un’arma fino a due minuti fa, l’arma con cui mi avrebbe punita.
Adesso l’elettricità scorre su entrambe le braccia, si allunga sulle mani e mi brilla sulla punta delle dita.
«Ma che cazzo…». I tre arretrano stringendosi fra loro come cuccioli smarriti. Sorrido. Intono la canzone Creep dei Radiohead che sento provenire dall’autoradio di un’auto di passaggio.
«A volte capita di incontrare la ragazza giusta, sapete? Quella che rimette tutto a posto, quella che sa esattamente dove e come colpire», dico. Una piccola saetta vibra vicino ai loro piedi. Saltellano come molle. È divertente. Infine ne ho abbastanza e scarico su di loro, anzi, sulle patte dei loro pantaloni, energia sufficiente a fargli rimpiangere di essere usciti stasera. Urlano di dolore e mi diverto ancora di più. Li vedo piegarsi su loro stessi. Uno di loro piange, probabilmente per la paura.
«Tu… tu sei un mostro!», esclama un altro dei tre.
«Mmh…». Mi gratto il mento e fingo di pensarci su. «Non è carino quello che hai appena detto. Forse ti serve una nuova scrollata».
«No… no, ti prego. Lasciaci andare, per favore».
«Quante ragazze ve lo hanno chiesto e non lo avete fatto?»
«Nessuna, lo giuro. Era la prima volta».
«Dovrei sentirmi lusingata, allora?»
«Per favore…», continua a piangere un altro.
«Non fatevi venire mai più in mente di importunare così una ragazza per bene, anche se dovesse presentarsi di fronte a voi in perizoma, okay?»
«Va bene, va bene!».
«Dite: lo prometto. In coro, avanti».
«Lo prometto!». Il coro è deciso. Sincronizzato alla perfezione.
«Evitate di riferire quanto successo. Siete ubriachi e drogati. Vi ritrovereste dallo psichiatra in men che non si dica». Mi avvicino. Mi chino su di loro e sussurro: «Rimarrà il nostro piccolo segreto, va bene?». Annuiscono come bambini spaventati. Infine li lascio correre via.
Sospiro. Mi stiracchio inspirando a fondo, ricordandomi solo ora di essere circondata dal pattume del locale. Con una smorfia disgustata mi allontano e riprendo la strada di casa.
Forse non è stata la lotta che speravo, ma almeno ho reso un servizio utile alla società evitando che quei tre idioti provino di nuovo ad avvicinare una ragazza per molestarla. Avranno paura di qualsiasi femmina che incontreranno da oggi in poi.
Il piccolo appartamento che condivido con Abby e Kevan, poco distante dalla casa degli Allen, mi accoglie nel silenzio più assoluto. Mi faccio in fretta una doccia e, poco dopo, in camera mia, mi distendo sul letto coperta solo da un asciugamano. Accendo il ventilatore e lascio che il soffio d’aria rinfreschi un po’ l’ambiente. Odio il caldo di questo maledetto posto.
Chiudo gli occhi e resto in attesa del sonno che, sono sicura, non verrà tanto presto. Invece, mi sorprendo poiché cinque minuti dopo sono già in dormiveglia. Forse sono più stanca di quanto immaginassi. Forse ho solo paura di ricordare. Forse… forse ho solo sonno.
Capitolo 2
Jay
L’ibrido che per anni è stato come un padre e che, a dire il vero, lo è ancora, mi osserva dalla testa ai piedi senza fare una piega. Non riesco a muovermi e mi chiedo se Samuel non stia usando il suo potere di manipolare la mente, perché sento le gambe incollate al pavimento di questo lurido appartamento.
Lexion è accanto a me. Ha l’aspetto di un barbone. È messo male, su questo non c’è dubbio. La barba incolta, i capelli troppo lunghi, la puzza di alcol sono tutti segni che la vita di quest’uomo, alieno, quello che diavolo è, si è spenta molto tempo fa, esattamente nel momento in cui sua moglie, mia sorella, gli è stata portata via, nel modo peggiore possibile. Uccisa. Come un insetto. Andata. Persa.
Il suo dolore mi permea tutti i santi giorni. Vivere così è complicato per uno che cerca di dimenticare.
Lexion invita Samuel a sedersi su una sedia del tavolo, in cucina. La puzza qui dentro è quasi nauseante. Alcune mosche ronzano sugli avanzi della sera prima. Pizza al formaggio e peperoni per me, ali di pollo fritte per Lex. Il fumo di sigaretta si avverte non solo sui vestiti ma persino sulle tende logore alla finestra.
«Pensavo che allontanarvi avrebbe fatto bene a entrambi. Pensavo che qui, a Detroit, avreste potuto ritrovare un po’ di pace, ma mi accorgo che non è così», proferisce Samuel.
Biasimo. Il suo tono contiene quintali di biasimo. Dovrebbe dispiacermi, ma ho raggiunto livelli di menefreghismo così alti, che niente mi scuote, ormai. Detroit non è mai stata la cura. È stata solo il rifugio della bestia, quella che divora me e Lex, la stessa per entrambi: la consapevolezza di aver perso la persona più cara che avessimo.
Lex apre una bottiglia di birra e la versa in un bicchiere offrendola a Sam. «Quando hai detto che saresti venuto, non pensavo fosse per…».
«Un’altra missione?», finisce Samuel per lui. «Ero indeciso se venire o meno, ma siamo nel bel mezzo di una catastrofe grande, molto grande. Rhio parlava di un esercito di uomini potenziati, ricordi? Temiamo che sia davvero così».
«Temiamo? Tu e chi altri?», chiede Lexion.
«Circa una settimana fa ho ricevuto la chiamata di Isacs».
«Il manipolatore mentale? Come te?»
«Lui». Samuel si interrompe, ma quando Lexion non continua, prosegue. «Come ben sai, Isacs lavora per il governo