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L'esercito dei 14 bambini. Fuga impossibile
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E-book343 pagine4 ore

L'esercito dei 14 bambini. Fuga impossibile

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Info su questo ebook

«I fan di questa serie non vedono l’ora di leggerlo.» VOYA

Dopo aver affrontato le terribili minacce di un mondo devastato da tremende catastrofi e intossicato da un gas in grado di ridurre le persone in uno stato bestiale, Dean, Alex e gli altri ragazzi sopravvissuti sono riusciti a mettersi in salvo e a raggiungere il rifugio canadese dove speravano finalmente di trovare un po’ di pace. Alcuni di loro sono riusciti a riunirsi alle loro famiglie e tutti stanno facendo piani per il futuro. Ma ora che Niko ha scoperto che Josie è viva, dopo averla creduta morta tanto a lungo, farà di tutto per ritrovarla. Per Josie, però, le cose vanno di male in peggio. Separata dal gruppo, ha rinunciato a ogni speranza di salvezza. Nel frattempo Astrid, spaventata dall’inquietante interesse che il governo dimostra verso la sua gravidanza, si unisce a Dean, Jake e Niko nella disperata missione di ritrovare Josie. Anche a costo di mettere di nuovo a rischio le loro vite.

Hunger games ha trovato il suo erede

Un’autrice da oltre 300.000 copie

Il mondo là fuori è spietato e pronto a colpire

«Spaventoso e affascinante.»
New York Times

«Ti lascia senza fiato.»
Booklist

«Un ritmo incalzante.»
School Library Journal
Emmy Laybourne
scrittrice, sceneggiatrice ed ex attrice, vive nella periferia di New York City. Il suo esordio nella narrativa, L’esercito dei 14 bambini, si è guadagnato il plauso della critica ed è entrato nella YALSA Teens’ Top Ten. La serie prosegue con Cielo in fiamme e Fuga impossibile.
LinguaItaliano
Data di uscita6 nov 2018
ISBN9788822727107
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    Anteprima del libro

    L'esercito dei 14 bambini. Fuga impossibile - Emmy Laybourne

    Capitolo 1

    Giorno 31. Dean

    Gli occhi fiammeggianti di Niko si sono posati su tutti noi. Uno per uno.

    «Josie è viva!», ha ripetuto. «La stanno tenendo prigioniera nel Missouri!».

    Tutti siamo rimasti di stucco vedendo la foto sul giornale che teneva in mano. Era Josie. Niko aveva ragione.

    «Vado a prenderla. Chi vuole venire?».

    Non sapevo cosa dire. E di sicuro stavo aprendo e richiudendo la bocca a vuoto come un pesce spiaggiato.

    «Controlliamo bene, Niko. Ne sei certo?», ha detto Jake. Da bravo diplomatico, ha fatto un passo avanti e ha preso il giornale.

    «È davvero Josie? Sei sicuro?», ha chiesto Caroline. Tutti i bambini hanno circondato Jake.

    «Aspettate, aspettate, fatemelo appoggiare a terra».

    Jake ha messo il giornale sul lenzuolo che la signora McKinley aveva steso come tovaglia da picnic. Eravamo sul prato a festeggiare il sesto compleanno dei gemellini.

    «È Josie! È Josie, è davvero lei!», ha gridato Max. «Pensavo che fosse morta sotto i bombardamenti!».

    «Attenti a non spezzare la carta!», ha detto Niko. I bambini si stavano spingendo e strattonando per vedere meglio. Luna, la nostra mascotte coperta di pelo soffice e bianco, era tra le braccia di Chloe, e guaiva e leccava la faccia di chiunque fosse a portata di lingua. Era esaltata tanto quanto noi.

    «Qualcuno legga a voce alta, su!», ha piagnucolato Chloe.

    «Potresti chiederlo in modo più educato?», l’ha ripresa la signora McKinley.

    «Qualcuno legga a voce alta, PER FAVORE!».

    Buona fortuna, signora McKinley. Sul serio.

    La signora McKinley ha iniziato a leggere l’articolo. C’era scritto che le condizioni del campo di isolamento del gruppo 0 erano atroci e che i prigionieri venivano maltrattati. C’era scritto che i rifugiati ricevevano aiuti medici insufficienti. C’era scritto che se Booker non avesse conferito il potere di gestire questi campi ai singoli Stati, niente di tutto questo sarebbe successo.

    Ma io mi limitavo a guardare Niko.

    Stava saltellando come se il terreno scottasse.

    Era entrato in modalità azione. Mi resi conto che era proprio quello che gli mancava, lì.

    Niko è un ragazzo che dà il suo meglio quando c’è organizzazione e quando può essere produttivo. Al lussuoso circolo del golf di Quilchena, trasformato in campo di isolamento per rifugiati, c’era molta organizzazione, ma ben poco da fare a parte guardare i vari telegiornali, a ripetizione per ventiquattr’ore, ascoltando le deprimenti notizie provenienti da ogni angolo della nazione, oppure aspettare in infinite code.

    Niko si sta consumando pian piano, logorato dal lutto e dal senso di colpa per aver perso Josie nel tragitto tra Monument e il punto di evacuazione dell’aeroporto internazionale di Denver. E muore dalla voglia di avere qualcosa da fare.

    In quel momento stava pensando di partire in missione per salvare Josie.

    E questo, chiaramente, era completamente assurdo.

    Niko camminava avanti e indietro mentre la signora McKinley finiva l’articolo.

    I ragazzini avevano un sacco di domande. Dov’è il Missouri? Perché Josie nella foto veniva picchiata da una guardia? Quando potevano vederla? Potevano vederla SUBITO?

    Ma Niko ha interrotto il chiacchiericcio con un’altra domanda.

    «Pensa che il capitano McKinley potrebbe portarci fin là?», ha chiesto alla signora McKinley «Cioè, se avesse il permesso, potremmo andarci in elicottero, no?»

    «Penso che rivolgendoci ai canali ufficiali potremmo farla trasferire qui. Cioè, voi ragazzi non potete certo andare laggiù, prenderla e portarla qui», ha detto la signora McKinley.

    Ho scambiato un’occhiata con Alex: evidentemente la signora non conosceva Niko.

    Nella sua testa aveva già preparato lo zaino.

    «Credo che se andiamo io, te e Alex avremo più possibilità di farcela», mi ha detto Niko.

    Astrid mi ha guardato di sbieco. Non preoccuparti, le ho detto con gli occhi.

    «Niko, prima dobbiamo pensarci per bene», ho detto.

    «A cosa dobbiamo pensare? Josie ha bisogno di noi! Guarda, guarda questa foto. C’è un uomo che la sta picchiando! Dobbiamo andare a prenderla ADESSO. Cioè, stasera!».

    Stava iniziando quasi a sbraitare.

    La signora Dominguez ci ha interrotti.

    «Venite, bambini. Andiamo giocare ancora football». Parlava inglese solo un po’ meglio di Ulisse. Ha portato via i bambini, verso il prato. Il figlio maggiore l’ha aiutata, chiamando a raccolta i piccoli e Luna.

    La signora McKinley si è unita a loro, lasciando noi ragazzi grandi – io, Astrid, Niko, Jake, Alex e Sahalia – in piedi accanto alla coperta per il picnic e agli avanzi del banchetto per il compleanno dei gemelli (banchetto che consisteva essenzialmente in un pacchetto di ciambelle coperte di cioccolato e un pacchetto di patatine Cheez Doodles). C’erano anche dei panini al latte e delle mele prese nella Clubhouse – è così che tutti chiamano l’edificio principale della struttura, dove ci sono la mensa, gli uffici e la sala per le attività ricreazionali.

    Astrid sembrava più incinta ogni minuto che passava. Aveva mangiato la sua porzione, la mia porzione, e anche quella di Jake. Adoravo guardarla mangiare.

    Il suo stomaco diventava più grande giorno dopo giorno. Stava letteralmente scoppiando. Le era uscito fuori pure l’ombelico. Adesso se ne stava lì, tutto allegro e rivolto in fuori, a rimbalzare da una parte all’altra.

    I bambini adoravano giocarci, quando Astrid li lasciava fare. E in realtà mi sarebbe piaciuto giocarci anch’io, ma non osavo chiederglielo.

    In ogni caso, i bambini non dovevano sentirci litigare, perciò ero proprio contento che li avessero portati via. La signora McKinley aveva lavorato sodo per organizzare quella festicciola e i gemellini avevano il diritto di godersela.

    Niko ha iniziato a sbattere gli occhi come un pazzo, e sul suo volto abbronzato è scesa una sfumatura rossastra. Una cosa che gli succede solo quando è davvero arrabbiato, altrimenti il suo aspetto è sempre, be’, uniforme. Monotono. Capelli castani dritti, occhi marroni, pelle leggermente olivastra.

    «Non vi importa niente, non riesco a crederci», ha detto. «Josie è viva. Dovrebbe essere qui con noi. E invece è rinchiusa in quel luogo infernale. Dobbiamo andare a prenderla».

    «Niko, è a migliaia di chilometri da qui, oltre il confine», ho ribattuto.

    «E tuo zio?», ha chiesto Alex. «Se ci mettiamo in contatto con tuo zio… magari può andarci lui. Il Missouri non è lontano dalla Pennsylvania. Non quanto Vancouver, almeno».

    «Non funzionerà», l’ha interrotto Niko. «Dobbiamo andare da lei. È in pericolo!».

    «Niko», ha detto Astrid. «Sei solo agitato…».

    «Tu non hai idea di quello che ha fatto per noi!».

    «Invece sì, Niko, lo sappiamo bene», ha detto Alex, mettendogli una mano sulla spalla. «Se non si fosse tolta la mascherina usando la forza del gruppo 0, saremmo morti. E anche se non avesse ucciso quelle persone».

    «Già», ha aggiunto Sahalia. Indossava una salopette da imbianchino arrotolata al ginocchio, con una bandana rossa intorno alla vita. Come al solito aveva un’aria completamente e sorprendentemente glamour. «Faremo tutto ciò che sarà necessario per portarla qui».

    «D’accordo», ha sbraitato Niko. Ha fatto un gesto con le mani come per mandarci via. «Vado da solo. Anzi, è meglio così».

    «Niko, tutti noi vogliamo liberare Josie», ha detto Astrid. «Ma devi essere un attimo ragionevole!».

    «Penso che Niko abbia ragione. Dovrebbe andare a salvarla», ha detto Jake. «Se su questo maledetto pianeta sporco, corrotto e devastato esiste una persona che può andare a salvarla, è Niko Mills».

    L’ho guardato: Jake Simonsen, tutto pulito. Stava prendendo degli antidepressivi. Stava facendo sport. Si stava di nuovo abbronzando. Lui e suo padre poco prima stavano giocando con una palla da football.

    Astrid era felicissima che si stesse riprendendo così velocemente.

    Ho stretto i denti e avrei voluto così tanto dargli un pugno in faccia.

    «Dai, Jake!», ho detto. «Non fare così. Non devi lasciar credere a Niko che sia fattibile. Non può attraversare il confine e arrivare in Missouri e liberarla da quella prigione!», ho continuato. «È una pazzia!».

    «Tipico. Ecco di nuovo il signorino cauto, il signorino prudente!», mi ha attaccato Jake.

    «Non prendertela con me!», ho urlato. «Stiamo parlando della vita di Niko!».

    «Ragazzi, dovete smetterla di litigare!», ha gridato Sahalia.

    «Già, Dean, stai attento. Perché altrimenti diventi 0 e ci attacchi di nuovo».

    Ho fatto due passi avanti ed ero a pochi centimetri dalla sua faccia.

    «Non parlare mai più, MAI più, di me che divento 0», ho ruggito. Il suo sorrisetto sereno è sparito e ho visto che voleva picchiarmi quanto lo volevo io.

    «Siete due deficienti», ha detto Astrid, e ci ha separati. «La cosa riguarda NIKO e JOSIE. Non voi due e le vostre stupide lotte territoriali».

    «In realtà questa dovrebbe essere la festa di compleanno per i gemelli», ci ha ricordato Sahalia. «E noi la stiamo rovinando».

    Ho visto che i ragazzini ci guardavano. Caroline e Henry si tenevano per mano, con gli occhi sgranati, pieni di paura.

    «Ma quanto siete immaturi», ha detto Sahalia. «Datevi una calmata. State per diventare padri, per l’amore del cielo».

    Mi sono tirato indietro.

    Astrid poteva anche pensare che stessi facendo i capricci come un bambino, ma se non mi fossi allontanato in fretta avrei rischiato di prendere Jake e staccargli la testa dal collo.

    La fattoria dello zio di Niko era il sogno ad occhi aperti che regalava a lui, ad Alex e a Sahalia l’energia per tirare avanti giorno dopo giorno. E anche a me e Astrid, in parte.

    Lo zio di Niko vive in una fattoria fatiscente con un frutteto, molto grande ma in disuso, in una zona rurale della Pennsylvania. Niko e Alex avevano in programma di sistemarla e sfruttare al meglio i campi. Per qualche strano motivo pensavano che avremmo potuto viverci tutti quanti, noi e le nostre famiglie. Quando le avremmo trovate, non se.

    Era comunque un bel sogno. Sempre che la fattoria non fosse stata invasa da rifugiati.

    Capitolo 2

    Giorno 31. Josie

    Sto sempre da sola.

    La Josie che si prendeva cura di tutti, quella ragazza è morta.

    È stata uccisa in un boschetto di pioppi vicino all’autostrada, da qualche parte tra Monument e Denver.

    È stata uccisa insieme a un soldato impazzito.

    L’ho uccisa quando ho ucciso il soldato.

    Sono una ragazza piena di una rabbia che minaccia di traboccare in ogni istante della giornata.

    Qui ci siamo noi, gente del gruppo sanguigno 0 che è stata esposta alle sostanze chimiche. Alcuni di noi sono diventati matti.

    Dipende da quanto tempo rimani esposto.

    Io sono stata là fuori per più di due giorni, o almeno, è quello che riesco a ricordare.

    Ogni singolo minuto di ogni singola giornata mi sforzo di mantenere l’autocontrollo.

    Devo montare la guardia contro il mio stesso sangue.

    Vedo che altre persone qui si lasciano controllare dallo 0. Scoppiano delle risse. La rabbia esplode di continuo, basta un’occhiata poco amichevole, un alluce calpestato, un brutto sogno.

    Se qualcuno perde il controllo, le guardie lo rinchiudono in una delle aule studio di Hawthorn.

    Se qualcuno perde il controllo sul serio, e intendo proprio sul serio, le guardie lo portano via e non torna più.

    Siamo un po’ più forti di prima, e questo di certo non aiuta. E più tenaci. Il nostro processo di guarigione è leggermente più rapido della media. Niente di clamoroso, però, ecco, le donne anziane non usano più il bastone per camminare. I buchi alle orecchie si chiudono.

    C’è più energia nelle nostre cellule. Così dicono gli altri prigionieri.

    Lo chiamano il vantaggio 0.

    L’unico che abbiamo.

    Il campo di isolamento per quelli del gruppo 0 nella vecchia università del Missouri è una prigione, non un rifugio.

    Quelli con le vesciche (gruppo A), i pazzi paranoici (gruppo AB) e quelli sterili (gruppo B) sono in campi dove c’è più libertà. Più cibo. Vestiti puliti. La televisione.

    Ma tutte le persone radunate qui a Mizzou hanno il gruppo sanguigno 0 e sono state esposte alle sostanze chimiche. Quindi le autorità hanno deciso che siamo tutti dei criminali (e probabilmente è vero, certamente nel mio caso lo è) e ci hanno rinchiusi qui dentro. Anche i bambini.

    «Sì, Mario», dico quando inizia a borbottare che è una grande ingiustizia. «È davvero illegittimo. Va contro i nostri diritti».

    Ma ogni volta che mi prudono le dita perché vorrei spaccare il naso a qualche idiota, sospetto che abbiano fatto bene.

    Mi ricordo la mia nonnina che parlava della febbre. Me la ricordo seduta al bordo del letto, che mi metteva un panno umido sulla fronte.

    «Nonnina», strillavo, piangevo. «Mi fa male la testa».

    Non lo dicevo a voce alta, ma la stavo supplicando per avere del Tylenol e lei lo sapeva bene.

    «Potrei darti qualcosa, bambina mia, ma poi la tua febbre morirebbe, ed è la febbre che ti rende forte».

    Io piangevo, e anche le lacrime sembravano bollenti.

    «Quando arriva la febbre, ti brucia tutto il grasso dell’infanzia. Brucia la parte inutile del tuo corpo. Ti aiuta a svilupparti. La febbre è molto buona, tesoro mio. Ti rende invincibile».

    Dopo mi sentivo più forte? Sì. Mi sentivo pulita. Mi sentivo resistente.

    La mia nonnina mi faceva sentire come se nel profondo fossi buona, come se fossi incapace di fare qualcosa di sbagliato.

    Sono contenta che la nonna sia morta da tempo. Non vorrei che mi vedesse adesso. Perché la rabbia del gruppo 0 è come una febbre, arriva e ti brucia l’anima. Ti rafforza il corpo, ma la tua mente pian piano viene addormentata dalla sete di sangue. E da quello riesci a riprenderti. Ma dopo che hai ucciso, la tua anima cede. Non resta calma, immobile; no, è come una padella deformata, si agita e trema sul fornello.

    Non riesci più a respirare nello stesso modo perché ogni respiro è quello che hai rubato dai cadaveri in decomposizione, insepolti e indifesi lì dove li hai lasciati a crepare.

    È colpa mia se Mario è qui nelle Virtù con me. Le Virtù sono degli edifici battezzati con nomi che dovrebbero ispirare gli studenti: Eccellenza, Responsabilità, Scoperta e Rispetto. Poi ci sono due sale mensa e altri due dormitori, completamente recintati non da uno, ma da ben due steccati di metallo sormontati dal filo spinato. Benvenuti nella università del Missouri, città di Columbia, edizione post apocalittica.

    Mi ricordo quando io e Mario abbiamo attraversato i cancelli la prima volta. Mi ero chiesta da cosa ci dovessero proteggere. Che stupida.

    Al momento del controllo e dello smistamento, ci siamo placidamente sottoposti agli esami del sangue obbligatori. Avevamo raccontato agli addetti cosa ci era successo. Mario sarebbe anche potuto andare in un altro campo, perché lui è AB. Ma non mi ha voluta lasciare sola. Una guardia, un uomo alto con gli occhi azzurri e pochi capelli, ci ha controllato i documenti.

    Poi ha guardato quelli di Mario.

    «Sei nel posto sbagliato, vecchio», gli ha detto.

    «Questa ragazza è sotto la mia responsabilità. Preferiamo restare insieme».

    La guardia ci ha fissati annuendo in un modo che non mi è piaciuto per niente.

    «Lo preferisci, eh?», ha detto, pronunciando quelle parole molto lentamente. «La ragazzina si è trovata un paparino

    «Suvvia, non c’è motivo di essere rozzi», ha borbottato Mario fissandolo. «Ha quindici anni, è una bambina».

    Il sorriso è scomparso dalla faccia della guardia.

    «Non qui», ha detto. «Qui dentro è una minaccia. Ti do un’ultima possibilità: vattene. Pensi di fare la scelta più onorevole proteggendola? Ma questo campo non è il posto adatto per un vecchio come te. Meglio se te ne vai».

    «Apprezzo la sua preoccupazione, ma resto con la mia amica».

    Non mi è proprio piaciuta quella situazione. Un bullo di un metro e ottanta che fissava dall’alto in basso Mario, un povero vecchietto, come se volesse schiacciarlo, e lui che ricambiava quello sguardo pieno di disprezzo.

    Mi sono agitata, ho iniziato a chiudere e aprire i pugni. E magari ero un po’ nervosa. Spostavo il peso del corpo da un piede all’altro.

    La guardia mi ha stretto la mandibola e mi ha obbligato a guardarlo in faccia.

    «Per quanto sei rimasta là fuori?», mi ha chiesto.

    «È stata all’aperto per poco», ha detto Mario.

    «NON L’HO CHIESTO A TE, VECCHIO!», ha ruggito la guardia.

    Ha stretto la presa, scuotendomi la testa.

    «Io sono Ezekiel Venger, uno dei capi delle guardie qui. Ora dimmi, quanto sei stata fuori?»

    «Non me lo ricordo», ho detto.

    Mi ha lasciato andare.

    «So che tu porti guai, Signorina Quindici Anni. A me basta un’occhiata per intuire chi è pericoloso. È per questo che mi hanno messo al comando. Meglio se stai attenta. Non ti darò tregua. Non ti perderò d’occhio neanche per un secondo».

    «Signorsì signore».

    Lo capisco al volo, quando è il caso di chiamare un uomo signore.

    Chiami un uomo signore se lo rispetti. Se è più anziano di te. Se è in una posizione di comando. Se ha un manganello e un caratteraccio.

    Mario è il mio unico amico.

    Pensa che io sia una brava persona. Si sbaglia, ma non lo contraddico. Mi giura che crede in me.

    Condividiamo una doppia con altre quattro persone. Mario non sta proteggendo solo me. Si è offerto volontario per aiutare quattro ragazzi, ed è per questo che gli permettono di stare con noi, qui al secondo piano del dormitorio Eccellenza. In tutte le altre stanze del secondo piano ci sono solo donne e bambini.

    Al primo piano invece ci sono solo uomini. È dura stare lì.

    Condivido il letto con Lori. Ha i capelli castani e la pelle bianca e giganteschi occhi marroni che a volte hanno un’aria così triste che vorrei darle un pugno in faccia.

    Mi ha raccontato la sua storia. È di Denver. Lei e i suoi genitori si erano nascosti nel loro appartamento ma a un certo punto hanno finito le scorte. Quando sono riusciti ad arrivare all’aeroporto, l’evacuazione era già iniziata. Erano tra gli ultimi, quindi appena sono scoppiate le sommosse – con tutti che si graffiavano, si picchiavano e si calpestavano a vicenda mentre il cielo sopra Colorado Springs si incendiava – sua madre è rimasta uccisa. Poi suo padre è caduto tra la scaletta e il portellone dell’aereo mentre la spingeva dentro.

    Non volevo sentire la sua storia. Volevo che tutto mi scivolasse addosso, come gocce d’acqua sulla carta cerata. E invece le sue parole mi sono rimaste dentro. Acqua, acqua, acqua, Lori è tutta acqua.

    Si accoccola contro di me di notte, piange e bagna tutto il cuscino.

    Lo so, lo so che dovrei consolarla. Non ci vorrebbe molto. Basterebbe… cosa? Una pacca sulla schiena. Un abbraccio.

    Ma dentro di me non c’è più compassione.

    Come ho già detto: Josie è morta.

    Che cosa le do? Il calore del mio corpo addormentato. È tutto ciò che può avere. Una fuoriuscita di calore.

    Dovrei dirvi anche degli altri tre. Sì, dovrei nominarli. Parlarvi di loro, descrivervi che faccia hanno e raccontarvi dei loro sorrisi dolci e spaventati e di come Heather mi ricorda Batiste, con il suo volto ovale così sincero e serio. È mezza asiatica. E dovrei dirvi anche che uno dei ragazzi sbaglia sempre le parole. Milonata per limonata. Mippelliedi per millepiedi. Filo spumato per filo spinato. È così tenero, innocente, fastidioso, traumatizzato. Dolce, esigente, perso e presente. Non c’è niente che possa fare per loro e non voglio averci nulla a che fare.

    Ogni giorno rimpiango che Mario li abbia accolti qui. Gli orfani del gruppo 0.

    Ma prima dovevano cavarsela da soli e tutti li maltrattavano. In fondo so che ha fatto la cosa giusta.

    Non dovrebbero esserci bambini qui dentro.

    Se non ho capito male, il governo ci ha portati qui, ma è lo Stato del Missouri a gestire il campo. La gente del posto non vuole che ci liberino, e non vuole nemmeno pagare per garantirci una sistemazione decente. Il governo è lento, non ci dà quello di cui abbiamo bisogno.

    Risultato: non ci sono abbastanza guardie, non c’è abbastanza cibo, non c’è abbastanza spazio, e non ci sono abbastanza cure mediche. E non ci permettono di andarcene.

    Quando siamo arrivati c’erano delle petizioni che giravano per il campo. La gente chiedeva che gli 0 stabili venissero separati da quelli criminali. Ma le guardie hanno dato il tormento a chi raccoglieva le firme.

    Ora siamo tutti qui in attesa.

    Ogni settimana girano voci e pettegolezzi, dicono che ci rilasceranno.

    La speranza è pericolosa. Ti tiene sveglio il cuore.

    Devo stare attenta agli uomini. Perché alcuni di loro ti toccano.

    Non sono tanto preoccupata per quello che potrebbero fare a me: ho paura di quello che io potrei fare a loro.

    Qui non è il caso di finire nei guai.

    Accanto alla recinzione qualche giorno fa c’è stato un tafferuglio. Alcuni giornalisti hanno deciso di chiederci com’è la vita dentro il campus. Ci urlavano delle domande da fuori.

    Ho implorato Mario di tenersi lontano. Ma lui ha insistito. Diventa tutto rosso in faccia quando parla di come ci trattano qui. Chiede giustizia e vuole che i suoi diritti vengano rispettati mentre io voglio solo andarmene.

    L’ho accompagnato verso i cancelli, perché sapevo che ci sarebbero stati dei disordini, e infatti così è stato.

    Ci saranno stati almeno venti prigionieri in piedi, che urlavano a una decina di giornalisti, che a loro volta gridavano cose tipo: «C’è violenza lì dentro?», «Pensate che i vostri diritti siano stati violati?», «È vero quello che si dice sulle lotte tra gang?», «Siete in pericolo?».

    Alcuni dei prigionieri urlavano le risposte. Altri gridavano cose come: «Andatevene via!», «Per favore mettetevi in contatto con mio zio! Vi darà una ricompensa!» e «Per l’amore di Dio, aiutateci!».

    Poi sono arrivate due jeep per allontanare i giornalisti e sono uscite due guardie, con i fucili semiautomatici caricati a proiettili sedativi.

    C’era anche Venger.

    Ho notato la gioia sul suo volto non appena ha visto che io e Mario eravamo lì davanti alla recinzione. Le guardie si sono fatte largo tra la folla di prigionieri, tirandoli via dalla recinzione e spingendoli verso i dormitori.

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