Morte sul Rainier
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Anteprima del libro
Morte sul Rainier - Luigi De Conti
Monte Everest - Maggio 2017
1
Aaron Fischer non era lucido. Stava riscendendo da quello che fino a qualche anno prima era l’Hillary Step perdendo la cognizione del tempo; la mancanza di ossigeno a quella quota, appena sotto i novemila metri, e la stanchezza di quasi venti ore di scalata e discesa nel tentativo di raggiungere la vetta, lo avevano lasciato praticamente senza forze. L’ultima bombola d’ossigeno si era svuotata da quella che gli sembrava ormai un’eternità e, in mezzo alla bufera, non era riuscito a trovare quella di riserva che si trovava lungo il percorso.
La tempesta era arrivata all’improvviso, come spesso accadeva su quella stramaledetta cima. Ancora una volta non era riuscito a raggiungere la vetta. E ora, al buio, con il vento urlante che lo sballottava da una parte all’altra con una potenza inaudita, i piedi al limite del congelamento, la gola in fiamme e le gambe che parevano di piombo, non era nemmeno sicuro di aver preso la direzione giusta per il campo IV. L’unica luce era la torcia in dotazione fissata sulla parte anteriore del casco di sicurezza, coperto a sua volta dal cappuccio del giaccone d’alta montagna.
Non riusciva a pensare a nulla, tranne che a continuare a scendere, poi, all’improvviso, una forma a cupola parve spuntare da un mucchio di neve in mezzo alla tempesta.
Una tenda!
Era forse un’allucinazione?
La mancanza di ossigeno poteva provocare pericolosi e alquanto fatali scherzi, in una situazione simile. Ma ecco comparire una seconda tenda, e poi un’altra ancora, man mano che avanzava trascinandosi a fatica, un passo alla volta, respiro dopo respiro.
Il campo IV! Finalmente!
«Sono Fischer! Sono qui!» provò a gridare. Ma a causa del vento non riusciva nemmeno a sentire la propria voce. O forse l’aveva persa. Magari stava delirando.
Proseguì in stato confusionale in mezzo al campo mentre il vento continuava a prendere a schiaffi le basse tende monoposto, che sembrava volessero volare via da un momento all’altro. Una luce si accese all’interno di una di esse e qualcosa si mosse. Uscì una figura che corse verso di lui. Aaron non la riconobbe subito.
«Cristo Santo, Aaron! Dov’è Mike? Dov’è Mike?» diceva quella voce femminile.
Era Jennifer, la moglie di Mike.
«Dov’è Mike?» continuava a chiedergli mentre lo accompagnava alla sua tenda e gli sistemava una maschera d’ossigeno sul viso.
Dov’è Mike? Gli pareva ancora di sentire quelle parole mentre si assopiva, sfinito, nella propria tenda.
Dov’è Mike?
San Diego - California, 2019
2
Colin Tolman parcheggiò la sua berlina nera di fronte a una serie di villette dal tetto spiovente. Si trovava in un quartiere costruito per le famiglie dei militari che prestavano servizio nella Marina statunitense che a San Diego aveva una delle basi più importanti.
Era una calda mattina estiva ma l’uomo se ne ricordò solo dopo aver abbandonato l’abitacolo climatizzato della sua vettura.
Tolman era un giornalista dell’American Enquirer, un tabloid scandalistico/investigativo che ultimamente stava vendendo piuttosto bene.
Non molto alto, sui quarant’anni, capelli quasi completamente rasati per mascherare l’abbondante stempiatura, era in maniche di camicia, senza cravatta.
Salì i pochi metri del viale che lo separavano dalla villetta situata in una posizione leggermente elevata rispetto alla strada, e arrivò davanti al massiccio portone d’ingresso. Il numero civico era quello corretto e suonò il campanello.
Un signore anziano, magro e leggermente incurvato, gli aveva aperto la porta sorreggendosi a un bastone.
«Il signor Tolman, presumo. Che piacere conoscerla.»
«Piacere mio, signor Stevens» gli rispose Tolman.
L’anziano signore l’aveva fatto accomodare nel salotto e poi si era lasciato cadere sul divano. Il giornalista si accomodò su una poltrona alla sua destra.
«Siamo soli in casa. Ospito i miei nipoti da qualche anno dato che, da quando mia moglie mi ha lasciato, questa casa è diventata improvvisamente troppo grande e vuota. Mia nipote Annie ha preparato dei biscotti per l’occasione, si serva pure» disse l’anziano, che doveva aver passato da poco i novanta, indicando un piattino sul tavolino al centro del salotto.
Tolman ringraziò e prese un biscotto, che portò alla bocca.
«Ho anche del tè freddo o del caffè. Quale gradisce?»
«Caffè, grazie.»
Stevens, con la mano leggermente tremolante, prese la caraffa del caffè di fianco al vassoio dei biscotti e ne versò un poco in una tazza.
«Ecco a lei» disse, spingendo la tazzina verso il suo ospite.
«Molto gentile» rispose cortesemente Tolman, sorseggiandone il contenuto. Al caffè mancava un po’ di zucchero, ma il giornalista non disse nulla per non sembrare scortese.
«Allora, mi dica. Ci sono buone notizie?» chiese impaziente il padrone di casa.
Stevens era un ex Marine in pensione, membro di un’associazione creata dai familiari delle vittime di un incidente aereo del 1946. Un Curtiss C-46/R5C Commando precipitò in quell’anno nei pressi del Monte Rainier, nello stato di Washington, durante il trasferimento di alcuni Marine da San Diego a Seattle.
Il Monte Rainier era un vulcano spento dalla cima piatta, che lasciava intravedere l’antica caldera a circa 4300 metri d’altezza. A causa delle pessime condizioni atmosferiche, il velivolo si era schiantato sulla montagna provocando la morte delle trentadue persone presenti a bordo. Il capitano Jonathan Stevens, fratello maggiore dell’anziano padrone di casa, era su quell’aereo.
Il mal tempo, che imperversò nella zona per cinque lunghi giorni, impedì ai soccorsi una ricerca immediata, ricerca che si rivelò poi comunque inutile. Eccezion fatta per alcuni cadaveri, avvistati in una zona impervia assieme a una parte dei rottami, la carlinga dell’aereo e il resto dei corpi non erano mai stati ritrovati.
Negli anni che seguirono lo schianto, lo stesso Stevens, supportato da un certo numero di volontari e guide locali, si era recato più volte sul Rainier alla ricerca del relitto. Nonostante la determinazione e la testardaggine, quegli sforzi si erano però rivelati infruttuosi e, con l’avanzare dell’età, si era quasi definitivamente rassegnato. Finché, l’anno precedente, un alpinista che si era perso in quei luoghi durante una tempesta, per poco non finì inghiottito in un profondo crepaccio dove, era pronto a giurare, aveva intravisto la carlinga di un aereo.
Stevens era uno degli ultimi parenti diretti delle vittime ancora in vita e quella notizia gli aveva ridato speranza. Così, non ci pensò due volte a contattare alcuni giornali raccontando loro una storiella interessante: suo fratello gli aveva confidato di avere rinvenuto certi documenti segreti alquanto compromettenti, che aveva deciso di portare con sé, su quel volo, per consegnarli a un suo contatto di Seattle.
Tante persone, per troppi anni, avevano sofferto per non aver avuto dei corpi da seppellire. Occorreva attirare l’attenzione dei media in qualche modo. Tuttavia, nessuna rivista o tabloid sembrava interessarsi a quella storia. Soltanto Colin Tolman lo aveva contattato telefonicamente per saperne di più.
Quel giorno, il giornalista era partito da Los Angeles per andarlo a trovare di persona.
«Come le ho anticipato per telefono, il mio giornale ha deciso di finanziare una piccola spedizione sul Rainier alla ricerca del relitto. Stiamo contattando una mezza dozzina di persone esperte del settore per andare lassù a cercare ciò che è rimasto del velivolo che trasportava suo fratello e gli altri componenti della stessa divisione.»
«Non so cosa dire. Davvero…» l’anziano pareva sinceramente commosso. «Dopo tutti questi anni… Ancora non ci posso credere.»
Stevens, con gli occhi lucidi, si portò la mano tremante davanti alla bocca, quasi con l’intenzione di morderla. L’emozione stava per prendere il sopravvento.
«Mi scusi» intervenne il giornalista. «Riguardo a quei documenti segreti che suo fratello avrebbe avuto con sé quel giorno, mi saprebbe dire qualche cosa di più?»
«Mi dispiace, nulla di più di quello che le ho accennato per telefono. Mio fratello Jonathan mi confidò di essere in possesso di alcuni incartamenti segreti. Non so nemmeno di preciso come se li fosse procurati. So solamente che aveva avuto qualche contatto con alcuni agenti dell’O.S.S., il servizio segreto della Marina, durante la seconda guerra mondiale e che voleva mostrarli a un suo amico, un ufficiale dei Marine a Seattle, del quale si fidava ciecamente, avendo combattuto insieme, fianco a fianco, in Normandia nel ’44.»
«Capisco… e tranne lei, nessun altro era a conoscenza di questo fatto?»
«No. Trattandosi di materiale top secret aveva preferito non parlarne nemmeno con la moglie.»
Il giornalista, intanto che l’ascoltava, pescò dal vassoio un altro biscotto.
«Povera donna» riprese l’anziano «rimanere vedova così giovane. Per fortuna poi si è risposata, trasferendosi in Canada, credo. Non so nemmeno se sia ancora viva.»
Colin Tolman, finito anche quel caffè troppo amaro, gettò una rapida occhiata al proprio orologio. Poi aggiunse: «Ovviamente non posso garantirle nulla, ma se nella zona segnalata c’è davvero il relitto, stia certo che faremo tutto il possibile per ritrovarlo».
Il giornalista guardò ancora una volta il proprio orologio da polso. «Si è fatto tardi, purtroppo. Devo tornare a Los Angeles.»
Si alzò, facendosi forza sulle ginocchia.
L’anziano padrone di casa fece lo stesso, reggendosi sul bastone, poi allungò la mano verso il giornalista per stringergliela.
«È stato un piacere conoscerla, signor Tolman.»
«Piacere mio» rispose l’altro, contraccambiando il gesto. «E non si preoccupi: lei sarà il primo che contatterò una volta ritrovato il velivolo.»
Matthew Stevens aveva le lacrime agli occhi quando chiuse la porta d’ingresso. Fino a poche settimane prima temeva di morire senza poter dare una degna sepoltura al fratello. Ora sperava in un diverso epilogo.
Un’ora e mezza dopo Tolman guidava già sulla highway in direzione Los Angeles. Fumava una sigaretta rollata a mano ed era pensieroso.
Quella che aveva per le mani poteva davvero essere una grande storia da raccontare, l’occasione della vita per aggiudicarsi un Pulitzer e provare a farsi ingaggiare da un tabloid un po’ più rispettabile del clone della costa occidentale del National Enquirer, oltre a essere la circostanza ideale per liberarsi dal ricordo delle sue ex mogli, permettendogli finalmente di ricominciare una nuova vita.
Magari correva un po’ troppo ma, in fondo, per quale motivo doveva smettere di fantasticare? Quello poteva rivelarsi lo scoop della sua carriera. Si rifiutava di pensare che quell’anziano e distinto signore, a distanza di così tanti anni da quel disastro aereo, potesse essersi inventato un racconto tanto inverosimile.
Aspirò l’ultima boccata di fumo e spense la sigaretta nel posacenere dell’auto. Provò a pensare a qualcos’altro ma continuava a immaginare se stesso mentre ritirava il Pulitzer.
Che idiota!
Yosemite National Park
3
J.J. conosceva quella parete rocciosa come le sue tasche, anzi meglio. Non poteva dire la stessa cosa del ragazzo che stava istruendo e che si trovava una decina di metri più in alto.
Jennifer Jones Mitchell, durante la stagione estiva, si guadagnava da vivere facendo da guida ai turisti più esperti e insegnando le basi dell’arrampicata a quelli più sprovveduti presso lo Yosemite National Park, un’area naturale protetta