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Sopravvissuti alla Nebbia
Sopravvissuti alla Nebbia
Sopravvissuti alla Nebbia
E-book419 pagine6 ore

Sopravvissuti alla Nebbia

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Info su questo ebook

Sopravvissuti alla Nebbia è un romanzo post apocalittico che ha per protagonisti quarantotto adolescenti di un campo estivo nella Sierra Nevada. Quando i telefoni cellulari smettono di funzionare e la posta non arriva più, la direttrice decide di assentarsi brevemente dal campo insieme a tre degli animatori, per andare a prendere la posta e scoprire perché i cellulari non prendono. Non faranno mai più ritorno. Lentamente, i ragazzi si rendono conto che dovranno arrangiarsi da soli. Uno di loro, Mike, capisce che nel mondo è accaduto qualcosa di spaventoso e convince un gruppetto di ragazze e ragazzi che è necessario prepararsi per sopravvivere: cercare cibo e acqua, costruirsi un rifugio per l’inverno e trovare il modo di fabbricare delle armi.

Non tutte le sue iniziative riscuotono successo tra gli altri ragazzi, ma quando il campo estivo si ritrova sotto attacco, tutti capiscono che ha ragione. Lo eleggono capo e si preparano con lui per cercare di sopravvivere. Questo libro ripercorre soprattutto la storia della costruzione del loro rifugio e delle relazioni che nascono tra i ragazzi e gli sconosciuti che si troveranno a incontrare.

LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2020
ISBN9781393295587
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    Anteprima del libro

    Sopravvissuti alla Nebbia - Stan Morris

    Sopravvissuti alla Nebbia

    di Stanley Morris

    Prologo

    Viaggiano nello spazio percorrendo un’orbita tutta loro, diversa da quelle dei pianeti, delle stelle o delle galassie. Le loro colonie si espandono per migliaia di anni luce e non hanno forma: possono essere allungate o circolari, perfino cubiche; possono assumere forme complesse, come tovaglioli di carta arrotolati.

    Possono essere individuati, ma solo attraverso le tecnologie più sofisticate e solo dalle civiltà più avanzate. Altrimenti, sono invisibili e impossibili da riconoscere.

    Possono essere uccisi. A volte entrano nella scia di una stella e si bruciano. Altre volte si dissolvono, perché hanno vagato nel vuoto cosmico per troppe centinaia di anni. Altre volte ancora, entrano in contatto con i raggi gamma di una stella in esplosione e vengono resi sterili. Succede lo stesso anche se una civiltà avanzata li individua e riesce a comprendere che cosa sono.

    Non possono procreare da soli. Hanno bisogno di un ospite. È necessario che una stella di uno sventurato pianeta, con ossigeno e acqua, entri nella loro rete. Anche quando sono abbastanza fortunati da infettare un pianeta del genere, impiegano anni a fondersi all’atmosfera. Durante questo processo, si camuffano da agenti inquinanti. Ma una volta amalgamati all’atmosfera, ci mettono poco a diventare semi-solidi. Gli bastano appena ventiquattr’ore.

    Capitolo Uno – Qualcosa non va

    «C’è qualcosa che non va,» disse Mike.

    «Poco ma sicuro,» rispose John.

    I due ragazzi erano seduti a gambe incrociate su una sporgenza pianeggiante dentro un avvallamento, su una parete di roccia granitica della catena della Sierra Nevada meridionale. La si sarebbe potuta definire una caverna, ma era completamente scoperta, a parte un grosso antro sul lato occidentale. La sporgenza si estendeva per molti metri da sotto la roccia e il sole di maggio inoltrato cercava di spandere i suoi raggi fin dentro la cavità, ma i due ragazzi si erano spinti così in profondità che il calore raggiungeva appena i loro piedi.

    «Pensi che torneranno?» chiese Mike.

    «Perché non dovrebbero?»

    Davanti a loro un lungo pendio, rivestito di un manto d’erba verde, si inclinava dolcemente fino a un fiume che scendeva a valle da est. L’acqua fredda scorreva rapidamente verso occidente attraverso la valle, per scomparire in mezzo agli imponenti abeti verdi e proseguire per chilometri ancora, fino a sfociare nelle cascate della valle centrale della California meridionale. Il fiume era largo, troppo per saltare da una parte all’altra, e troppo veloce per poterlo guadare.

    «Magari hanno avuto un incidente,» azzardò Mike.

    «E se Jackie avesse ragione?» rispose John. «Forse la strada è bloccata e non riescono a tornare.»

    Sulla riva più vicina si trovavano le cinque casette di legno del campo dei ragazzi più la mensa, dal tetto in lamiera ondulata, e l’alloggio con il tetto spiovente fino a terra, riservato alla direttrice. Uno stretto ponticello in legno attraversava il fiume. Dall’altra parte c’erano le cinque casette restanti, ovvero i bungalow delle ragazze, il parcheggio, dov’era posteggiato un lungo scuolabus giallo, e l’imbocco di una strada sterrata che andava a sud-est su per una collinetta, poi giù a sud attraverso le montagne, fino a raggiungere una strada asfaltata diretta a sud-ovest, verso Bakersfield.

    «Forse sono andati a finire in un canyon con il fuoristrada. Forse sono tutti morti.»

    John si imbronciò. «Vorrei che la smettessi di dire queste cose,» borbottò. «Quando arrivano dovremo sorbirci le loro tiritere. Ci costringeranno a divertirci. Non potresti semplicemente rilassarti e goderti la giornata? Dai un’occhiata al panorama da qui, Mike. Guarda, Desi sta uscendo dalla doccia. Wow!»

    A volte sembrava di stare in un contenitore, una specie di scodella oblunga che andava da est a ovest, con il campo situato in cima alla parte orientale. All’altra estremità si trovava un grande prato attraversato dal fiume. Il prato, costellato di violette, calendule e centocchio, si estendeva per la maggior parte sul lato occupato dalle ragazze. Tutto intorno alla scodella si stagliavano le montagne cesellate della Sierra Nevada, con le loro cime brulle ricoperte da neve bianchissima. Più in basso, boschi di pini coda di volpe punteggiavano i declivi e vicino al campo crescevano alberi dai coni setolosi e pini dalla corteccia bianca.

    «Quando credi che torneranno?» chiese Mike.

    «Non lo so» borbottò John, mentre la bella ragazza che stava osservando scompariva dentro il suo alloggio.

    Tutto era iniziato quasi una settimana prima. Il primo indizio che qualcosa non andava arrivò quando il vecchio furgoncino dell’ufficio postale non aveva fatto la consegna quotidiana della posta, che di solito i ragazzi ricevevano dai loro apprensivi genitori. Quella stessa mattina, la radio del campo e i loro telefoni cellulari avevano dato problemi: per qualche strana ragione, non riuscivano a contattare il mondo fuori dalla valle.

    Dopo qualche giorno in quelle condizioni, la direttrice del campeggio aveva deciso di percorrere i quasi cinquanta chilometri verso l’ufficio postale più vicino, per prendere una radio di riserva e raccogliere la posta accumulata. Tre dei quattro animatori si erano offerti di accompagnarla, concedendosi una meritata tregua da quel branco di scalmanati. Data la stradina tortuosa, contavano di impiegare poco più di due ore tra andata e ritorno. Avevano lasciato la quarta animatrice, la ventenne Jackie, a bada dei quarantotto adolescenti. Erano passati cinque giorni. Da allora, non c’era più stata traccia degli adulti e anche quel giorno il furgoncino delle poste non si era visto.

    La prima notte dalla scomparsa della direttrice e degli animatori, Jackie aveva insistito che si trattasse di un ritardo e che tutti dovevano andare a letto come al solito. La sera successiva, aveva ipotizzato che con tutta probabilità una frana avesse bloccato la strada e che gli adulti sarebbero tornati non appena la via fosse stata sgombrata. Da quel momento era cominciata l’attesa.

    «C’è qualcosa che non va,» ripeté Mike.

    «Già, ma cosa?»

    Mike aveva tredici anni, John quasi sedici. Il primo aveva la pelle chiara, i capelli biondicci ed era un po’ bassino per la sua età. L’altro aveva i capelli neri, tratti ispanici e pelle olivastra, ed era alto trenta centimetri in più. Nonostante la differenza di età i due, tipici adolescenti californiani, avevano fatto amicizia in breve tempo il primo giorno.

    «Eric sa usare il radiotelefono. Chiediamogli di chiamare qualcuno,» propose Mike.

    «Sì, ma il radiotelefono è nella casetta della direttrice, che è chiusa a chiave.» Mike fissò John. «È passata una settimana ed è chiaro che qualcosa è andato storto. A Jackie probabilmente non interessa se ci entriamo.»

    Sentendo quelle parole, John si scoraggiò. Jackie aveva passato i primi tre giorni cercando disperatamente di distrarli dalla scomparsa degli adulti, poi si era fatta taciturna e aveva smesso di sforzarsi di fingere che tutto andasse bene. Quella mattina si era rifiutata di alzarsi dal letto per un bel po’, poi, una volta in piedi, non aveva mai lasciato l’alloggio delle animatrici.

    «A Jackie non importa,» ripeté Mike. «Andiamo a parlare con Eric.»

    Lo trovarono nella sala mensa. La struttura in mattoni di cemento era per un quarto occupata dalle cucine, mentre i restanti tre quarti erano adibiti a sala da pranzo, con un ampio palco sul lato orientale. La cucina consisteva in un grosso frigorifero a propano, un forno con un fornello e due grandi congelatori. Nella sala si trovavano numerosi tavoli lunghi e sedie di plastica bianca.

    Eric sedeva su una di queste, immerso nella lettura di un libro tascabile, i piedi appoggiati su uno scatolone di cartone. Si dondolava avanti e indietro sulle gambe posteriori della sedia, che minacciava di ribaltarsi da un momento all’altro. Era un piccoletto afroamericano, più o meno dell’età di Mike, con i capelli corti e ricci. Molti degli altri ragazzi del campo lo consideravano un nerd, per via della sua passione per le scienze e la fantascienza.

    Lo scatolone su cui poggiava i piedi era uno dei tanti impilati alla parete della mensa, quella senza finestre che dava a nord. Contenevano pacchi di preservativi, diaframmi, pillole e altri anticoncezionali. Quella roba era lì per gli scopi didattici del campo.

    Il campo era un’idea di un’organizzazione religiosa chiamata Astinenza e Protezione. L’AEP, come veniva abbreviata, lo aveva creato per promuovere il valore dell’astinenza dal sesso, ma anche per educare i bambini delle scuole medie e i ragazzi delle superiori all’uso degli anticoncezionali. Quell’anno, l’organizzazione progettava di tenere diversi campi di tre settimane l’uno. I ragazzi di quel gruppo facevano parte della prima sessione. Al momento di tornare a casa, gli sarebbero stati lasciati alcuni diaframmi e qualche preservativo, con l’idea che avrebbero raccontato ai loro amici quello che avevano imparato.

    La direttrice del campo era un medico. Per le ragazze che avessero già compiuto sedici anni, con il consenso dei genitori, erano a disposizione pillole anticoncezionali e visite mediche. Ma la vera enfasi del campo era sull’astinenza, non solo per questioni morali, ma perché i creatori di AEP ritenevano che nella società contemporanea le ripercussioni emotive dei rapporti sessuali fossero troppo difficili da gestire per gli adolescenti.

    Quando Mike e John entrarono nella sala da pranzo, Eric mise da parte il vecchio libro stropicciato e riprovò a far funzionare il cellulare, ma non ottenne altro che il messaggio nessun servizio telefonico.

    «Che stai leggendo, nerd?» chiese John.

    «La via delle stelle», tagliò corto Eric. John non gli era granché simpatico.

    «Fantascienza?» chiese John.

    «Già. Roba parecchio vecchia. Tipo dei tempi di Verne e Wells.»

    «Tu sai usare il radiotelefono, vero Eric?» chiese Mike.

    «Sì, se non fosse chiuso dentro il bungalow della direttrice,» replicò Eric, «idiota,» aggiunse sottovoce.

    Mike e John si scambiarono uno sguardo, poi John prese fiato e si rivolse a Eric.

    «Andiamo.»

    «Dove?» chiese Eric, confuso.

    «Dai, su,» ringhiò John, guardandolo con il tipico sguardo da grande.

    Come tutti i ragazzi più piccoli, Eric conosceva quello sguardo. Fece spallucce, si alzò in piedi e andò dietro a Mike e John, che si dirigevano verso l’alloggio della direttrice. Qui, Mike e John si misero a studiare il massiccio lucchetto che bloccava l’entrata.

    «Pensi di riuscire a sfondare la porta con la spalla?» chiese Mike.

    «Penso che mi sfonderei la spalla,» rispose John, guardando torvo Mike. Eric alzò gli occhi al cielo e attese paziente.

    «Potremmo rompere una finestra,» suggerì Mike.

    «Ehi!» esclamò Eric. Gli altri due lo guardarono storto.

    «Hai un’idea migliore?» domandò John.

    Lo sguardo di Eric passò da John a Mike. Chinò la testa e strusciò un piede a terra. «C’è una chiave sotto lo zerbino,» mormorò.

    John gli rivolse un’occhiata minacciosa, poi sollevò il tappetino e afferrò la chiave. Aprì la porta ed entrò, seguito da Mike. Qualche istante dopo entrò anche Eric, dopo essersi guardato nervosamente intorno per assicurarsi che nessuno li avesse visti.

    L’edificio, il cui tetto arrivava fino a terra, consisteva in una zona soggiorno sotto un ampio soppalco, a cui si accedeva da una ripida scala sul retro. C’erano un letto matrimoniale e un lavandino alimentato da un piccolo tubo dell’acqua, collegato al condotto principale che serviva la mensa. Il condotto, fatto di tubi in PVC, arrivava direttamente dal fiume. Appena prima del punto di raccordo, dove le due tubature si collegavano, era piazzato un grande filtro lavabile. La gravità esercitava la pressione necessaria per far funzionare gli acquai delle cucine, i lavandini dei bagni e le docce nell’edificio della mensa, mentre al lavandino dell’alloggio era collegata una pompa solare.

    Nel bungalow non c’era il bagno. La direttrice usava un wc chimico portatile proprio come i ragazzi, ma ne aveva uno riservato solo a lei e alle animatrici. Il resto dell’arredamento consisteva in un divanetto, due sedie e una grande scrivania. Sul retro della casetta c’era una voluminosa cassetta degli attrezzi rossa appoggiata al muro. Il radiotelefono, con circuiti per varie bande di frequenza, era appoggiato sulla scrivania.

    John lo passò a Eric, che lo accese e cominciò a provare le frequenze una per una. Nonostante qualche rumore sospetto, non furono in grado di isolare niente che somigliasse a una voce vera e propria. Per ogni frequenza, Eric chiese se c’era qualcuno che lo sentiva. Le provò tutte più di una volta, ma dopo mezz’ora dovette arrendersi.

    «Magari è rotto,» disse John.

    Eric lo guardò corrucciato.

    «Non credo,»

    «Allora perché non riusciamo a sentire nessuno?» chiese Mike.

    Eric inspirò profondamente, rivolse uno sguardo a Mike, poi lo distolse preoccupato.

    «Forse... forse non c’è nessuno da sentire?» chiese, ma il suo volto lasciava intendere che sarebbe stato felice di essere preso in giro per quell’idea.

    Era esattamente il pensiero che Mike aveva evitato per tutta la settimana. Alzati, gioca, metti a posto, mangia, gioca un altro po’, poi a letto. Aveva seguito la routine del campo. I grandi sarebbero tornati. I suoi genitori erano a casa. Aveva evitato di considerare qualsiasi scenario diverso da quello. Ma ora doveva affrontare una spaventosa alternativa.

    «C’è qualcosa di molto sbagliato,» disse con la voce che gli tremava.

    «Già,» concordò John, anche lui con sguardo e voce cupi.

    «Secondo voi i nostri genitori stanno bene?» bisbigliò Eric, con lo stomaco sottosopra. Mike avrebbe preferito che si fosse tenuto quella domanda per sé.

    «Dobbiamo fare qualcosa,» disse.

    «Andiamo a parlare con Jackie,» propose John.

    «D’accordo,» replicò Mike, ma in cuor suo non era convinto che Jackie ne sapesse più di loro.

    Lasciarono l’alloggio della direttrice, superarono la mensa e attraversarono a piedi il ponticello di legno che portava al campo delle ragazze. Eric li seguiva in silenzio, Mike e John lo ignoravano.

    Ogni lato del campo aveva un bungalow riservato agli animatori, che ne condividevano uno in due. Non avevano i letti a castello che usavano i ragazzi, ma dormivano in comodi letti a due piazze. I tre adolescenti trovarono Jackie sdraiata sul letto, sopra le coperte, intenta a fissare il soffitto di tela. Anche se tutti si erano portati un sacco a pelo, i letti avevano il materasso, due lenzuola e due pesanti coperte di lana verdi. Alcuni avevano preferito usare comunque il sacco a pelo, altri invece avevano approfittato delle coperte.

    «Ehi, Jackie,» disse John.

    La giovane lo guardò con un’espressione vuota sul suo bel viso. Era una biondina di corporatura snella. Di solito era piuttosto vivace, ma ora aveva gli occhi e la faccia gonfi ed emanava un odore vagamente sgradevole.

    «Ehi, voi,» rispose lei voltandosi, per poi tornare a fissare il soffitto. I ragazzi si guardarono.

    «Ehm, Jackie, quando pensi che tornerà la direttrice?» chiese John.

    «Quando torna, torna,» disse Jackie con voce spenta. Aveva sentito spesso questa domanda, da quando gli altri adulti erano scomparsi. Chiuse gli occhi. John guardò Mike disperato.

    Mike prese fiato, poi parlò con fermezza. «Jackie, noi pensiamo che ci sia qualcosa che non va. Qualcosa è andato storto, di brutto.»

    «Non c’è niente che non va. Ora via di qui.» Più che severa, la sua voce sembrava disperata.

    «Ma Jackie, Eric ha cercato di contattare qualcuno via radiotelefono. Non c’è nessuno là fuori!» nel tentativo di farsi ascoltare, la voce di Mike si era alzata e ora virava al panico.

    «State alla larga dall’alloggio della direttrice!» sbottò Jackie. «Ora andatevene.» Si voltò verso il muro.

    Gli sguardi dei ragazzi si incontrarono di nuovo, impotenti.

    «Di che cosa parla la lezione di stasera?» chiese John cambiando argomento, nel tentativo di suscitare in lei un po’ d’interesse.

    Lei si tirò le coperte fin sopra la testa. «Lasciatemi in pace,» rispose, con quello che parve un singhiozzo smorzato.

    Sconfitti, i tre uscirono dalla casetta. Lì fuori, alcune ragazze li aspettavano in piedi. Li seguirono finché non si furono allontanati abbastanza, così che Jackie non potesse sentirli.

    «È così da tutto il giorno,» disse una di loro dagli occhi neri, di nome Makalya.

    «Continua a ripetere che la direttrice e gli altri torneranno presto. Ho paura.»

    «Anch’io,» aggiunse con voce tremante un’altra ragazza, di nome Kathy.

    «Credete che abbia ragione?» chiese una terza.

    I due si scambiarono un’occhiata, poi distolsero lo sguardo.

    «Direi di no,» ammise Mike.

    «Quando pensate che verranno a cercarci i nostri genitori?» chiese Makayla.

    «Non lo so,» rispose Mike, e Kathy soffocò un singhiozzo.

    Non c’era altro da dire. I ragazzi tornarono indietro attraverso il ponte, poi Eric andò alla mensa, mentre Mike e John svoltarono verso ovest lungo il fiume, parlando di quale delle tre ragazze fosse la più carina per cercare di distrarsi ed evitare di pensare agli adulti scomparsi.

    A un certo punto si sedettero a osservare alcune delle loro compagne che si esercitavano nel tiro con l’arco contro delle balle di fieno dall’altra parte del fiume. Anche i maschi avrebbero dovuto farlo, ma non era rimasto nessun animatore a organizzare l’attività. Quelle ragazze avevano evidentemente deciso di esercitarsi per conto loro. Un’altra stava correndo lungo un’enorme pista abbozzata, ricavata intorno al prato e spianata con gli pneumatici di un furgone.

    «Chi è la ragazza che corre?» chiese Mike.

    «Non mi ricordo il nome,» rispose John.

    «È carina.»

    «Sì, ma non quanto Desi.»

    «Quanti anni ha?» chiese Mike speranzoso.

    «Credo quindici.»

    Mike fece una smorfia di disappunto, perché aveva scoperto che le quindicenni generalmente non mostravano grande interesse per i ragazzini di tredici. Stava facendo buio e dal fiume i due tornarono verso i loro alloggi.

    Dal momento che non c’erano più adulti in giro, avevano cominciato a fare sempre più tardi la notte. Quella sera, una volta che gli altri furono andati a letto, Mike tornò alla casetta della direttrice. Recuperò la chiave, entrò e controllò nuovamente il radiotelefono, scoprendo così che si erano dimenticati di spegnerlo. La batteria era andata. Sdegnato, lo poggiò nuovamente sul tavolo. Voltandosi scorse il letto. Fece un passo avanti e vi rimase accanto per qualche istante. Sembrava comodo. Lentamente, quasi con cautela, si sdraiò sopra le coperte. Dall’alta finestra della parete d’ingresso poteva vedere fuori. Rimase a osservare le stelle che brillavano.

    Dopo un po’ si alzò per togliersi le scarpe, i calzini, i pantaloni e la camicia di flanella. Rimasto in maglietta e mutande, alzò le coperte e sgusciò dentro il letto. Sentiva di stare facendo qualcosa di proibito, ma per qualche motivo stava meglio, come se finalmente avesse smesso di aspettare che qualcun altro agisse per lui. Ben presto si addormentò.

    Il giorno successivo si svegliò tardi. Si rivestì e uscì, chiudendosi la porta alle spalle, ma prima di rimettere la chiave sotto lo zerbino esitò. Dopo qualche istante, la infilò in tasca e si diresse verso la mensa, in cerca di John.

    Nella sala da pranzo vide alcuni ragazzi intenti a caricare una nuova fornitura di latte nel distributore. Per rifornire il campo, l’AEP aveva ordinato grandi confezioni di cereali, barattoli di carne in scatola e buste di latte mischiato a latte in polvere. Il carrello delle insalate di solito veniva riempito di verdure e frutta fresca. Dal momento che l’unica bevanda gassata che veniva servita era dietetica, molti di loro preferivano le lattine di succo di frutta zuccherato.

    Mike trovò John intento a trangugiare la sua seconda ciotola di cereali. Un ragazzo che non conosceva bene, ma di cui conosceva il nome, Jacob, sedeva dall’altra parte del tavolo. Mike guardò per un momento John e Jacob prima di parlare.

    «Che facciamo quando finirà il cibo?»

    John si bloccò con il cucchiaio a metà strada tra la ciotola e la sua bocca, spiacevolmente sorpreso da quella domanda. Gli lanciò uno sguardo infastidito, poi lentamente finì di mandar giù i cereali. Posò il cucchiaio e rispose: «Va bene, mi arrendo. Che facciamo quando finirà il cibo?»

    «Qualunque cosa faremo, sarà meglio cominciare a pensarci adesso. Come faremo a scaldarci questo inverno?»

    A quella domanda, John si incupì ancora di più. «Magari qualche altro adulto verrà a darci una mano. Se non la direttrice o gli animatori, qualcun altro.»

    «E se non ci aiutano? Se arrivano e si prendono il nostro cibo? Che facciamo se sono quel genere di adulti che fanno del male ai bambini?»

    John lo guardò arrabbiato. «Mi stai veramente buttando giù di morale, amico. Fammi finire di mangiare, poi discutiamo della fine del mondo ok?»

    Intorno a loro, altri ragazzi cominciavano a guardare male Mike.

    Mike si voltò e uscì, si incamminò verso il fiume e passeggiò seguendo la corrente, finché non giunse all’altezza delle balle di fieno sulla riva opposta, che servivano per il tiro con l’arco. Ora che le aveva proprio di fronte, rimase a osservarle per un po’, poi tornò indietro. Costeggiò l’edificio della mensa fino al magazzino che dava a est. Qui, poggiata su un piedistallo di assi di legno, troneggiava una delle cisterne con l’acqua prodotta dai pannelli solari termici che rivestivano il tetto della costruzione.

    Sotto il piedistallo c’erano diversi barilotti pieni di barattoli di alluminio vuoti. Mike ne prese alcuni da uno dei fusti e poi tornò alla casetta della direttrice. Una volta entrato, frugò nella cassetta degli attrezzi e ne estrasse un paio di cesoie di metallo. Divise in due uno dei barattoli e appiattì l’alluminio, poi tagliò con cura un pezzo di metallo ricavandone una punta di lancia.

    Quando ebbe finito, lasciò tutto sulla scrivania e uscì, assicurandosi di chiudere a chiave la porta. Si trascinò a est, addentrandosi nella foresta in cerca di vecchi alberi caduti con i rami dritti. Quando ne trovò uno alto quasi quanto lui, lo spezzò e lo portò dentro l’alloggio. Con un taglierino recuperato dalla cassetta degli attrezzi fece un taglio all’estremità del ramo, quindi spinse in profondità la parte non affilata della punta.

    Lasciò l’edificio, attraversò il ponte e raggiunse le balle di fieno. Arrivato a poca distanza da una di esse, afferrò la sua nuova lancia e gliela scagliò contro. Quando l’alluminio colpì la balla, il manico si separò dalla punta, la lancia si ruppe e la punta si piegò.

    Dovette fare diversi tentativi prima di ottenere una punta che non si piegasse e capire come assicurarla a un ramo in modo che non cedesse. Alla fine, dopo aver usato tre pezzi di alluminio, piegandone uno strato intorno agli altri due, fabbricò una lancia in grado di perforare la balla. Affilò il bordo laterale della punta con una lima. Bilanciò l’arma legando intorno al manico, proprio sotto la punta, una lenza a cui aveva appeso dei piombini da pesca. Infine, sostituì l’alluminio con ferro e acciaio.

    Facendo ritorno alla casetta della direttrice, incontrò Jacob sul ponte. Nel momento in cui stavano per incrociarsi, Jacob lo chiamò per nome e quando Mike si fermò a parlargli, vide che indossava uno zaino che sembrava pieno. Non sapeva molto di lui, a parte che se ne andava in giro sempre da solo. Sembrava un po’ più grande di Mike. Aveva capelli scuri e ricci, più spessi di quelli di Eric, e gli occhi color nocciola.

    «Vado in avanscoperta per questa strada,» annunciò Jacob.

    Mike lo guardò perplesso e chiese, «Dove vai?»

    «Fin dove riesco ad arrivare.»

    Mike fu percorso da un brivido. «Ehi, non è una buona idea,» disse.

    «Beh, io vado.»

    «Tornerai prima del tramonto?»

    «Se trovo qualcuno.»

    «Che farai se dovrai trascorrere la notte fuori?»

    «Ho portato il sacco a pelo. È imbottito, mi terrà caldo.»

    «Hai del cibo con te?»

    «Abbastanza per tre giorni.»

    Mike lo guardò impotente; non sapeva cosa dire. Era il genere di cose di cui avrebbe dovuto occuparsi un adulto, non spettava a lui stare in pensiero.

    Sentendosi sconfitto, disse: «Stai attento, ok?»

    «Ok,» rispose Jacob. Poi si incamminò, ma dopo qualche passo si fermò. Si voltò e gridò: «Ehi, Mike. Grazie.»

    Mike lo salutò con la mano. «A presto,» disse, suonando più allegro di quanto fosse in realtà.

    Jacob si voltò e cominciò ad allontanarsi. Mike lo osservò salire la collinetta e quando fu sparito dietro la cima, tornò alla casetta per lavorare alla lancia.

    Mentre Jacob era via, Mike lavorò ogni giorno alle sue lance, cercando di perfezionarne la costruzione. Dopo il primo giorno, a lui si unirono John ed Eric. Altri due ragazzi, Pete e Howard, si mostrarono interessati a quello che stava facendo e anche loro si misero a costruire lance. Tutti e cinque insieme riuscirono a progettare un’arma resistente, che bucava le balle di fieno con facilità. Ogni giorno si allenavano a lanciare.

    Jacob tornò dopo sei giorni, nel tardo pomeriggio. Era affamato, esausto e scuro in volto. Arrivando al campo, notò i cinque ragazzini nei pressi delle balle di fieno. Quando si accorse che uno di loro era Mike, si avviò sul pendio per raggiungerli.

    Mike aveva appena scagliato una lancia, colpendo il bersaglio di cartone che i ragazzi avevano fissato al fieno, quando si voltò e lo vide. Gli corse subito incontro. Jacob era così stanco che non riusciva a togliersi lo zaino. Mike aiutò il ragazzo esausto, afferrando lo zaino e sfilandoglielo di dosso.

    «Stai bene?» gli chiese ansioso.

    «Sono solo stanco. E ho sete,» rispose Jacob con voce rauca ed esausta. «Ho davvero bisogno di bere dell’acqua. Avete del cibo? Non mangio né bevo niente dalla notte scorsa.»

    «Pete, vai in cucina e prendigli un po’ d’acqua e di cibo!» ordinò Mike.

    «Torno subito, Jake,» disse Pete, allontanandosi in fretta.

    «Hai trovato qualcuno?» chiese Howard, con gli occhi spalancati e la voce che tradiva le sue speranze.

    «Howard, lascialo bere, prima,» disse Mike.

    Howard storse il naso, ma annuì. Mike capiva la sua agitazione, ma da quando Jacob se n’era andato era stato sempre più in apprensione giorno dopo giorno e adesso era più il sollievo che provava per il suo ritorno che la preoccupazione per le notizie che portava. Pete tornò rapidamente, portando con sé una bottiglia d’acqua e un panino. Jacob mangiò e bevette mentre gli altri aspettavano impazienti che riacquistasse energie. Appena finito di mangiare, si stese sull’erba e fece un sospiro assonnato.

    «Beh?» chiese John, intenzionato a rompere il silenzio.

    «Ho camminato per tre giorni,» cominciò Jacob, «e la mattina del terzo giorno non ho mangiato, perché volevo conservare un po’ di cibo. Quel pomeriggio l’ho trovata. La nebbia, intendo. Erano più o meno le quattro, lo so perché ho guardato l’orologio. Avevo oltrepassato da circa ottocento metri il cartello che segnala l’altitudine, che indicava duemila metri.

    La strada era in discesa e cominciava a farsi ripida e di fronte a me ho visto un po’ di nebbia. Era molto strano, perché era piatta. Riuscivo a vederci sopra. Somigliava all’oceano, ma era marrone e senza onde. C’era un cervo di fianco alla strada, vicino al banco di nebbia. Mi sono fermato a guardarlo e l’ho visto addentrarsi in quella roba marrone al punto che gli zoccoli e parte delle zampe sono scomparse. Poi, all’improvviso ho visto spuntare il muso, stava come cercando di saltare fuori di lì, ma è caduto con la testa e le spalle che spuntavano dalla foschia. Era rivolto verso di me e l’ho visto dibattersi. Aveva il terrore negli occhi ed emetteva strani versi, poi ha smesso di lottare. Dopo, il cadavere del cervo ha iniziato a muoversi all’indietro nella nebbia, come se qualcosa lo stesse trascinando. Poi è scomparso.

    Mi ha messo veramente paura. Nel senso che non riuscivo a respirare e il cuore mi andava a mille. Sono rimasto in osservazione per un’altra ora e ho visto un uccello volare molto basso, quasi sfiorando quella specie di foschia. Qualcosa è uscito dalla nebbia e lo ha afferrato e ha fatto sparire anche quello. È successo così velocemente che non riuscivo a capire cosa fosse accaduto. Mi sono arrampicato su una collinetta di fianco alla strada e ho guardato dall’altra parte. C’era ancora più nebbia. Siamo su una specie di isola in mezzo all’oceano.

    A quel punto ho girato i tacchi e sono tornato indietro. Avevo la nausea e non sono riuscito a mangiare niente per tutto il giorno, ho bevuto soltanto un po’ d’acqua. Ho provato a conservare un po’ di cibo e acqua nel viaggio di ritorno, ma ho finito le scorte.»

    I volti dei ragazzi si facevano sempre più cupi man mano che Jacob andava avanti a raccontare. Mike si sentiva drizzare i peli delle braccia e del collo.

    «Mi chiedo che sarà successo alla direttrice e agli animatori,» disse piano John. Gli altri stavano pensando lo stesso. Si erano addentrati nella nebbia con la macchina?

    Mike sospirò. «Beh,» disse lentamente. «Adesso lo sappiamo.»

    «Dovremo dirlo agli altri,» disse Howard.

    Mike annuì. «Sì, ma non adesso. Il sole sta calando. Glielo diremo domattina.»

    «Perché non ora?» domandò Eric.

    «La paura si affronta meglio di mattina, che di notte,» rispose John.

    «Tu vieni con me,» disse Mike rivolgendosi a Jacob. «Voialtri... beh, non ditelo a nessuno, ok?» ci fu un coro di intesa.

    Quando Jacob ebbe recuperato abbastanza energie da riuscire a muoversi, il sole era ormai tramontato. Lui e Mike camminarono nel crepuscolo verso l’alloggio della direttrice, ma appena entrati udirono un grido. Jacob era troppo stanco per voltarsi, ma Mike guardò nella direzione da cui proveniva. Era Ralph, che con i suoi diciassette anni era uno dei ragazzi più grandi del campo. Mike si affrettò a chiudere a chiave la porta, proprio quando Ralph era a un passo dal raggiungerlo. Disse a Jacob di sdraiarsi sul letto. Fuori, Ralph bussava, chiedendo di entrare. Mike lo ignorò. Jacob si tirò le coperte fin sopra la testa e presto si addormentò. Mike salì la scala che portava al soppalco. Lo aveva già esplorato e ci aveva trovato due materassi, così si sdraiò su uno di essi e attese che Ralph si stancasse e se ne andasse.

    A un certo punto, a mezzanotte passata, Jacob si svegliò e insistette per tornare al suo alloggio. Mike acconsentì riluttante, sperando che nessuno degli altri ragazzi cercasse di farlo parlare di quello che aveva vissuto. Era convinto che fosse meglio per tutti sentire quella storia nello stesso momento. Riaccompagnò Jacob nella sua casetta, che aveva un telo per soffitto. La luna era piena per metà e la notte luminosa, con solo qualche nuvola sparsa nel cielo. Una volta tornato al bungalow della direttrice, Mike rimase sveglio nel suo letto a lungo, chiedendosi se John, Pete, Howard ed Eric fossero riusciti a prendere sonno.

    Le sue ansie notturne lo fecero svegliare più tardi del solito la mattina dopo. Poco dopo aver lasciato l’alloggio, sentì alcuni ragazzi commentare il ritorno di Jacob e capì che qualcuno aveva parlato. Non era sorpreso, perché non si aspettava che una notizia del genere potesse restare un segreto a lungo. Mentre si recava alla mensa, udì qualcuno bisbigliare di mostri e alieni.

    La sala da pranzo brulicava di ragazzi e Mike comprese il perché quando vide che c’era anche Jacob, che stava mangiando dei cereali. Gli stavano intorno in molti, alcuni cercavano di parlargli, ma John, Pete, Howard ed Eric li tenevano alla larga.

    «Dicci cosa è successo,» chiedeva un ragazzo arrabbiato.

    «E che cavolo!» esclamò John. «Fagli almeno finire i Cheerios!»

    Mike superò il nugolo di ragazzi e salì sul palco posto sul lato orientale della

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