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Il principe delle tenebre
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Il principe delle tenebre
E-book499 pagine7 ore

Il principe delle tenebre

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Info su questo ebook

«Fantastico. Il nuovo Trono di spade.»
Conn Iggulden

Broken Empire Series

Un successo mondiale 

Per anni Jalan ha vissuto all’ombra della potente Regina dei Rossi, ma ora è chiamato a difendere il regno. La Regina dei Rossi è vecchia ma gli altri re dell’Impero la temono come nessun altro, e il potere che racchiude nelle proprie mani è grande… Suo nipote, il principe Jalan Kendeth, è invece un codardo, un imbroglione e un bugiardo. Beve, gioca d’azzardo, insegue le belle cortigiane. A parte i creditori che gli danno la caccia, non ha nemmeno un problema al mondo. La guerra però è alle porte: alcuni testimoni affermano che un esercito di morti viventi è in marcia, e la Regina dei Rossi ha convocato la famiglia per difendere il regno. Jal pensa che sia semplicemente una voce, una favola per spaventare i bambini. Ma non sa quanto si sbaglia. E quando il colossale Snorri, guerriero senza eguali, viene trascinato in catene al cospetto della Regina dei Rossi, Jal non immagina neppure che quel prigioniero cambierà la sua vita, e lo trascinerà in un folle viaggio fino alle gelide terre del Nord.

Un autore da oltre 500.000 copie
Tradotto in 20 Paesi

Hanno scritto dei suoi libri:

«Fantastico. Il nuovo Trono di Spade.»
Conn Iggulden

«Un fantasy morboso e crudo, che gronda emozioni forti.»
Publishers Weekly

«Una spietata storia di sopravvivenza e conquista, in un brutale mondo medievaleggiante.»
Terry Brooks
Mark Lawrence
Nato negli Stati Uniti, si è trasferito quand’era ragazzo in Inghilterra, dove vive con la moglie e i figli. Ricercatore scientifico, si è occupato principalmente di intelligenza artificiale. È autore dell’appassionante saga fantasy La trilogia dei fulmini, già paragonata alle opere di George R.R. Martin, composta dai volumi Il principe dei fulmini, Il re dei fulmini e L’imperatore dei fulmini e pubblicata dalla Newton Compton anche in volume unico. Il principe delle tenebre è il primo libro della nuova saga Broken Empire.
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2016
ISBN9788854194182
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    Anteprima del libro

    Il principe delle tenebre - Mark Lawrence

    Capitolo 1

    Sono un bugiardo, un imbroglione e un codardo, ma mai e poi mai tradirei un amico. A meno che, certamente, non tradirlo richieda onestà, lealtà o coraggio.

    Ho sempre pensato che un bel colpo alle spalle sia la soluzione migliore. A volte, qualche semplice trucchetto può tornare molto utile. Certi classici, del tipo «Guarda lassù!», funzionano sorprendentemente bene, ma il risultato ottimale viene raggiunto quando il bersaglio non sospetta neppure che tu sia lì.

    «Ahia! Cristo! Perché diavolo l’hai fatto?», Alain DeVeer si voltò, premendosi una mano sulla nuca e tirandola via tutta insanguinata.

    Quando la vittima non ha la delicatezza di cadere a terra, generalmente è una buona idea avere un piano di riserva. Io gettai quel che rimaneva del vaso, girai i tacchi e iniziai a correre. Nella mia mente, avevo previsto che sarebbe crollato con un piacevole puuuff e io sarei stato libero di andarmene inosservato dal palazzo, scavalcando il suo corpo prono e privo di sensi. Invece, ora, quel corpo – al massimo privo di buon senso – mi inseguiva attraverso la sala dei banchetti, assetato di sangue.

    Mi fiondai verso la stanza di Lisa e sbattei con forza la porta alle mie spalle, tremando per lo schianto.

    «Ma che diavolo?». Lisa era a letto e si tirò su. Il lenzuolo di seta le scivolò come acqua sul corpo nudo.

    «Oh». Alain si scagliò contro la porta chiusa. Quell’urto mi strappò l’aria dai polmoni, grattai il pavimento con le scarpe. Non lanciarsi mai a mettere il catenaccio: questo è il trucco. Prima che la tua mano abbia il tempo di afferrarlo e spostarlo, ti sei già beccato la porta in faccia. Piuttosto, preparati bene a sopportare l’urto e subito dopo fai scattare la serratura, mentre il tuo avversario cerca di rialzarsi da terra. Alain si dimostrò tremendamente veloce a rimettersi in piedi e per poco non feci colazione con il pomello della porta, nonostante i miei accorgimenti.

    «Jal!». Lisa era fuori dal letto ora, vestita solo della luce e dell’ombra che filtravano dalle persiane. Le righe le donavano proprio. Era più dolce della sorella maggiore e più sveglia di quella minore. La desideravo persino in quel momento, anche se c’erano solo due centimetri di quercia a separarmi da quell’assassino di suo fratello. Anche se le possibilità di scappare evaporavano ogni secondo che passava.

    Corsi alla finestra più grande e spalancai le persiane. «Chiedi scusa a tuo fratello da parte mia». Portai una gamba oltre l’intelaiatura. «Digli che ho sbagliato persona, o qualcosa del genere…». Dall’altra parte, Alain colpiva forte e la porta iniziò a tremare.

    «Alain?». Lisa riuscì a sembrare allo stesso tempo furiosa e terrorizzata.

    Non mi fermai a risponderle e saltai giù tra i cespugli, che per fortuna erano della varietà odorosa anziché spinosa. Buttarsi in un cespuglio spinoso significa buttarsi in un dolore senza fine.

    L’atterraggio è sempre importante. Io faccio un sacco di salti e so che non è come parti quello che conta, quanto piuttosto come arrivi. In questo caso, io arrivai accartocciato: i talloni sulle chiappe e il mento tra le ginocchia, con mezzo cespuglio di azalea nel naso e l’aria risucchiata dai polmoni, ma per fortuna neanche un osso rotto. Faticai per uscire da lì e zoppicai verso le mura del giardino, bramando un po’ d’ossigeno e sperando che la servitù fosse troppo presa dagli infiniti compiti delle prime luci dell’alba per darmi la caccia.

    Attraversai il prato e mi lanciai nel giardino degli odori, tagliando un sentiero dritto tra i tanti piccoli diamantini di salvia, i triangoli di timo e quant’altro. Da qualche parte, nel palazzo alle mie spalle, un segugio abbaiò facendomi rabbrividire. Ma io sono sempre pronto a darmela a gambe e corro veloce. Quando sono spaventato a morte, poi, corro come il vento. Due anni fa, nello scontro di confine con Scorron, riuscii a fuggire da una pattuglia di teutoni, e sì che ben cinque di loro erano in groppa a cavalli belli grossi. Gli uomini che erano stati posti sotto il mio comando rimasero fermi, non avendo ricevuto nessun ordine. Quando si scappa, secondo me, non è tanto importante correre veloce, basta semplicemente correre più veloce di chi ti sta accanto. Sfortunatamente, i miei soldati non rallentarono molto la truppa di Scorron e quindi il povero Jal si ritrovò a scappare e rischiare la pelle a neanche vent’anni e con una lunga e fantastica lista di cose da fare – nella quale le sorelle DeVeer occupavano i primi posti, mentre morire infilzato da una lancia di Scorron non rientrava neanche nella prima pagina. In ogni caso, il confine non è il posto adatto per lanciare un cavallo da guerra al galoppo e io riuscii a mantenerli a distanza correndo a rotta di collo tra le rocce. Senza accorgermene, mi ritrovai nel bel mezzo di una fervente battaglia tra un plotone di irregolari di Scorron in netta superiorità numerica e il mio gruppetto di soldati di pattuglia di Marca Rossa, per conto dei quali ero andato in ricognizione all’inizio. Mi gettai nel mucchio e in preda al terrore agitai a caso la spada nel tentativo di scappare, e quando la polvere si riabbassò e il sangue smise di schizzare, mi ritrovai a essere l’eroe della giornata, colui che aveva spazzato via il nemico con un attacco coraggioso, completamene incurante della propria salvezza.

    Quindi, ecco il punto: il coraggio viene fuori quando sei costretto ad affrontare una paura, anche se in segreto stai solo scappando da un terrore molto più grosso. Perciò, se il tuo più grande timore è essere creduto un codardo, ti mostri sempre coraggioso. Io, al contrario, sono un codardo. Ma con un po’ di fortuna, un sorriso accattivante e un’innata propensione alla menzogna, il più delle volte sono riuscito sorprendentemente bene a sembrare un eroe e a fregare la maggior parte della gente.

    Le recinzioni della proprietà dei DeVeer erano del tipo alte e invalicabili, ma io e quelle mura eravamo vecchi amici: conoscevo ogni loro incrinatura e debolezza, proprio come conoscevo i profili di Lisa, Sharal e Micha. Le vie di fuga sono sempre state un’ossessione per me.

    In genere, le barriere servono a tenere fuori i pezzenti, non a tenere dentro gli ospiti. Saltai su una botte per la raccolta dell’acqua piovana, scalai il tetto della rimessa e da lì atterrai sulle mura. Mentre mi tiravo su, le zanne del cane mi sfiorarono le caviglie. Mi appesi per le dita e poi mi lasciai cadere dall’altra parte. Fui pervaso da un brivido di sollievo quando il segugio ritrovò la voce e si mise a piagnucolare dalla frustrazione dall’altro lato delle mura. La bestia si era avvicinata in silenzio e per poco non mi aveva preso. I segugi più quieti sono quelli che poi ti sbranano. Più fanno rumore e sbraitano, meno letali si rivelano. La stessa cosa vale per gli uomini. Io sono fatto per due terzi di spavalderia e un terzo di cupidigia, e, fino ad ora, nemmeno un grammo di istinto assassino.

    Atterrai sulla strada, meno pesantemente stavolta, sano e salvo – e se non profumavo di rose, quanto meno di azalee e piante aromatiche. Di Alain mi sarei occupato un altro giorno. Poteva mettersi in fila con gli altri. E sarebbe stata un’attesa bella lunga: davanti a lui c’era Maeres Allus con una dozzina di cambiali, promesse di saldo e pagherò, scarabocchiati con la mia firma, in preda all’alcol, sulla biancheria di seta di qualche puttana. Rimasi in piedi, in allerta, ad ascoltare i lamenti del segugio dall’altro lato delle mura. Mi sarebbero servite barriere ben più alte di quelle per tenere alla larga gli scagnozzi di Maeres.

    Di fronte a me si stendeva la Via dei Re, solcata di ombre. Qui, le magioni di famiglie nobiliari gareggiavano quanto a lusso con le ville dei principi mercanti, nuovi ricchi che cercavano di oscurare i vecchi con lo scintillio del denaro. La città di Vermillion ne ha poche, di strade così belle.

    «Portatelo al cancello! Ha fiutato qualcosa». Erano voci provenienti dal giardino.

    «Qui, Pluto, qui!».

    Non si metteva per niente bene. Sfrecciai in direzione del palazzo, mettendo in fuga i topi e disperdendo i raccoglitori di letame all’opera. Alle mie spalle, il sole mi dava la caccia, trafiggendomi la schiena con i suoi raggi rossi.

    Capitolo 2

    La residenza regale di Vermillion è un immenso agglomerato di cinte murarie, giardini raffinati, magioni secondarie per la famiglia allargata, e infine il Palazzo Interno, una maestosa creazione in pietra che da generazioni ospita i re di Marca Rossa. Il tutto è decorato da una collezione di statue di marmo davvero realistiche, forgiate con straordinaria maestria dagli scultori di Milano, e da una quantità d’oro tale che un uomo che abbia lo zelo di grattarlo via tutto diventerebbe più ricco di Creso. Mia nonna detesta tutto ciò dal profondo del cuore. Si sentirebbe molto più a suo agio contornata da mura di granito spesse una trentina di metri, con le teste dei suoi nemici infilzate qua e là.

    Tuttavia, non si può entrare neppure nel palazzo più malridotto senza osservare un minimo di protocollo. Mi intrufolai attraverso la Porta dei Dottori, gettando una corona d’argento alla guardia.

    «Ancora una volta in servizio di buon’ora, eh, Melchar?». Ci tengo a sapere tutti i nomi delle guardie. Loro mi considerano ancora l’eroe del Passo di Aral ed è sempre utile avere i soldati dalla tua parte, se la tua vita si regge in bilico su una fitta rete di bugie.

    «‘Giorno, principe Jal. Chi lavora meglio deve lavorare di più, dicono».

    «Verissimo». Non avevo idea di cosa volesse dire, ma la mia risata finta è persino migliore di quella vera, e la popolarità personale di un principe, per nove decimi, si basa sulla capacità di compiacere la servitù. «Mi assicurerò che anche quei bastardi scansafatiche coprano qualche turno». Feci un cenno verso la flebile luce che si riverberava dalla porta socchiusa della guardiola, e varcai i cancelli non appena Melchar li aprì.

    Una volta dentro, mi diressi direttamente al palazzo Roma. Essendo il terzo figlio della regina, a mio padre fu destinato il palazzo Roma, residenza vaticana costruita in non so quale epoca dalle maestranze private del papa per il cardinale Paracheck. Mia nonna non dedica troppo tempo a Gesù e alla sua croce, anche se durante le messe recita tutte le parole giuste al momento giusto, e sembra perfino sincera. Di tempo ne dedica ancor meno a Roma e quasi nulla al papa che siede ora sul trono – la Santa Vacca, la chiama lei.

    Come terzo figlio del terzo figlio della regina, a me non spetta decisamente nulla: solo una stanza a palazzo Roma e un indesiderato incarico nell’esercito del Nord, che neanche mi permette di acquisire il grado di cavaliere, dato che i terreni ai confini settentrionali sono troppo maledettamente irregolari per andare a cavallo. Scorron schiera lo stesso la cavalleria al confine, ma la nonna sostiene che la loro è una cocciutaggine che la Marca Rossa deve sfruttare a proprio vantaggio, non una sciocchezza da imitare. Donne e guerra non sono un’accoppiata vincente. L’ho già detto molte volte. Il mio posto dovrebbe essere in groppa a un bianco destriero, a fare strage di cuori, in armatura e tutto pronto per un torneo. E invece no, quella vecchia strega ha preferito farmi fare la sentinella, costringendomi a strisciare per le montagne, cercando di non farmi ammazzare dai contadini di Scorron.

    Entrai nel palazzo – un complesso di corridoi, stanze private, una sala da ballo, cucine, scuderie e un secondo piano con innumerevoli camere da letto – dal lato ovest, attraverso una porta di servizio ad uso della servitù. Ned il Ciccione sedeva di guardia, con l’alabarda appoggiata al muro.

    «Ned!».

    «Principe Jal!». Si svegliò di soprassalto e per poco non cadde all’indietro con tutta la sedia.

    «Riposo». Gli feci l’occhiolino e continuai per la mia strada. Ned il Ciccione teneva la bocca chiusa e il segreto delle mie piccole escursioni era al sicuro con lui. Mi conosceva da quando ero un piccolo mostriciattolo che si divertiva a fare il bullo con i principi e le principessine più piccoli, adulando però quelli che erano abbastanza grandi da prendermi a sberle. Era grasso a quei tempi. La ciccia ormai gli era sparita, come se la cupa mietitrice lo avesse già preso di mira in attesa del colpo finale, ma il nomignolo gli era rimasto. Quanta potenza c’è in un nome. Principe mi è stato davvero utile – uno scudo dietro cui nascondersi se arrivano i guai – e Jalan fa pensare a re Jalan di Marca Rossa, Pugno dell’Imperatore, quando ancora ne avevamo uno. Un titolo e un nome come Jalan si trascinano dietro una sorta di aura, quanto basta per concedermi sempre il beneficio del dubbio – e senza dubbio questo è un beneficio di cui ho un gran bisogno.

    Ce l’avevo quasi fatta ad arrivare in camera.

    «Jalan Kendeth!».

    Mi fermai a due passi dal ballatoio che conduceva alle mie stanze, con il piede già pronto al passo successivo e gli stivali in mano.

    Non risposi. Ogni tanto capita che il vescovo sbraiti il mio nome quando scopre casualmente una qualche malefatta. In tutta sincerità, devo ammettere che in genere sono davvero io la causa principale di ogni disastro. Stavolta, comunque, guardava proprio me.

    «Ti vedo, Jalan Kendeth. I tuoi passi sono neri come il peccato, mentre vai di soppiatto verso il tuo nascondiglio. Vieni giù!».

    Mi voltai con un sorriso dispiaciuto. Agli uomini di Chiesa piace vederti pentito e spesso non importa neanche di che cosa. In questo caso, per la precisione, ero pentito di essermi fatto beccare.

    «Vi auguro una splendida giornata, vostra eccellenza». Nascosi gli stivali dietro le spalle e camminai spavaldo verso di lui, come se quella fosse stata la mia intenzione fin dall’inizio.

    «Sua eminenza mi ha incaricato di radunare te e i tuoi fratelli nella sala del trono prima che rintocchi la seconda campana». Il vescovo James mi guardava con aria di rimprovero e le sue guance erano ingrigite da una barbetta corta, come se anche lui fosse stato buttato giù dal letto irragionevolmente presto – certo, non proprio dal piede delicato di Lisa DeVeer.

    «È stato Padre a conferirvi tale incarico?». La sera prima, a tavola, il cardinale non aveva accennato nulla, e non era tipo da svegliarsi prima di mezzogiorno, senza curarsi troppo di ciò che la cara e vecchia Bibbia diceva sulla pigrizia. Viene considerata un peccato mortale, ma per esperienza posso affermare che la lussuria può cacciarti in guai ben più seri. La pigrizia è peccato solamente quando qualcuno ti insegue.

    «L’ordine proviene dalla regina». Lo sguardo del vescovo divenne ancora più accigliato. Preferiva attribuire ogni ordine a Padre, in quanto rappresentante più alto, anche se meno entusiasta, della Chiesa di Marca Rossa. La nonna una volta raccontò che era stata tentata di posare il cappello da cardinale sul capo del primo asino che trovava, ma in fin dei conti Padre era già a portata di mano e prometteva di essere più facile da domare. «Martus e Darin si sono già incamminati».

    Feci spallucce. «Perché hanno avuto tempo di prepararsi». La storia della mia vita: ancora non riesco a perdonare i miei fratelli maggiori per lo sgarbo di essere nati prima, ritrovandosi quindi sempre in vantaggio. Mi tenni lontano dalla sua portata, dato che non c’era cosa che piacesse di più al vescovo che cacciare via il peccato da un principe ribelle a suon di sculacciate. Mi diressi di sopra. «Vado a vestirmi».

    «No! Va’ nella sala del trono, ora! La seconda campana sta per suonare e sei così vanitoso che ci metti sempre più di un’ora a prepararti».

    Mi sarebbe piaciuto contraddire quel vecchio sciocco, ma si dava il caso che avesse ragione. Inoltre, non ero così pazzo da presentarmi in ritardo al cospetto della Regina dei Rossi. Soffocai un verso di scherno e mi affrettai. Indossavo ancora ciò che mi ero infilato per la scappatella di mezzanotte e, anche se ero abbastanza elegante, l’elaborato velluto non se l’era passata granché bene durante la fuga. Tuttavia, avrei potuto ribaltare la cosa a mio favore. Per la nonna era una gioia constatare che la sua prole combatteva e spargeva sangue, perciò un po’ di fango poteva anche farmi guadagnare punti.

    Capitolo 3

    Arrivai alla sala del trono in ritardo. L’eco della seconda campana si dissolse prima che raggiungessi le porte, degli enormi affari di bronzo che stonavano con il resto dell’arredamento: sicuramente erano state sottratte a un palazzo ancora più grandioso da un mio lontano antenato sanguinario. Le guardie mi guardarono torve, neanche fossi una cacca di uccello precipitata da una finestra proprio di fronte a loro.

    «Principe Jalan». Con un cenno delle mani cercai di far capire che andavo di fretta. «Chissà, magari avete sentito parlare di me? Sono stato invitato».

    Senza rispondere, il più grosso dei due, un gigante con la cotta di maglia color rubino e l’elmo piumato vermiglio, socchiuse la porta quel tanto che bastava per lasciarmi passare. Con gli uomini scelti personalmente dalla nonna le mie arti da ruffiano non avevano mai avuto effetto: erano troppo pieni di sé per fare amicizia. E anche troppo ben pagati per lasciarsi ammaliare dalle mie gentilezze. O forse erano prevenuti nei miei confronti e basta.

    Entrai senza farmi annunciare. L’eco dei miei passi risuonava su quel tratto di pavimento di marmo. Camminai più in fretta. La sala del trono non mi era mai andata a genio. Non per l’altezza delle sue volte o per la storia impressa sui busti di pietra che da ogni lato mi fissavano arcigni, ma perché da lì non c’erano vie di fuga: solo guardie, guardie, e ancora più guardie, più lo sguardo vigile di quell’orribile vecchiaccia che si dà il caso che sia mia nonna.

    Raggiunsi i miei fratelli e cugini, nove in totale. Aveva tutto l’aspetto di un’udienza privata per i nipoti reali: erano presenti i nove giovani principi e l’unica principessa di Marca Rossa. In teoria, ero il decimo in linea di successione al trono, dopo i miei due zii, i loro figli, mio padre e i miei fratelli maggiori. Ma la vecchia strega, che aveva tenuto il culo su quella sedia negli ultimi quarant’anni, aveva idee completamente diverse sulla successione. Mia cugina Serah, che avrebbe compiuto diciotto anni il mese seguente, non aveva neppure una goccia del sangue giusto, ma era la luce dei suoi occhi. In compenso, però, Serah aveva tutte le carte in regola per far perdere la ragione a un uomo. Io per primo avrei ignorato ben volentieri la morale comune e ciò che essa stabilisce sui rapporti tra cugini. In realtà, ci avevo già provato un paio di volte. Ma avevo ottenuto solo un’efficace dimostrazione del gancio aggressivo di Serah e del suo talento naturale nel beccare con un calcio le parti intime degli uomini. Quel giorno, si era presentata in una specie di tenuta da cavallerizza – il camoscio e il colore beige parevano più adatti alla caccia che alla corte – ma diamine quanto era bella.

    Le passai davanti sfiorandola e mi infilai a gomitate tra i miei fratelli, portandomi quasi in capo al gruppo. Sono un ragazzo piuttosto alto, o perlomeno quel tanto che basta per far esitare un avversario, ma in genere non mi va di stare in piedi vicino a Martus e Darin. Mi fanno sembrare piccolo, e dato che non c’è nient’altro che ci differenzia, poiché abbiamo tutti i capelli biondo oro e gli occhi nocciola, quando si parla di me vengo etichettato come il bassetto. E non mi piace. Tuttavia, in quell’occasione, ero ben disposto a essere ignorato. Il mio nervosismo non era dovuto alla sala del trono. Né all’evidente disapprovazione della nonna. Era quella donna con un occhio cieco che mi rendeva nervoso. Mi spaventava a morte.

    La vidi per la prima volta al mio quinto compleanno, il giorno in cui mi venne assegnato il mio nome, quando mi portarono dinanzi al trono. C’erano anche Martus e Darin vestiti a festa, Padre con la toga da cardinale, sobrio nonostante il sole avesse ormai passato lo zenit, e mia madre, tutta seta e perle. Una manciata di uomini di Chiesa e dame di corte facevano da spettatori. La regina di Marca Rossa sedeva dritta sulla sedia regale e recitava a pieni polmoni qualcosa a proposito del nonno di suo nonno, Jalan, Pugno dell’Imperatore, e cose del genere che ho dimenticato. Fu allora che vidi lei. Una signora parecchio anziana, così decrepita che guardarla mi faceva rivoltare lo stomaco. Se ne stava accovacciata all’ombra del trono, posizionata in modo tale da non poter essere vista dall’altro lato. Aveva un viso che sembrava un foglio di carta strizzato e poi asciugato al sole. Le labbra erano sottili e grigiastre e gli zigomi appuntiti. Vestita di cenci e stracci, era del tutto fuori luogo in quella stanza: stonava con gli abiti eleganti, con le guardie e le loro armature bronzee e con il pubblico scintillante venuto ad assistere alla cerimonia. Quella strega non accennò mai il minimo movimento: poteva quasi sembrare uno scherzo delle luci, un mantello gettato in un angolo o un’illusione creata dalle ombre.

    «… Jalan?». La Regina dei Rossi aveva interrotto la sua litania per pormi una domanda.

    Strappai lo sguardo da quella creatura al suo fianco, ma rimasi in silenzio.

    «Ebbene?». La nonna aveva improvvisamente concentrato tutta la sua attenzione su di me.

    Rimasi ancora in silenzio. Martus mi diede una gomitata così forte che qualche costola scrocchiò. Non servì a nulla. Volevo continuare a osservarla. Era ancora lì? Si era mossa in quegli istanti in cui non l’avevo guardata? Mi chiesi come si muovesse. Veloce come un ragno, immaginai. Sentii lo stomaco che si rivoltava.

    «Accetti la carica che ti impongo, caro ragazzo?», chiese la nonna, sforzandosi di essere gentile.

    Guardai la strega di soppiatto. Era ancora lì, esattamente come prima, con il viso rivolto di profilo rispetto a me, fisso sulla nonna. All’inizio non avevo notato il suo occhio, ma poi ne fui colpito. Uno dei gatti del palazzo ce l’aveva simile. Bianco latte. Quasi perlato. Cieco, diceva la mia nutrice. Ma a me dava l’impressione che vedesse molte più cose dell’occhio buono.

    «Cos’ha che non va il ragazzo? È un sempliciotto?». Il tono infastidito della nonna riecheggiava per tutta la corte, mettendo a tacere ogni mormorio.

    Non riuscivo a distogliere lo sguardo da quella. Me ne stavo lì, in piedi, madido di sudore. A malapena riuscivo a non farmela addosso. Troppo spaventato per parlare, troppo spaventato persino per mentire. Troppo spaventato per fare qualsiasi cosa, eccetto sudare e tenere gli occhi incollati su quell’anziana signora.

    Quando si mosse, per poco non gridai e scappai via. Ma mi uscì solo una specie di squittio. «Voi n-non la vedete?».

    Si mosse appena. Così lentamente, in un primo momento, che per essere certo di non aver immaginato tutto avrei dovuto controllare l’ombra sul muro. Poi si velocizzò, calma e sicura. Ruotò quella faccia disgustosa verso di me. Un occhio era scuro, l’altro bianco latte e perlato. D’improvviso sentii caldo, come se i grandi focolari si fossero accesi con un unico ruggito rovente, alzando fiamme furiose in un torrido giorno d’estate; come se il fuoco lambisse le grate di ferro, lottando con tutte le sue forze per venire in mezzo a noi.

    Era alta. Ora la vedevo bene, un po’ gobba ma alta. E magra come un osso.

    «Non la vedete?». Il mio tono si fece sempre più acuto, culminando in un gridolino. La indicai con un dito e lei fece un passo verso di me. Mi tese una mano bianca.

    «Chi?», domandò al mio fianco Darin: a nove anni, era troppo grande per simili giochetti.

    Non risposi, non avevo più voce. La donna con l’occhio cieco aveva posato la sua mano fatta di ossa e carta sulla mia. Mi sorrise. La faccia le si contorse in un intreccio orribile, come vermi che strisciano gli uni sugli altri. Lei mi sorrise, io svenni.

    Caddi in un luogo caldo, buio. Dicono che ebbi una crisi, convulsioni. «Epilessia», sentenziò il medico a Padre il giorno seguente. Una patologia cronica, disse, ma non mi capitò più nei successivi vent’anni. Tutto quello che so è che caddi, e da quel giorno ho l’impressione di non essere mai riuscito a rialzarmi del tutto.

    La nonna perse la pazienza e mi affibbiò il nome mentre io ero a terra a contorcermi e sobbalzare. «Riportatelo qui quando sarà in grado di parlare», disse.

    E per otto anni non rimisi piede nella sala del trono. A tredici anni compiuti ci tornai per essere presentato alla nonna prima che iniziassero le feste dei Saturnali, nel rigido inverno dell’89. In quell’occasione, e nelle altre che seguirono, mi comportai come tutti gli altri, facendo finta di non vedere la donna con l’occhio cieco. Forse non la vedevano davvero: Martus e Darin sono troppo stupidi per fingere e non troppo bravi come bugiardi, eppure non strabuzzavano nemmeno gli occhi quando guardavano nella sua direzione. Forse ero io l’unico capace di vederla quando picchiettava le dita sulle spalle delle regina. Quando sai che non devi guardare una cosa… be’, distogliere lo sguardo è praticamente impossibile. Come accade per le scollature delle donne: i seni sono schiacciati uno all’altro e rialzati proprio per essere ammirati, e invece ci si aspetta che un principe non li degni neppure di un’occhiata. Con la donna con l’occhio cieco, tuttavia, mi impegnai più a fondo e per buona parte del tempo riuscii a non fissarla – anche se la nonna, di tanto in tanto, mi lanciava uno sguardo torvo.

    Comunque, quella mattina in particolare – tutto sudato nei vestiti della notte appena trascorsa, che avevano ancora mezzo giardino dei DeVeer tra le pieghe dei tessuti – non mi dispiaceva poi così tanto starmene incastrato tra i miei due mastodontici fratelli e calarmi nella parte del piccoletto, quello facile da ignorare. Francamente, non avrei sentito la mancanza delle attenzioni della regina e della donna con l’occhio cieco.

    Restammo lì, in piedi, per altri dieci minuti, in silenzio perlopiù. Qualche principe sbadigliava, altri spostavano il peso da un piede all’altro o lanciavano occhiatacce nella mia direzione. E sì che sto bene attento a non inquinare le calme acque del palazzo con le mie disavventure, per quanto possibile. Si sa che non è sano sporcare dove si mangia, e poi non è così semplice farsi scudo del proprio status, se la parte offesa è a sua volta un principe. Tuttavia, nel corso degli anni, ho fornito ai miei cugini ben poche ragioni per volermi bene.

    Alla fine arrivò la Regina dei Rossi, senza fanfare ma scortata dalle guardie. Il sollievo fu solo momentaneo – la donna con l’occhio cieco la seguì subito dopo e, anche se distolsi lo sguardo in men che non si dica, si accorse che l’avevo notata. La regina si sistemò sul trono, mentre le guardie prendevano posizione tutt’intorno, contro le mura. Un solo ciambellano – Mantal Drews, credo – rimase in piedi a disagio tra la progenie reale e la nostra sovrana, e il silenzio calò di nuovo nella sala.

    Tenevo gli occhi fissi sulla nonna, sforzandomi di non guardare la mano biancastra e raggrinzita poggiata sulla spalliera del trono, dietro la sua testa. Avevo sentito diverse dicerie, nel corso degli anni, sulla consigliera segreta della regina: una vecchia donna mezza matta, tenuta nascosta da tutti. La chiamavano la Sorella Silente. Tuttavia, a quanto pare, ero l’unico a sapere che si celava alle spalle della Regina dei Rossi, ogni singolo giorno. Gli occhi degli altri, semplicemente, non si posavano su di lei… al contrario dei miei, purtroppo.

    La Regina dei Rossi si schiarì la voce. Nelle taverne di tutta Vermillion si diceva che un tempo la nonna fosse una donna affascinante, sebbene mostruosamente alta. Una rubacuori, che attirava uomini da tutti gli angoli dell’Impero Spezzato e oltre. A me pareva che avesse un viso brutale, scheletrica e con la pelle tirata come se fosse ustionata, e allo stesso tempo rugosa come un testamento scritto su una pergamena spiegazzata. Doveva aver passato i settant’anni, ma nessuno gliene avrebbe dati più di cinquanta. Aveva i capelli scuri, senza nemmeno l’ombra di un filo grigio, che brillavano di rosso scuro se colpiti dalla luce. Affascinante o no, aveva degli occhi capaci di ridurre in poltiglia le viscere di qualsiasi uomo. Inflessibili schegge di freddezza. E niente corona per la regina guerriera, oh no. Sedeva quasi inghiottita da una veste di stoffe nere e rosse, giusto un sottile cerchio dorato, tirato dietro sulla testa, a tenerle i capelli in ordine.

    «Figli dei miei figli». Le parole che le vennero fuori erano così pregne di disapprovazione che potevi sentire il disgusto venirti addosso e strangolarti. Scosse la testa, come un allevatore che fissa dei puledri frutto di un incrocio andato decisamente male. «E, alcuni di voi, padri di nuovi principi e principesse, ho sentito dire».

    «Sì, noi…».

    «Progenie sediziosa e pigra, per la maggior parte». Nonna coprì la voce del cugino Roland, senza dargli il tempo di mettersi in mostra. Il sorriso si spense in mezzo a quella stupida barba che si faceva crescere per far sorgere nel prossimo almeno il sospetto che ce l’avesse, un mento. «Incombono tempi oscuri e la nazione deve essere forte. Il tempo dei giochi è concluso. È ora di crescere. Il mio stesso sangue scorre nelle vostre vene; in poca quantità, ma è presente. E voi sarete i soldati di questa futura guerra».

    A queste parole, Martus sbuffò, abbastanza piano da non farsi sentire. Lui era stato assegnato alla cavalleria pesante, destinato a ricoprire il ruolo di cavaliere-generale, comandante d’élite di Marca Rossa. In uno slancio di follia, la Regina dei Rossi, cinque anni prima, aveva fatto fuori quel corpo. Secoli di tradizione, onore ed eccellenza disintegrati per il capriccio di una vecchia. Adesso, dovevamo tutti diventare soldati e correre a combattere ventre a terra, a scavare fossati, a spaccarci la schiena per imparare tattiche meccaniche che qualsiasi contadino avrebbe potuto padroneggiare facilmente. Così un principe si riduceva allo stesso livello di uno sguattero.

    «… un nemico più forte. È tempo di mettere da parte i vani pensieri di conquista e avvicinarsi…».

    Scacciai le mie riflessioni insofferenti e guardai la nonna che ancora blaterava sulla guerra. L’onore non è una questione che mi interessa più di tanto. Tutti gli sproloqui sulla cavalleria non sono altro che un grande fardello che appesantisce un uomo nel momento del bisogno, quando c’è da scappare. Ma in realtà è tutta questione di apparenza; la forma è fondamentale per certa gente. Da tempo immemore, entrare in uno dei tre corpi di cavalleria, guadagnarsi gli speroni e tenere tre destrieri nella caserma della città… erano diritti di nascita dei giovani nobili. Diamine, volevo ciò che mi spettava, volevo il mio posto nelle scuderie degli ufficiali, volevo raccontare qualche aneddoto un po’ ingigantito nel fumo dei tavoli del Conarrf. Volevo cavalcare lungo la Via dei Re con i colori della Lancia Rossa o dello Zoccolo di Ferro, i capelli lunghi e la barba ispida come un vero cavaliere, in groppa a uno stallone. Certo, il decimo posto nella linea di successione al trono ti garantisce solo un discreto numero di stanze, ma se un uomo indossa il mantello scarlatto dei cavalieri di Marca Rossa e stringe le gambe in sella a un destriero, gli basta un sorriso galante per convincere molte donne di classe ad allargare le proprie.

    Proprio ai margini del mio campo visivo, la donna dall’occhio cieco si mosse, rovinando così le mie fantasticherie e cancellando ogni pensiero sulle monte – e non parlo di equitazione – dalla mia testa.

    «… bruceremo i morti. La cremazione è fondamentale, per i nobili e la gente comune in egual misura. E al diavolo l’opposizione di Roma…».

    Ancora! Era più di un anno ormai che quel vecchio uccellaccio del malaugurio non la smetteva di parlare dei rituali funebri. I ragazzi della mia età se ne fregavano di cose del genere! Le leggende dei marinai, le storie di fantasmi delle Isole Sommerse e le farneticazioni di sporchi ubriaconi delle Paludi di Ken erano diventate un’ossessione per lei. Già i morti venivano incatenati sotto terra – tanto buon ferro sprecato solo per scaramanzia – e ora neanche questo bastava più? Bruciare i corpi? Be’, la Chiesa non avrebbe gradito. Sarebbe stato un bell’impiccio ai loro piani per il Giorno del Giudizio e alla nostra resurrezione per una grande e inquietante rimpatriata. Ma a chi importava? Sul serio? Osservavo la prima luce mattutina fare capolino da dietro le mura sopra di me, e provai a ripensare a Lisa come l’avevo lasciata quella mattina: vestita di luci e ombre e null’altro.

    Il rumore del bastone del ciambellano contro il pavimento di pietra mi strappò bruscamente a quei pensieri. In tutta onestà, avevo dormito davvero poco e la mattinata era stata faticosa. Se non fossi stato beccato a pochi metri dalla porta della mia camera, me ne sarei stato comodo e al sicuro lì dentro fino a dopo mezzogiorno, facendo sogni decisamente migliori di quelli che potevo permettermi da sveglio, con le continue interruzioni della regina.

    «Fate entrare i testimoni!», la voce del ciambellano era capace di rendere noiosa pure una condanna a morte.

    Entrarono quattro guardie, scortavano un guerriero nubano, alto e pieno di cicatrici, ammanettato ai polsi e alle caviglie, con le catene agganciate a un anello di ferro che gli cingeva la vita. Quella scena ravvivò il mio interesse. Avevo passato gran parte della mia gioventù a scommettere nelle fosse da combattimento del Quartiere Latino. Ed era lì che intendevo trascorrere quel che rimaneva della mia vita. Ho sempre apprezzato un buon combattimento e un sano spargimento di sangue, sempre che non fossi io quello che veniva preso a pugni e che non fosse mio il sangue versato. Alle fosse di Gordo, o alle Arene del Sangue dei Mercanti, potevi stare così vicino agli scontri che a volte il sangue ti finiva sugli stivali. Inoltre, le opportunità di scommesse erano sconfinate. Recentemente, ero persino entrato nel giro di persona, facendo combattere degli uomini a mio nome. Tizi promettenti comprati dalle navi di schiavi che battevano il Maroco. Finora, nessuno è durato più di due incontri, ma persino una sconfitta può pagare se sai piazzare bene la puntata. In ogni caso, il nubano aveva l’aria di una scommessa sicura. Forse poteva essere la volta buona per togliermi dai piedi Maeres Allus e mettere fine alle sue insistenti richieste di pagamento per tutto il brandy che avevo bevuto e le puttane che avevo scopato.

    Un meticcio magrissimo, e con un impressionante numero di denti mancanti, seguì il nubano per tradurre quei confusi rumori che la sua gente spaccia per una lingua. Il ciambellano porse una o due domande e quell’uomo rispose con i soliti sproloqui a proposito di morti viventi che risorgono dai deserti africani, improvvisando anche sul tema, stavolta, e facendoli diventare una piccola legione. Sicuramente sperava di guadagnarsi la libertà con una storia avvincente. E fece un buon lavoro. Ci buttò in mezzo un genio o due, giusto per abbondare, anche se non del tipo compagnone in pantaloni satinati che esaudisce i desideri. Alla fine del racconto fui tentato di applaudire, ma il volto della nonna suggeriva che non sarebbe stata una mossa saggia.

    Seguirono altri due poveracci, ognuno incatenato allo stesso modo e ognuno con una storiella più oltraggiosa dell’altra. Il pirata, un tipo scuro di carnagione e con le orecchie lacerate là dove l’oro gli era stato strappato via, imbastì tutta una trama a base di navi affondate che riemergevano e ciurme di uomini morti affogati. E lo slavo raccontò di scheletri che riemergevano da tumuli remoti. Antichi morti, ornati con oro e oggetti funebri risalenti ai tempi precedenti ai Costruttori. Nessuno di loro aveva un potenziale promettente per le fosse. Il pirata era atletico e di sicuro sapeva combattere corpo a corpo, ma aveva perso alcune dita da entrambe le mani e l’età era un punto a suo sfavore. Lo slavo era un tipo grosso, sicuramente lento. Alcuni uomini hanno come una specie di goffaggine che li tradisce a ogni mossa. Tornai a sognare Lisa. Poi Lisa e Micha, insieme. Quindi Lisa, Micha e Sharal. La cosa si stava facendo complicata. Ma quando altre guardie entrarono con il quarto e ultimo testimone, la regina improvvisamente catturò tutta la mia attenzione. Bastava guardare quell’uomo per capire che le Fosse del Sangue avevano trovato pane per i loro denti. Ecco il mio guerriero!

    Il prigioniero camminava sicuro e a testa alta nella sala del trono. Le guardie sembravano dei nani in confronto a lui. Uomini così alti ne avevo visti, ma non spesso. Avevo anche visto uomini persino più muscolosi, ma molto raramente. In pochissime occasioni mi ero imbattuto addirittura in uomini ancora più imponenti quanto ad altezza e forza, ma quel norreno aveva il portamento e l’aura del vero guerriero. Forse non sono proprio un mago dei combattimenti, ma di sicuro ho l’occhio per scovare i guerrieri. Aveva l’andatura da assassino e quando lo colpirono per farlo fermare, ringhiò. Ringhiò. Mi vedevo già a contare le corone d’oro che mi sarebbero piovute addosso non appena l’avessi portato alle fosse!

    «Snorri ver Snagason, comprato dalla nave schiavista Heddod». Il ciambellano, inconsciamente, fece un passo indietro e pose il bastone tra sé e il norreno, per poi leggere le note. «Venduto in uno scambio commerciale nel fiordo di Hardanger». Faceva scorrere il dito tremolante sulla pergamena. «Descrivi gli eventi che hai riferito al nostro incaricato».

    Non avevo idea di dove si trovasse quel luogo, ma chiaramente lì ad Hardanger crescevano dei veri duri. Gli schiavisti gli avevano tagliato quasi tutti i capelli, ma le poche folte ciocche che gli rimanevano erano così nere da sembrare quasi blu. Credevo che i norreni fossero tutti chiari. Tuttavia, la brutta scottatura che aveva sulle spalle e sul collo stava a indicare che non era abituato al sole. Innumerevoli segni di frustate si stendevano sulla bruciatura – chissà che male! Be’, le fosse erano sempre in ombra, quindi avrebbe apprezzato almeno quella parte dei piani che avevo in serbo per lui.

    «Parla». La nonna si rivolse direttamente al gigante: doveva aver impressionato persino lei.

    Snorri guardò la Regina dei Rossi e le riservò lo sguardo tipico di chi sta per strapparti gli occhi. I suoi erano di un azzurro chiaro. Almeno quello era normale, considerando il suo retaggio. Come erano normali i resti delle pellicce e della pelle di foca che indossava, insieme alle rune nordiche tatuate con inchiostro nero e blu all’altezza delle spalle. C’erano anche delle parole, una specie di scrittura barbara che sembrava essere stata incisa con martello e scalpello.

    La nonna aprì la bocca per aggiungere qualcos’altro, ma il norreno l’anticipò, rubandole la scena.

    «Ho lasciato il Nord da Hardanger, ma non è quella la mia casa. Hardanger è terra di acque calme, colline verdi, capre e frutteti. Quella gente là non è il vero popolo del Nord».

    Aveva una voce profonda e una leggera inflessione. Calcava ogni sillaba, ma solo quel tanto che bastava per capire che non

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