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La legione maledetta. La fortezza dei dannati
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E-book443 pagine6 ore

La legione maledetta. La fortezza dei dannati

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Info su questo ebook

Ai confini dell'impero sorge l'alba di una nuova storia

Il tribuno Marco Cornelio Rubro guida un gruppo di evasi comprati al mercato nero dell’Urbe. Ha una precisa missione da compiere che lo riscatterà agli occhi dell’imperatore: trovare quella città in Dacia che si è ribellata al potere di Roma prima di scomparire da tutte le carte geografiche. Ma è autunno inoltrato e l’ufficiale romano è cosciente che bisogna fare presto, prima che la neve impedisca il passaggio delle Porte di Ferro, il gigantesco ponte costruito dalle legioni di Traiano nel cuore delle terre del nemico. Una corsa contro il tempo ai limiti della sopravvivenza, tra pericoli, insidie e agguati in una zona governata da predatori feroci e bande di irregolari. Un viaggio al termine del quale il tribuno della “malasorte” e i suoi compagni troveranno un misterioso avamposto fortificato inghiottito dalle viscere delle montagne, i cui abitanti hanno osato stringere un patto di sangue con antiche divinità vendicative che ora sono pronte a minacciare le sorti di tutto l’impero.

Dal maestro italiano del fantasy storico

Una città fantasma
Un esercito schiavo
Un’oscura minaccia nascosta nelle viscere della terra
Un nemico mai visto prima

Hanno scritto della sua precedente saga:

«Una storia assai originale, ad ampio respiro, piena di personaggi, ricca di descrizioni e di invenzioni narrative.» 
Il Giornale

«Un avvincente romanzo storico con spruzzate di fantasy.»
Il Sole 24 Ore
Roberto Genovesi
È giornalista professionista, scrittore, sceneggiatore e autore televisivo. Ha collaborato ai più importanti periodici e quotidiani italiani tra cui «L’Espresso», «Panorama», «TV Sorrisi e Canzoni», «la Repubblica». Considerato tra i maggiori esperti italiani di videogiochi, insegna Teoria e Tecnica dei linguaggi interattivi e cross-mediali in diverse università. Con Sergio Toppi ha realizzato le biografie a fumetti di Federico di Svevia, Carlo Magno, Archimede di Siracusa e Gengis Khan. Ha pubblicato i romanzi Inferi On Net e L’angelo di Mauthausen. Con la Newton Compton ha pubblicato La legione occulta dell’impero romano, Il comandante della legione occulta, Il ritorno della Legione occulta. Il re dei Giudei, La mano sinistra di Satana, Il Templare nero e La legione maledetta. Il generale dei dannati. I suoi romanzi sono pubblicati in Spagna da Editorial Bóveda. Vigiles in Tenebris è la pagina Facebook dedicata alla Legio Occulta.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mar 2017
ISBN9788854194304
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    Anteprima del libro

    La legione maledetta. La fortezza dei dannati - Roberto Genovesi

    PUGIO

    Dacia, Alto Danubio, autunno, 103 d.C.

    Theo Cadwalla arrestò la sua cavalcatura prima di apprestarsi ad affrontare il sentiero che si insinuava nella foresta. Marco Cornelio lo assecondò fermandosi al suo fianco. Il centurione malato si accarezzò i folti ricci intricati della lunga barba grigia. Da quando Ganna era fuggita, un’espressione di perenne imbarazzo si era disegnata tra le rughe del suo volto. Ganna durante la prima parte del viaggio lo aveva scelto come suo unico interlocutore e il centurione aveva imparato lentamente a decifrare i segni che lei tracciava a terra al posto delle parole. Si sentiva tradito più degli altri e non lo nascondeva.

    «Vedi qualcosa?», gli chiese il tribuno restando in sella al suo animale.

    Il centurione scese da cavallo con un balzo che denotava un’agilità inaspettata. Portò le mani ai fianchi. Il mantello di lana marrone che gli scendeva sulle spalle si agitò lievemente spazzando la terra. L’uomo si chinò lentamente e poi sollevò la testa per scrutare l’ambiente che lo circondava.

    La foresta nella quale si stavano per addentrare era piuttosto irregolare. Il sentiero dove si erano fermati era più che altro una temporanea e parziale interruzione del dominio dei cespugli che, non trovando rocce a cui appigliarsi, avevano deciso di fare luogo al fango e alla polvere.

    Gli alberi che circondavano la strada con l’autunno avevano perso tutte le loro foglie e apparivano come rivoli di legno. Le intemperie li avevano piegati nelle fogge più strane come se avessero voluto lanciare una sfida alla forza di gravità. Protesi a stento verso le rare macchie di luce che si affacciavano dall’alto come torce stantie ferme sul limitare di un pozzo. I licheni erano i veri padroni della foresta. Avevano attaccato qualunque cosa, stringendola e soffocandola fino a farla diventare un mero piedistallo dal quale potessero lanciare la loro sfida all’ecosistema circostante.

    Non c’era umidità eppure la luce sembrava calare sotto forma di polvere iridescente che, catturando i riflessi delle piante, si trasformava in una sorta di liquame impalpabile che tentava di mimare la nebbia.

    Nonostante l’alba incipiente non si udivano rumori animali né richiami d’uccelli o sbattere d’ali. Come se quel luogo fosse stato abbandonato in fretta e furia per qualche oscuro motivo.

    «È accaduto di recente», disse finalmente Cadwalla. Si liberò lentamente dalle fasce di lino che gli proteggevano la mano destra e la posò a terra con il palmo rivolto verso il basso. Respirò profondamente. «È passata di qui e li ha fatti fuggire tutti».

    «Tutti?». Stavolta anche Marco Cornelio scese da cavallo. Ma lo fece in modo meno agile del suo compagno di viaggio.

    «La fauna del bosco. Non c’è più nulla qui», aggiunse spazzando la polvere con le dita, «a parte le impronte che ci ha voluto lasciare».

    «Ci ha voluto lasciare?».

    Cadwalla si voltò a guardare il tribuno. Poi gli alberi alle sue spalle e infine di nuovo davanti a sé. «Già. Per come la conosco avrebbe potuto cancellare i segni del suo passaggio in molti modi. Ma non lo ha fatto, non se ne è curata. Dunque le cose sono due. O aveva molta fretta o lo ha fatto apposta».

    «E perché mai avrebbe fatto una simile stupidaggine dopo essere riuscita finalmente a scappare?».

    Il centurione tornò verso il cavallo. In quel momento si udì in lontananza un tuono. «Perché probabilmente vuole che la seguiamo», disse tornando in sella al suo animale. «Facciamo presto, che sta per piovere. E la pioggia cancella le tracce. Anche quelle lasciate di proposito».

    Dacia, Passo delle Porte di Ferro, autunno, 103 d.C.

    Subito dopo aver visto Marco Cornelio e Theo Cadwalla allontanarsi in gran fretta dall’accampamento, Marcellus restò per qualche istante a riflettere accanto al fuoco ormai ridotto a pochi rami carbonizzati e tiepidi. La brezza pungente dell’alba gli fece ricordare che si era alzato dal suo giaciglio senza nemmeno coprirsi ma considerava la fuga di Ganna una sconfitta personale. Il suo padrone aveva inveito ingiustamente nei suoi confronti innumerevoli volte tuttavia stavolta lo schiavo si sarebbe frustato da solo se ne fosse stato capace. Alzò la testa con gli occhi spalancati, iniettati di sangue per la rabbia, e si accorse del silenzio che lo circondava. Si guardò attorno e notò che gli altri erano tutti in piedi attorno a lui e lo scrutavano. Con malcelata sorpresa si rese conto che, in assenza di Marco Cornelio, era lui il capo della spedizione.

    «Smontiamo il campo e facciamo come ha ordinato il tribuno», disse alla fine spazzando la polvere sulle ceneri del fuoco. «Ci recheremo al passo e aspetteremo lì il suo ritorno».

    Nessuno ebbe da obiettare. Ognuno tornò al suo giaciglio e cominciò a rivestirsi. Marco Cornelio, in una delle ultime soste presso gli avamposti romani, aveva procurato ai suoi uomini delle armature che ognuno aveva combinato in modo piuttosto creativo con indumenti atti a contrastare il freddo e l’umidità dei territori della Dacia. L’unica che aveva rifiutato di indossare un’armatura era stata Dafnia che si era limitata a un giustacuore di cuoio sotto a un ampio mantello di lana nero con cappuccio. In testa si era avvolta una sciarpa di lana che sembrava un turbante. Quanto alle armi, la ragazza si era procurata un paio di pugnali dalla lama ondulata che aveva nascosto accuratamente tra le pieghe dei vestiti. Marcellus, invece, aveva optato per il classico gladio militare, come anche Cadwalla; Rogasian aveva scelto una spada ispanica e un piccolo scudo rotondo da aquilifero che portava sulle spalle; Olios aveva trovato una maneggevole ascia a doppia lama mentre Petram, in accordo con la tradizione che lo aveva visto combattere nelle arene di mezzo mondo a mani nude, non aveva voluto alcun tipo di lama ma aveva indossato una sicura lorica ad anelli. Tutti poi avevano scelto brache lunghe che avevano infilato in comodi stivali da marcia ed elmi da ausiliario. Il nano era costretto a stringere i legacci due volte attorno al collo per non rischiare di perderlo mentre il gladiatore a spingerlo a pugni per farci entrare il testone. Secondo le regole nessuno di loro, tranne il centurione, avrebbe potuto indossare indumenti da legionario ma nei territori impervi della Dacia difficilmente qualcuno avrebbe avuto da ridire.

    Mentre Marcellus controllava i legacci della sua lorica hamata vide che Dafnia si era fermata davanti al suo cavallo e lo accarezzava sulla groppa senza muoversi.

    «Che ti succede? Qualcosa non va?», le chiese distrattamente.

    La ragazza non rispose subito. Si fermò lasciando che la mano godesse ancora un po’ del calore che emanavano i muscoli nervosi della cavalcatura. Poi si voltò. Un’espressione curiosa si era dipinta sul suo volto.

    «Stavo pensando…», disse evitando di guardare Marcellus negli occhi, «ma a noi chi ce lo fa fare?».

    Tutti gli altri interruppero ciò che stavano facendo e rivolsero a lei l’attenzione. Dafnia li passò in rassegna mantenendo lo sguardo altezzoso. «Voglio dire», continuò con voce ferma, «perché dovremmo continuare a seguire gli ordini di un capo che se n’è andato?». Sollevò un braccio e stavolta guardò Marcellus. «Forse perché ce lo ordina il suo schiavo? Perché invece non ne approfittiamo e ce ne andiamo via? Siamo liberi in un posto sperduto dove nessuno verrà mai a cercarci. La fuga di quella squinternata, tutto sommato, è stata per noi una fortuna. Approfittiamone».

    Nessuno ripose. Qualcuno guardò Marcellus ma poi tutti abbassarono lo sguardo.

    «Avete paura di lui?», insistette la ragazza. «È solo uno schiavo e poi noi siamo in quattro e lui uno solo. Se prova a opporsi lo facciamo fuori. Se non ci rompe le scatole, invece, gli concediamo di andarsene per i fatti suoi e di dire al suo padrone che lo abbiamo sopraffatto e non ha potuto impedirci di fuggire».

    Marcellus non intervenne. Con la coda dell’occhio cercò e trovò il suo gladio sonnecchiante accanto alla coperta che aveva usato per la notte. Due passi. Due soli passi e lo avrebbe raggiunto. Ma la ragazza aveva ragione. Loro erano in quattro e lui uno solo. L’unico modo per affrontare la questione, pensò mentre i sudori freddi gli percorrevano la schiena, era placare gli animi. Se solo quella maledetta pazza non fosse scappata.

    «Io sono cristiano», disse a un tratto Petram, «per noi il tradimento è un peccato molto grave».

    «Per le vestali di Giunone!», esclamò allora Dafnia con una risata, «ci mancava un cristiano nel gruppo». Lasciò il suo cavallo e si avvicinò al gladiatore con passo di sfida. «Ho sentito parlare tante volte della vostra nuova setta. Molti dei miei clienti migliori sono vostri simpatizzanti. E dimmi, colosso di Eblan», piegò la testa e lasciò vagare lo sguardo sulla muscolatura dell’uomo come se stesse assaporando una pietanza, «è vero quello che dicono sul tuo presunto dio?»

    «Non so cosa dicano sul conto del mio dio e non mi importa».

    «Eh no, deve importarti. Perché si vocifera che seguiate un dio morto. È vero che il tuo dio è morto?».

    Petram intrecciò le dita delle mani davanti all’addome. «Sì, è vero».

    Olios reagì con un’alzata di sopracciglio. Scosse il capo come se gli avessero proposto un piatto indigesto. Dafnia riprese a ridacchiare.

    «Ed è vero che è morto come un delinquente? È vero che i romani lo hanno crocifisso?»

    «Sì, è vero anche questo».

    «Dunque», affondò allora la ragazza sfiorando la spalla del gladiatore con una carezza lasciva, «voi cristiani seguireste le indicazioni di un dio morto crocifisso come il peggiore dei delinquenti. Mentre potreste dedicare le vostre preghiere e tutti i vostri sacrifici al grande Giove che non solo non è morto ma si è circondato di luogotenenti potenti e… immortali». La ragazza si voltò. «Puoi anche non rispondere. Non voglio metterti in imbarazzo». Gli girò le spalle e tornò al suo cavallo. «Ma io me ne vado».

    «Io no!». La voce perentoria di Rogasian la fece bloccare. «Io non sono cristiano e non so nemmeno chi sia questo dio morto sulla croce ma anche per i miei dèi e per il mio popolo il tradimento è un’onta. Ho dato la mia parola a Marco Cornelio che mi ha liberato dalla prigione e dalla schiavitù e lo attenderò come da accordi alle Porte di Ferro».

    Marcellus deglutì un groppo che si era trasformato in un sasso.

    «Il celta e il gladiatore hanno ragione, Dafnia», disse allora il nano Olios, «abbiamo dato la nostra parola».

    A quel punto Marcellus raggiunse con un balzo il suo giaciglio, afferrò il gladio e si diresse verso la donna. Le puntò la lama alla gola. «In effetti avevi ragione. Siamo quattro contro una», disse spingendo la lama dove le vene del collo della ragazza pulsavano nervosamente. «Pensi di poterci seguire con le tue gambe o dobbiamo legarti come abbiamo fatto con Ganna?».

    La ragazza lanciò allo schiavo un’occhiata di sfida. Con la mano spostò la lama in modo che non le toccasse più la gola. «Siete degli stupidi», disse guardando poi gli altri. «E ve ne pentirete». Si voltò e salì a cavallo.

    «Molto bene», sentenziò Marcellus e tornò a recuperare il suo bivacco. «Questione chiusa. Spero una volta per tutte».

    Quando tutti ebbero finito di fare i bagagli e di vestirsi formarono una colonna aperta da Marcellus e chiusa da Rogasian. Petram si portò alle spalle di Dafnia ma quando le passò accanto fece fermare per un momento il cavallo.

    «Il mio dio è morto», le sussurrò, «ma poi è risorto».

    La ragazza lo guardò prima incuriosita. «Certo, come no». Poi non riuscì a trattenere l’ennesima, divertita risata.

    Dacia, Alto Danubio, autunno, 103 d.C.

    Cadwalla si fermò molte volte mentre percorrevano il sentiero nel bosco. Si guardava attorno, annusava l’aria, si soffermava su particolari che agli occhi di Marco Cornelio apparivano il più delle volte insignificanti. Come un sasso rotolato lontano dagli altri o un piccolo ramo spezzato dal vento.

    «Quanto pensi che possa essere il suo vantaggio?», chiese il tribuno dopo un lungo momento di incertezza.

    Il centurione, dopo la prima breve conversazione avuta con lui quando avevano intrapreso il sentiero, si era limitato a lanciargli fugaci occhiate. Concentrato totalmente sugli indizi della fuga della sacerdotessa, aveva evitato accuratamente di aprire bocca.

    «Le tracce che ho trovato sono fresche», rispose Cadwalla, «e posso pensare che abbia abbandonato il campo non più di due o tre ore prima che ci accorgessimo della sua fuga. Tuttavia ci sono alcuni particolari che trovo singolari». Cadwalla smontò da cavallo e ripeté per l’ennesima volta tutti i passaggi del suo rito di indagine. «Si muove abbastanza velocemente ma come ti ho già detto non si preoccupa affatto di lasciare i segni del suo passaggio. Potrebbe muoversi tra i cespugli, usare i rami degli alberi per interrompere il tracciato della sua fuga e invece non lo fa». Il centurione si voltò verso il tribuno. «Segue i sentieri battuti».

    «Magari ti sbagli. Probabilmente si sente molto sicura», intervenne Marco Cornelio raccogliendo un rametto spezzato che Cadwalla aveva appena gettato nella polvere. «Non pensa che tra di noi ci sia qualcuno come te, in grado di seguire le sue tracce».

    «Troppo facile. Troppo scontato. È difficile che si comporti in questo modo solo per eccesso di sicurezza o, al contrario, per farsi riprendere. È come se seguisse un piano. E ciò che mi lascia più perplesso è quello che ci sta accadendo intorno».

    Marco Cornelio si girò su se stesso per guardare in tutte le direzioni. «Mi sembra tutto molto tranquillo. C’è un silenzio incredibile».

    «Un silenzio assordante», lo corresse il centurione. Poi indicò un punto indistinto ai suoi piedi. «Oltre alle tracce della donna ho scovato numerosi segni di passaggi animali. E vanno tutti nella stessa direzione. Come se il suo arrivo li avesse impauriti».

    «Gli animali del bosco hanno paura di Ganna? Stanno fuggendo da lei?».

    Il centurione scosse il capo. «No. Piuttosto è come se la stessero… scortando».

    I due soldati proseguirono al piccolo trotto. Era stato Cadwalla a scegliere quell’andatura. La donna stava scappando a piedi e loro erano a cavallo. Avrebbero progressivamente ridotto le distanze ma se si fossero messi a correre probabilmente molti indizi sarebbero sfuggiti ai loro occhi.

    A un tratto il bosco mutò repentinamente i colori.

    Le tinte verdi dei licheni e marroni delle terre scomparvero. Al loro posto il grigio asfittico dei tronchi rinsecchiti e il velo di sabbia di una fitta nebbia polverosa. Capace di cancellare ogni cosa. Perfino il sentiero che i due soldati romani stavano percorrendo.

    «È passata anche qui e di recente», fece Cadwalla reclinando il cappuccio del mantello. Aveva legato l’elmo alla sella lasciando che sobbalzasse sul fianco del cavallo. Per guardarsi meglio intorno. «Lasciando che il fuoco inghiottisse tutto alle sue spalle».

    «Qualcun altro sta inseguendo Ganna come noi?», gli chiese Marco Cornelio che invece continuava a mantenere sul capo il suo elmo a maschera che lasciava intravedere solo una piccola porzione del volto.

    Il centurione scosse il capo. «No. È stata lei. Ha bruciato tutto il bosco mentre lo attraversava. Ma non lo ha fatto per noi. In questo modo ha convinto anche gli animali più reticenti a seguirla».

    «Che le è saltato in mente?».

    Cadwalla si voltò verso il tribuno. Un’espressione tra l’incredulo e il rassegnato sul volto. «Non esita. Segna, brucia e fugge». Poi tornò a guardare davanti. In lontananza delle sagome aguzze si intravedevano dove i cespugli si diradavano. «In ogni caso fa molta attenzione a non cancellare le sue tracce. E si sta dirigendo verso la montagna. Mentre chi volesse allontanarsi sceglierebbe la via del fiume».

    Marco Cornelio rifletté sulle osservazioni del compagno di viaggio. «Come fa a sapere che il fuoco non cancella il suo passaggio?»

    «Ganna è abituata a vivere in posti come questo. Tutto ciò che sta facendo non lo sta facendo per caso. C’è qualcosa che l’attira. Da qualche parte su quei monti. E vuole che attiri anche noi».

    «Cosa?». Il cavallo di Marco Cornelio si affiancò a quello del centurione.

    «Non lo so ancora», fece Cadwalla tossendo. «Ce lo faremo dire da lei quando la riprenderemo».

    Dacia, Passo delle Porte di Ferro, autunno, 103 d.C.

    «Ho freddo. E ho anche fame. Maledizione a voi». L’imprecazione di Dafnia si fece largo tra i sibili del vento gelido che improvvisamente aveva cominciato a schiaffeggiare la colonna in marcia. I cavalli procedevano lentamente, il muso chino in avanti per proteggersi gli occhi dalle nuvole di polvere sollevate dagli zoccoli e rilanciate ancora più in alto dalle correnti.

    In testa al gruppo Rogasian si riparava il volto con una sciarpa di fortuna ricavata da un brandello del suo lungo mantello. Se il cielo non fosse stato coperto dalla volta di rami intricati del bosco si sarebbe visto un sole anemico fare capolino a tratti tra le nuvole. Quasi allo zenit.

    «Avete capito quello che ho detto?», insistette la ragazza. Ma il principe celta la zittì con un gesto della mano. Proprio davanti a loro era comparsa improvvisamente una roccia contorta e obliqua. Che attraversava come un ponte mozzato il sentiero immaginario che stavano percorrendo. Sullo spuntone più alto un lupo accucciato sulle zampe posteriori li osservava in silenzio.

    Marcellus, che cavalcava al fianco dell’apripista, lo indicò agli altri facendo segno di restare in silenzio.

    «È una femmina», disse Rogasian.

    «Da cosa lo capisci?», chiese lo schiavo.

    «Dalla stazza e dal colore del pelo». Il celta strinse le palpebre. «E poi dal gonfiore dell’addome. È incinta».

    «Credi che ci attaccherà?»

    «È da parecchio che ci segue. Non immaginavo che si facesse vedere in modo così palese».

    «Io sapevo che i lupi si muovono in branco».

    «Esatto».

    «Dunque ce ne sono altri».

    «È molto probabile. Ma raramente le femmine si staccano dal branco. Di solito si muovono nel mezzo con i cuccioli protette dai maschi».

    «Di solito?».

    Il principe celta si voltò a guardare la coda della colonna. La chiudeva Petram. Poi si rivolse allo schiavo di Marco Cornelio. «Se permetti prenderei io il comando. Sono abituato agli incontri con i predatori dei boschi».

    Per tutta risposta Marcellus annuì ed estrasse il gladio dal fodero che pendeva al fianco del suo cavallo.

    «Niente gesti inconsulti», lo ammonì Rogasian. «Adesso le passiamo proprio sotto. Molto lentamente. Ma non guardatela. Non incrociate mai il suo sguardo».

    «Perché?»

    «Si accorgerebbe che abbiamo paura di lei».

    «Insomma, io ho fame», azzardò ancora Dafnia.

    Rogasian si voltò di scatto. «Anche lei e tutti i suoi compagni che ancora non si sono mostrati», disse stringendo le labbra. «Dunque stai zitta».

    «Ma non vedo altri lupi in giro», sussurrò allora la ragazza.

    «E invece ce ne sono», gli rispose il principe celta lasciando che lo sguardo vagasse lontano. «E parecchi», concluse cogliendo tra i cespugli immobili baluginii. Come lucciole di giorno.

    Rogasian spronò il cavallo e fu il primo a passare sotto al ponte di roccia. Con la coda dell’occhio attento a ogni movimento della lupa che continuava a osservarlo immobile.

    Poi fu la volta di Marcellus e pian piano passarono tutti gli altri.

    A un tratto un nitrito improvviso. Rogasian si girò di scatto.

    Il cavallo di Olios aveva avuto uno sbandamento e il nano stava per finire disarcionato. L’animale aveva messo una zampa in fallo ma all’ultimo istante il nano era riuscito a riprendere il controllo della cavalcatura. Ma non a impedire che si procurasse una profonda lacerazione alla zampa posteriore sinistra.

    Rogasian si accorse del sangue che cominciava a macchiare il terreno. Chiuse gli occhi proferendo un’imprecazione.

    «Presto», disse allora conficcando entrambi i talloni nei fianchi del suo cavallo. «Via di qua. Prima che lei senta l’odore e lo comunichi al resto del branco».

    Dacia, Alto Danubio, autunno, 103 d.C.

    E così giunse il tempo delle visioni. Il bosco pareva una creatura viva, pulsante. La sua pelle, fatta di cespugli e sassi, respirava ritmicamente sotto agli zoccoli dei cavalli dei due romani che procedevano quasi a passo d’uomo. Gli alberi ai lati della strada ondeggiavano come vestali danzanti. Il vento tra le foglie dava loro voci stridule mentre i rami tempestati di nodi irregolari si protendevano come braccia scheletriche munite di artigli. Cercavano di afferrare, graffiare, ghermire le pieghe svolazzanti dei mantelli dei due soldati che a capo chino, stanchi e affamati, cercavano di vedere la lunga strada che ancora li separava da qualcosa di ignoto.

    Marco Cornelio se lo aspettava. Nella concitazione aveva lasciato le sue sanguisughe all’accampamento e non praticava un salasso completo da parecchi giorni. Il suo fisico lo stava reclamando. E lo faceva come al solito nel modo più subdolo: ingannandolo.

    Il tribuno chiuse gli occhi. Gocce di sudore freddo gli imperlavano la fronte e colavano da sotto alla visiera dell’elmo. Ogni tanto respirava profondamente con la netta sensazione che gli animali che avevano abitato quel bosco, fuggendo, avessero portato con loro anche le ultime stille di aria.

    «Fermiamoci un momento, Theo», disse stringendo la criniera del suo cavallo. L’animale si fermò ma stava procedendo talmente a rilento che l’uomo non se ne accorse nemmeno. «Non… non ce la faccio più a proseguire».

    Cadwalla tornò indietro. Liberò la borraccia, la scosse nella mano e poi la porse al compagno di viaggio. «Bevi, ti farà bene».

    Il tribuno scosse il capo respingendo l’offerta. «Se bevo ancora vomito». Sputò a terra e si piegò sul collo del cavallo come se fosse una sorta di materasso su cui riposare. «Ho bisogno delle mie sanguisughe».

    Cadwalla si guardò attorno. Strinse gli occhi. La temperatura nelle ultime ore si era abbassata progressivamente. Segno che il terreno stava salendo. «Le montagne non devono essere lontane. La troveremo prima del tramonto. Così potrai tornare alle tue sanguisughe».

    Marco Cornelio guardò il suo interlocutore riconoscendolo vagamente. Annuì e riprese la posizione eretta. Spronò il cavallo e proseguì la lenta marcia. Cadwalla ripose la borraccia e lo raggiunse.

    Procedettero in quel modo almeno per un’altra ora. Senza più parlare. Marco Cornelio stava dritto sul suo cavallo ma il centurione si accorse che teneva gli occhi chiusi. Come se si fosse assentato dal corpo.

    Poi videro la cascata. Dall’altra parte di una fenditura che spaccava il bosco come una ferita. L’acqua si gettava in un precipizio profondo e scuro sollevando nuvole di schiuma. Alle spalle della lingua d’acqua che la roccia vomitava senza interruzione si stagliava la sagoma di una formazione montuosa. Bianca, dai contorni spigolosi. Vicina.

    Cadwalla studiò lo scenario. Una lancia di roccia si protendeva verso la cascata. Obliqua, rivolta verso il cielo. Con una pendenza lieve ma continua. Arrivava quasi nel mezzo del precipizio. La fenditura si estendeva a destra e a sinistra fin dove la vista riusciva a perdersi. Niente ponti. Niente strozzature.

    Quando il cavallo di Marco Cornelio raggiunse il ciglio del precipizio cacciò un nitrito nervoso e il tribuno riaprì gli occhi. Guardò nel vuoto e gli parve di fluttuare. «Dove siamo?». Sospirò.

    «Alla fine della strada», gli fece il centurione. Poi indicò lo spuntone di roccia. «E quello è l’unico modo per andare dall’altra parte a quanto pare».

    «Hai imparato a volare?», Marco Cornelio biascicava le parole come fosse ubriaco.

    Cadwalla si spostò alla destra del tribuno e cominciò ad avanzare con circospezione lungo lo spuntone di roccia, fino a raggiungere l’estremità. Uno strano effetto ottico lo faceva sembrare un gigantesco rostro di roccia lanciato verso le montagne lontane. «Non dovremo volare. Dovremo saltare». Il centurione indicò il ciglio prospiciente della fenditura. «Ce la possiamo fare se prendiamo la giusta rincorsa. Dobbiamo solo assecondare i movimenti dei cavalli». Si voltò. «Altrimenti non vedo altre soluzioni se non quella di abbandonare la caccia e tornare indietro. E io non voglio farlo, a questo punto».

    Marco Cornelio deglutì. Brancolò sulla groppa del cavallo. Ormai non sentiva più il contatto con l’animale. Ridacchiò socchiudendo le palpebre. «No, nemmeno io».

    Cadwalla tornò indietro. Piegò la testa e scrutò il volto del tribuno. «Te la senti, mio signore?».

    Il tribuno strozzò un singhiozzo. «S… sì. Me la sento».

    Il centurione soppesò le ultime parole dell’ufficiale. Poi annuì. «Molto bene. Vado avanti io, allora». Indietreggiò fino a raggiungere l’estremità dello spuntone di roccia che si collegava con il ciglio del precipizio. Liberò l’elmo e lo indossò stringendo il soggolo. Respirò profondamente. Accarezzò la criniera del cavallo sussurrandogli qualcosa nell’orecchio e poi, improvvisamente, conficcò i talloni nei fianchi dell’animale che scattò in avanti con un nitrito prolungato. Gli zoccoli pestarono la terra scavando nell’erba. L’animale prese velocità mentre il centurione guardava a terra. Quando arrivò alla fine del trampolino naturale il cavallo staccò le zampe anteriori impennandosi. Quelle posteriori si piegarono leggermente prima di dare la spinta decisiva. Cadwalla trattenne il fiato e chiuse gli occhi. Con un tonfo che quasi lo disarcionò si ritrovò dall’altra parte della fenditura. Si voltò verso il tribuno mentre il suo cavallo scalciava nervoso. Solo allora si rese conto di quello che era riuscito a fare poiché Marco Cornelio pareva lontanissimo.

    «Visto?», gridò il centurione. «Non è difficile. Devi solo lasciarti guidare dal cavallo», mentì con un brivido.

    Il tribuno si portò al limite dello spuntone. Guardò di sotto. La valanga d’acqua precipitava incessante riempiendo l’aria di invisibili particelle umide mentre il boato sommesso della sua corsa faceva tremare il terreno. Si tolse l’elmo e lo lasciò cadere a terra. L’elmo rotolò per qualche istante e poi cadde di sotto. Nel pozzo di roccia. Probabilmente ci fu un momento in cui entrò in contatto con l’acqua ma nessun rumore particolare risalì alle orecchie del tribuno per confermarlo. L’aria fredda gli schiaffeggiò il volto facendolo momentaneamente risvegliare.

    «Avanti!», gridò ancora il centurione. «Farà tutto il tuo cavallo».

    Marco Cornelio prese la rincorsa. Si passò una mano tra i capelli raccogliendo il sudore della fronte. Strofinò l’altra sugli occhi e poi portò entrambe alla criniera del cavallo per trovare un appiglio migliore delle sottili briglie. Infine raccolse tutte le residue energie e assestò una tallonata decisa nei fianchi dell’animale. Il quale iniziò la sua corsa verso il vuoto.

    Cadwalla seguì con il fiato sospeso tutta la manovra. Mentre il cavallo avanzava al galoppo si rese conto che stava prendendo una buona velocità, perfino migliore di quella che era riuscito a raggiungere il suo. Marco Cornelio si limitava a starsene in groppa come un sacco.

    «Molto bene», sussurrò il centurione. «Adesso salta, per gli dèi», aggiunse accompagnando gli ultimi balzi del cavallo.

    L’animale di Marco Cornelio raggiunse l’estremità dello spuntone e si preparò a saltare. Staccò le zampe anteriori piegandosi all’indietro e questo movimento fece oscillare il tribuno che istintivamente afferrò la criniera e purtroppo tirò. Proprio mentre l’animale saltava.

    Il cavallo staccò ma il balzo risultò strozzato. Volò in aria distendendo le zampe. Quasi in verticale.

    Cadwalla si rese conto di quello che sarebbe accaduto molto prima che succedesse. Quando ancora uomo e animale erano sospesi nel vuoto. E in cuor suo bestemmiò.

    Le zampe anteriori del cavallo toccarono terra. Ma non quelle posteriori che scalciarono nell’aria costringendo l’animale a piegarsi all’indietro. E a trascinare con lui anche il tribuno che aveva sulla groppa.

    Marco Cornelio riuscì appena a spalancare gli occhi. I sensi ormai troppo feriti per reagire.

    «No!», urlò Cadwalla protendendosi istintivamente in avanti. Il centurione riuscì a sfiorare la mano protesa del tribuno ma non ad afferrarla.

    Il cavallo nitrì e precipitò. Marco Cornelio invece non fece un fiato ma precipitò avvinghiato all’animale. Uomo e cavallo vennero inghiottiti in un istante dalla nube di schiuma senza che Cadwalla potesse vedere l’impatto. Il centurione se ne accorse dal nitrito straziante. Poi il silenzio.

    Il centurione si mise a quattro zampe. Muto. Con lo sguardo perso di sotto. Nelle orecchie il canto roboante della cascata.

    Chiuse gli occhi. E restò così. Fermo. Impotente. Per un lungo istante. Pensò a quello che avrebbe dovuto fare. A quello che avrebbe dovuto dire agli altri. E restò in silenzio. Sperando. Troppo a lungo. «Volevi completare la tua vendetta», sussurrò infine guardando di sotto, «e invece è stata lei a finire il lavoro che aveva lasciato in sospeso tanti anni fa». Si alzò e si avvicinò al suo cavallo. Lo accarezzò e si guardò attorno. Poi si lasciò cadere a terra. E così restò. Per un tempo interminabile. Muto. Fino a quando una pioggerellina fine non gli accarezzò il volto. Spalancò gli occhi e respirò profondamente. Adesso doveva trovare un modo per tornare indietro. Guardò in alto. Un cielo scuro. Dominato da nuvole cariche d’acqua. Salì sul suo cavallo e fece per allontanarsi dal ciglio della fenditura. Ma si bloccò.

    «Aiuto», implorò la cascata.

    Dacia, Passo delle Porte di Ferro, autunno, 103 d.C.

    Il cavallo di Rogasian si impennò e nitrì per lo spavento. La sclera bianca degli occhi umida di sangue. Il principe celta era riuscito a far superare alla colonna indenne il promontorio dove era accucciata la femmina, ma non aveva preso in considerazione una tattica diversa del branco di lupi.

    I tre lupi maschi avevano tagliato loro la strada comparendo praticamente dal nulla. Le fauci aperte in un ghigno minaccioso, il folto pelo bianco e grigio gonfio e arruffato, il muso disteso per mostrare le enormi zanne ricurve, gli occhi scuri galleggianti in orbite lattiginose, le zampe posteriori piegate per preparare il balzo, quelle anteriori artigliate al terreno, la coda nervosa come un vessillo scosso dalla tempesta, il respiro cadenzato a sostenere la concentrazione del predatore incallito. Enormi per stazza. Tanto da sembrare puledri mascherati. Eppure così magri, quasi scheletrici. Per questo terribilmente affamati.

    Quello che doveva essere il loro capo era se possibile ancora più grosso degli altri. Una macchia nera dai contorni irregolari gli percorreva il dorso dal collo alla coda. Come un mantello scuro. Aspettò che il cavallo di Rogasian tornasse sulle quattro zampe per staccarsi dagli altri, l’atteggiamento impavido, sicuro, mentre lo sguardo passava oltre.

    Il principe celta cercò di riprendere il controllo del cavallo urlandogli di andare avanti ma senza esito. I muscoli dell’animale a contatto con le sue cosce, tremavano.

    Il capo branco cominciò a disegnare un percorso circolare portandosi su un fianco della colonna ma senza mai perdere le distanze. Poi emise un breve richiamo e la lupa sul promontorio si alzò e scomparve. Al suo posto comparvero altri due lupi. A giudicare dalle forme più giovani degli altri. Dunque più agili. I corridori che durante la caccia hanno il compito di sfiancare la preda.

    «Ce ne sono altri», disse in fondo alla fila Olios.

    «Li ho visti», rispose Rogasian.

    «Mi riferisco a quelli alle nostre spalle», ribatté il nano.

    Il principe celta seguì con lo sguardo la parola del compagno e si accorse del resto del branco. In tutto una mezza dozzina di capi. Magri, ansimanti.

    «Non dovrebbero essere qui», disse Rogasian, «questo non è il loro territorio. Siamo troppo a valle».

    «Dobbiamo fare i conti con quello che vediamo e non con ciò che dovrebbe essere», intervenne Petram. «Ma visto che sei così preparato, adesso saprai anche come cavartela».

    «In questo periodo dell’anno dovrebbero prepararsi al letargo. Qualcosa deve averli spaventati spingendoli ad abbandonare le tane sui monti». Mentre parlava, Rogasian contava il numero dei nemici. «Olios, scendi lentamente dal tuo cavallo e sali su quello di Dafnia».

    Il nano si guardò attorno. Alcuni dei lupi, i più spavaldi, si stavano avvicinando quasi strisciando nella polvere. «Non ci penso nemmeno».

    «Fai come ti dico, nano. Hanno scelto la loro preda. Se gli diamo il tuo cavallo ci lasceranno in pace».

    Il nano cercò lo sguardo di Marcellus.

    Lo schiavo annuì.

    Olios deglutì. E fece per smontare da cavallo. Ma il suo animale, già abbastanza spaventato dalle minacce dei lupi, considerò quel movimento improvviso come un’ulteriore minaccia. E si lanciò al galoppo superando in un attimo tutti gli altri cavalli.

    «Fermatelo! Fermatemi!», urlò il nano ballonzolando sulla groppa dell’animale come una botte su un carro caracollante.

    «Maledizione», fece Rogasian spronando il suo animale. «Seguiamolo. Non dobbiamo permettere che lo isolino».

    Una salve di nitriti si alzò nell’aria lasciando che il vento la conducesse in modo disordinato tra i cespugli e in mezzo agli alberi. Quattro sagome equine, distanziate appena tra loro, in fuga.

    Ma l’odore del sangue aveva pervaso l’aria e la fame ebbe il sopravvento sulla prudenza. Uno dei lupi scattò in avanti e addentò la zampa dell’ultimo cavallo. La bestia si impennò e Dafnia perse la presa cadendo a terra con un tonfo sordo. I lupi delle retrovie si gettarono sul cavallo scosso. Uno gli saltò sulla groppa per immobilizzarlo, un altro gli azzannò la gola mentre tutti gli altri si preoccupavano delle zampe. L’animale cacciò un nitrito disperato prima di essere sommerso da una valanga di pelo e zanne.

    Seduta nella polvere, la ragazza lanciò uno sguardo disperato ai suoi compagni. Ma prima che potesse dire qualunque cosa, una mano la afferrò dietro al collo e la sollevò come un fuscello. Petram la sistemò alle sue spalle senza permettere al suo cavallo di rallentare.

    Dafnia gli strinse le mani attorno ai fianchi muscolosi. Il gladiatore sentiva

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