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Corleone quando i sogni nascevano in Piazza Soprana
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Corleone quando i sogni nascevano in Piazza Soprana
E-book315 pagine3 ore

Corleone quando i sogni nascevano in Piazza Soprana

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Info su questo ebook

Come al solito bussò con due colpi di battaglio. Restò sorpreso alla vista della giovane che venne ad aprire: davanti a lui apparve uno splendore di ragazza, come uscita da uno scrigno di gioielli: alta, bella, dai lineamenti delicati, le guance soffuse di un rossore vivido e caldo. Il sorriso di lei, smagliante, lo abbagliò. Turiddu restò senza parole, come fulminato. Confuso, pensò di aver sbagliato porta.

Rimase inizialmente come imbalsamato mentre Lucia gli sorrideva, non credeva ai suoi occhi. Non appena se ne rese conto, ricambiò con un sorriso che diceva tutto.
LinguaItaliano
Data di uscita18 mag 2020
ISBN9788831674287
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    Anteprima del libro

    Corleone quando i sogni nascevano in Piazza Soprana - Vincenzo Ruffino

    in­fo@you­can­print.it

    Introduzione

    Que­sta è una rac­col­ta di ri­cor­di del pe­rio­do dell’età del­la fan­ciul­lez­za, mes­si in­sie­me sen­za un evi­den­te le­ga­me cro­no­lo­gi­co, so­lo una ri­co­stru­zio­ne ve­ro­si­mi­le sen­za la pre­te­sa del ri­go­re sto­ri­co né di ri­fe­ri­re gli even­ti co­sì co­me ef­fet­ti­va­men­te ac­ca­du­ti.

    Ho scritto questo libro anche per restituire alla mia città natale, più volte sfregiata da dolorose vicende di criminalità, la sua essenza di città popolata da gente di buoni princìpi, donne e uomini semplici e di cultura, giovani, scrittori, artigiani, poeti, imprenditori, patrioti, artisti, una comunità di persone che, nonostante le molte difficoltà ha dato, e continua a dare, il suo contributo alla crescita della mia bella terra.

    Cor­leo­ne era una cit­tà ani­ma­ta, pie­na di vi­ta e in fer­men­to do­po la guer­ra, con fe­ste pae­sa­ne e sa­gre che si sus­se­gui­va­no una do­po l’al­tra in una pe­ren­ne sfi­da fra quar­tie­ri a chi fe­steg­gia­va con più pom­pa il pro­prio san­to. Fi­dan­za­men­ti, ma­tri­mo­ni e bat­te­si­mi ral­le­gra­va­no pa­ren­ti, ami­ci e tut­to il vi­ci­na­to, e le fe­ste dan­zan­ti era­no ot­ti­me oc­ca­sio­ni per nuo­vi in­con­tri e nuo­vi in­na­mo­ra­men­ti.

    I ra­gaz­zi­ni di Piaz­za So­pra­na vi­ve­va­no nel­la più am­pia li­ber­tà, fuo­ri ca­sa dal­la mat­ti­na al­la se­ra tar­di. Tran­ne nei gior­ni in cui per la Cit­tà di vo­ce in vo­ce ve­ni­va lan­cia­to l’al­lar­me zin­ga­ri, es­si scor­raz­za­va­no a vo­lon­tà nel­le stra­de del quar­tie­re, i ge­ni­to­ri si­cu­ri che nul­la di ma­le sa­reb­be lo­ro ac­ca­du­to.

    La cit­tà era vi­va. I ra­gaz­zi, una vol­ta la­scia­ta la scuo­la – chi per­ché non-ne-vo­le­va-sa­pe­re, chi per­ché ave­va as­sol­to l’ob­bli­go – se­gui­va­no i ge­ni­to­ri in cam­pa­gna o ve­ni­va­no man­da­ti co­me ap­pren­di­sti pres­so gli ar­ti­gia­ni. Si­mil­men­te, mol­te fan­ciul­le era­no av­via­te a im­pa­ra­re i se­gre­ti di sar­te e par­ruc­chie­re. Ra­ra­men­te gli ap­pren­di­sti go­de­va­no di re­mu­ne­ra­zio­ne, an­che la lo­ro spe­ran­za di ra­ci­mo­la­re qual­che sol­di­no – ri­po­sta nel­le man­ce dei clien­ti al­la con­se­gna dei la­vo­ri – an­da­va in mol­ta par­te de­lu­sa. La for­mu­la li­tur­gi­ca di rin­gra­zia­men­to - U Si­gnu­ri tu pa­ga! U Si­gnu­ri t’ava a bi­ni­ri­ci­ri! - avreb­be do­vu­to gra­ti­fi­car­li, ma li la­scia­va a ma­ni vuo­te: avreb­be­ro pre­fe­ri­to di gran lun­ga e più pro­sai­ca­men­te qual­che spic­cio­lo …

    Ol­tre al­la dol­ce spen­sie­ra­tez­za del­la fan­ciul­lez­za, vis­su­ta nel­la mas­si­ma de­si­de­ra­bi­le li­ber­tà, nel rac­con­to ho cer­ca­to di rie­vo­ca­re le dif­fi­col­tà dei gio­va­ni e me­no gio­va­ni di al­lo­ra. La sar­to­ria dei miei fra­tel­li, a tal pro­po­si­to, fu scuo­la di vi­ta. Si­tua­ta di fron­te al­la chie­sa e al­la ca­ser­ma del­la Pub­bli­ca Si­cu­rez­za, nel­la mag­gio­re via che col­le­ga­va Piaz­za So­pra­na con il cen­tro, era una for­mi­da­bi­le fi­ne­stra sul­la vi­ta del quar­tie­re, sul via­vai dei suoi per­so­nag­gi. Ri­tro­vo di tan­ti ami­ci di di­ver­se estra­zio­ni, vi an­da­va quo­ti­dia­na­men­te in sce­na uno spac­ca­to del­la so­cie­tà cor­leo­ne­se, dei pre­giu­di­zi e dei pro­ble­mi del pae­se, seb­be­ne ve­la­ti, ca­muf­fa­ti e qua­si dis­si­mu­la­ti in un’at­mo­sfe­ra spen­sie­ra­ta, sin­to­mo del de­si­de­rio di af­fron­ta­re la vi­ta con leg­ge­rez­za e iro­nia.

    Chie­do scu­sa a tut­ti co­lo­ro che do­ves­se­ro tro­va­re qual­che mo­ti­vo di of­fe­sa, non vo­lu­ta, nel­la de­scri­zio­ne di fat­ti e per­so­nag­gi, che co­mun­que ri­man­go­no in­di­ca­ti­vi e in­ven­ta­ti per esi­gen­ze di nar­ra­zio­ne.Pertanto, ogni riferimento a fatti o persone è puramente casuale..

    Rin­gra­zio i ca­ri ami­ci che nu­me­ro­si mi han­no so­ste­nu­to in que­sta mia im­pre­sa, a co­min­cia­re da No­nuc­cio An­sel­mo che con il suo blog in­for­ma set­ti­ma­nal­men­te sul­la vi­ta pas­sa­ta e pre­sen­te di Cor­leo­ne, sui suoi eroi di ie­ri e di og­gi, dal qua­le ho at­tin­to a pie­ne ma­ni e che ne è per­tan­to il prin­ci­pa­le ri­fe­ri­men­to an­che se non espres­sa­men­te ci­ta­to. So­no gra­to a No­nuc­cio per la pro­fon­da ri­strut­tu­ra­zio­ne di que­sto ro­man­zo.

    Un par­ti­co­la­re rin­gra­zia­men­to va a Gio­van­ni Sa­la­di­no per aver­mi gui­da­to sul ri­go­re lin­gui­sti­co e la coe­ren­za sto­ri­ca del­la nar­ra­zio­ne: so­no gra­to a Gio­van­ni an­che per la sua mi­nu­zio­sa re­vi­sio­ne del­la pri­ma ste­su­ra del ro­man­zo.

    Un ca­ro rin­gra­zia­men­to va a Fran­ce­sco Ben­ti­ve­gna per i suoi in­co­rag­gia­men­ti e i suoi con­si­gli. Un sin­ce­ro gra­zie al­la mia ni­po­te Fi­lo­me­na Di Gre­go­li Ta­la­mo per la sua mi­nu­zio­sa ri­cer­ca di re­fu­si. Gra­zie a Va­len­ti­na Stra­da per i suoi sug­ge­ri­men­ti, e a Re­na­to Frez­za, pre­zio­so nel­le fa­si di im­pa­gi­na­zio­ne. So­no gra­to a Di­na An­sel­mo Ga­rif­fo, a Gi­na Ma­ri­no Polz­ner, a Ce­le­ste Vac­ca­ro Ma­ri­no e a mia ni­po­te Ia­na Fau­ci Na­var­ra, per aver­mi spro­na­to a scri­ve­re. Un gra­zie an­che al­la mia pro-ni­po­te in­gle­se Ma­ria Lui­sa Coc­chia­ra per l’il­lu­stra­zio­ne.

    Gra­zie a Car­me­lo Pu­leo, Mim­mo Mi­ran­na, Lu­chi­no Ga­rif­fo e i miei co­gna­ti Et­to­re e Sal­va­to­re Pic­cio­ne e tan­ti ami­ci an­co­ra per i par­ti­co­la­ri sui per­so­nag­gi di al­lo­ra.

    Si­cu­ra­men­te ho di­men­ti­ca­to qual­cu­no; in ogni ca­so un gra­zie a tut­ti.

    De­di­co que­sto li­bro a mia mam­ma, mai co­no­sciu­ta; a mio pa­pà, che fu ma­dre e pa­dre te­ne­ro; a mia so­rel­la Pi­na; ai miei fra­tel­li e so­rel­le da tem­po scom­par­si, sem­pre uni­ti da pro­fon­do e in­con­di­zio­na­to af­fet­to; so­prat­tut­to al mio ge­mel­lo Leo e a Ma­ria, ispi­ra­to­ri di mol­te sto­rie qui rac­con­ta­te.

    I bambini di Piazza Soprana

    La fon­ta­na ot­ta­go­na­le era il cen­tro del ri­tro­vo, so­prat­tut­to d’esta­te. Al­lo spun­tar del so­le ar­ri­va­va­no gli uc­cel­li­ni, uno die­tro l’al­tro co­me a ri­chia­mar­si a vi­cen­da. Svo­laz­zan­do e dan­zan­do in al­le­gria vi fa­ce­va­no so­sta per dis­se­tar­si e con il lo­ro cin­guet­tio al­lie­ta­va­no il ri­sve­glio del vi­ci­na­to. Al mat­ti­no la co­da di quar­ta­re e di bum­ma­li e il chiac­chie­ric­cio e l’ani­ma­to vo­cia­re del­le don­ne che nell’at­te­sa di riem­pir­li d’ac­qua la­men­ta­va­no l’un l’al­tra quan­to la­vo­ro le at­ten­de­va quel gior­no e la di­spe­ra­zio­ne per i mo­nel­li che di­sco­li la se­ra pri­ma era­no ri­tor­na­ti a ca­sa im­pol­ve­ra­ti e spor­chi dal­la te­sta ai pie­di. Quel­la so­sta tut­te in­sie­me al­la fon­ta­na per ap­prov­vi­gio­nar­si dell’ac­qua che i coc­ci avreb­be­ro man­te­nu­ta fre­sca tut­to il gior­no, era l’oc­ca­sio­ne cer­ca­ta per con­fi­da­re, sot­to sa­cro giu­ra­men­to, se­gre­ti di fat­ti ine­nar­ra­bi­li che a sten­to ave­va­no te­nu­to in pan­cia.

    Che at­mo­sfe­ra in­can­te­vo­le go­de­va­no nel me­se del­la tran­su­man­za co­lo­ro che, se­du­ti al cir­co­lo, ve­de­va­no sfi­la­re, an­nun­cia­ti dal suo­no lon­ta­no dei cam­pa­nac­ci, in­te­ri greg­gi che da mon­te si tra­sfe­ri­va­no a val­le sot­to gli oc­chi vi­gi­li dei ca­ni di màn­na­ra e dei pe­co­rai, al­cu­ni a pie­di e al­tri a ca­val­lo!

    Piaz­za So­pra­na, gre­mi­ta a ogni ora del gior­no, era il ri­tro­vo di tut­ti nel quar­tie­re, in spe­cie del­la fra­go­ro­sa ni­dia­ta del do­po­guer­ra. I pic­ci­rid­di fi­ni­va­no pun­tual­men­te con il ba­gnar­si a vi­cen­da con spruz­zi d’ac­qua l’uno con­tro l’al­tro. I più ar­di­ti sca­la­va­no la co­lon­na cen­tra­le e vi se­de­va­no in ci­ma con fa­re di vit­to­ria. Stan­chi, si dis­se­ta­va­no con ab­bon­dan­ti sor­sa­te di quell’ac­qua fre­sca e in­vi­tan­te. I più pic­co­li, non sa­pen­do be­re a gar­ga­nel­la, vi si af­fun­cia­va­no. Non man­ca­va­no i bir­ban­ti più gran­di­cel­li, che di na­sco­sto spal­ma­va­no il can­no­lo con pe­pe­ron­ci­no pic­can­tis­si­mo: il bru­cio­re che col­pi­va i mal­ca­pi­ta­ti al­le lab­bra era fuo­co che nem­me­no l’ac­qua riu­sci­va a spe­gne­re. I col­pe­vo­li ve­ni­va­no sma­sche­ra­ti qua­si su­bi­to: era­no i pri­mi a cor­re­re via al­lo spun­ta­re di mam­me e so­rel­le ri­chia­ma­te dal­le ur­la dei pic­co­li.

    Le esta­ti era­no cal­de e per­ciò i ra­gaz­zi­ni an­da­va­no ve­sti­ti leg­ge­ris­si­mi, con pan­ta­lon­ci­ni e ma­gliet­te, ma sem­pre con scar­pon­ci­ni, gli stes­si in­ver­no e esta­te: quel­li era­no d’ob­bli­go per­ché le scar­pe leg­ge­re si sa­reb­be­ro con­su­ma­te su­bi­to. Quan­do il cal­do si fa­ce­va in­sop­por­ta­bi­le, i più non re­si­ste­va­no al de­si­de­rio di to­glier­se­li e di rin­fre­scar­si i pie­di. Al­cu­ni fi­ni­va­no in ac­qua per­ché sci­vo­la­va­no nel fon­do vi­sci­do per il lip­po o per­ché spin­ti dai di­spet­to­si: ba­gna­ti fra­di­ci, ve­ni­va­no ti­ra­ti fuo­ri dal­la fon­ta­na da qual­che pas­san­te. I pian­ti di­rot­ti non evi­ta­va­no le scu­lac­cia­te del­le mam­me, che ri­chia­ma­te dal­le gri­da non man­ca­va­no an­che di mi­nac­cia­re i col­pe­vo­li, nel frat­tem­po in fu­ga a gam­be le­va­te.

    I gio­chi con­ti­nua­va­no nel­le for­me più di­spa­ra­te. I più pic­co­li pre­fe­ri­va­no Na­scon­di­no, i Quat­tro Can­ti men­tre al­le ra­gaz­zi­ne pia­ce­va "Mo­sca­cie­ca" e sal­ta­re su qua­dra­ti­ni di­se­gna­ti a ter­ra. I gran­di­cel­li pre­fe­ri­va­no lo "Schiaf­fo, Ma­ni in Al­to!, Ac­chia­na u Pa­tri cu Tut­ti i Fig­ghi, il Buc­ci­no", l’an­ti­chis­si­mo gio­co dei "Bad­dun­zi". I più gran­di an­co­ra si av­ven­tu­ra­va­no nei gio­chi con i sol­di nel­la spe­ran­za di vin­ce­re la som­ma per il ci­ne­ma: lo Sguaz­zet­to e il Qua­dra­to.

    Il gio­co del pal­lo­ne di­ven­ne po­po­la­ris­si­mo. Ogni an­go­lo e piaz­zet­ta era­no gre­mi­ti da bam­bi­ni vo­cian­ti in­gag­gia­ti in lun­ghis­si­me par­ti­te cor­ren­do tut­ti as­sie­me die­tro al­la pal­la: due mas­si de­li­mi­ta­va­no la por­ta, non c’era ar­bi­tro, né tu­te. Ben­ché non ras­so­mi­glias­se nem­me­no lon­ta­na­men­te a un cam­pet­to, Via Bor­go­gno­ni, in pia­no, lun­ga e con fon­do li­scio, era l’area pre­fe­ri­ta. Al la­to del­la chie­sa di San­ta Ro­sa­lia, dal­la fon­ta­na al­la cap­pel­la di San Cri­sto­fo­ro, po­te­va­no gio­ca­re di­ver­si grup­pi con­tem­po­ra­nea­men­te. Tut­ti i po­me­rig­gi, sia d’esta­te che d’in­ver­no, non man­ca­va nes­su­no: bam­bi­ni e ra­gaz­zi­ni ar­ri­va­va­no da ogni stra­da e ru­mo­ro­si ani­ma­va­no la piaz­za con ur­la di "for­za, pas­sa­mi a pal­la" e gri­da di gio­ia a ogni gol se­gna­to.

    Era la di­spe­ra­zio­ne dei non­ni di An­na Ma­ria e an­che di don To­tò che non po­te­va schiac­cia­re il pi­so­li­no; né po­te­va­no ri­po­sa­re le sue fi­glie, le ri­go­ro­se e ama­te pro­fes­so­res­se. Dal bal­co­ne ri­chia­ma­va i bam­bi­ni a fa­re si­len­zio, in­ti­man­do lo­ro di an­da­re a gio­ca­re al­tro­ve e mi­nac­cian­do di ta­gliuz­za­re la pal­la; per un po’ il to­no del­le vo­ci si ab­bas­sa­va per poi ri­pren­de­re con rin­no­va­to vi­go­re. Non di ra­do don To­tò per­de­va la pa­zien­za e al­lo­ra le sec­chia­te d’ac­qua vo­la­va­no, bec­can­do al­cu­ni mal­ca­pi­ta­ti. Tut­to era inu­ti­le, per­ché pre­sto il gio­co ri­pren­de­va. So­lo gli spun­to­ni del­la gra­ta di San Cri­sto­fo­ro ave­va­no il po­te­re di zit­ti­re e di­sper­de­re i bam­bi­ni: que­gli spun­to­ni era­no mi­ci­dia­li, im­man­ca­bil­men­te e ine­so­ra­bil­men­te la pal­la di gom­ma vi an­da­va a bu­car­si, sgon­fian­do­si per sem­pre. Il gio­co fi­ni­va lì, sal­vo a ri­pren­de­re con una fat­ta di car­ta di gior­na­li.

    Lu­ca era fra i più di­sco­li e i più ascol­ta­ti di Piaz­za So­pra­na e Giu­lia­na in­ve­ce era a ca­po del­le fem­mi­nuc­ce; en­tram­bi det­ta­va­no leg­ge nei gio­chi fra coe­ta­nei. Ami­ci sin dai pri­mi va­gi­ti, ama­va­no pas­sa­re as­sie­me lun­ghe ore sia nei gio­chi all’aper­to che in ca­sa.

    Lu­ca fu il pri­mo di due ge­mel­li a na­sce­re, un bam­bi­no­ne paf­fu­tel­lo e bel­lo. Tan­ta fu la fe­li­ci­tà nell’ac­co­glie­re il nuo­vo ar­ri­va­to che nes­su­no si ac­cor­se che ce n’era un al­tro, nem­me­no don­na ‘Nto­nia, la le­va­tri­ce, che di bam­bi­ni ne ave­va fat­ti na­sce­re a cen­ti­na­ia e ave­va una gran­de espe­rien­za. Tut­te si de­di­ca­ro­no a pu­li­re Lu­ca, con gri­da di gio­ia e di esul­tan­za sia per­ché era ve­ra­men­te bel­lo, sia per­ché tut­to era an­da­to be­ne. La mam­ma, che non ave­va mai so­spet­ta­to di por­ta­re in grem­bo due crea­tu­re, no­no­stan­te la pan­cia fos­se sta­ta più vo­lu­mi­no­sa del so­li­to, se ne ac­cor­se so­lo quan­do la se­con­da, ri­ma­sta so­la nel ven­tre, co­min­ciò a scal­pi­ta­re.

    Don­na ‘Nto­nia nel frat­tem­po era già an­da­ta via ad as­si­ste­re un’al­tra par­to­rien­te, quan­do la gio­va­ne Ma­ria cor­se a chia­mar­la. Don­na ‘Nto­nia ave­va co­per­to le­sta la di­stan­za fra le due abi­ta­zio­ni e tra­fe­la­ta sta­va sca­lan­do i due pia­ni, le ali ai pie­di mos­se dal­le ur­la sem­pre più acu­te del­la par­to­rien­te in avan­za­tis­si­mo tra­va­glio, quan­do Ma­ria la rag­giun­se:

    «Don­na ‘Nto­nia, n’avu­tru pic­ci­rid­du c’è! Cur­ri­ti pre­stu!»

    «Chi di­ci, Ma­rì? Dui sun­nu? com­mu è pos­si­bi­li, un­na s’am­muc­cia­va l’avu­tro!?»

    «Dui sun­nu, me ma­tri avi bi­so­gnu du so’ aiu­tu, sen­nò u pic­ci­rid­du mo­ri!»

    Sor­pre­sa e sbi­got­ti­ta da quel­le pa­ro­le, la le­va­tri­ce fe­ce per tor­na­re in­die­tro e cor­re­re ai ri­pa­ri co­scien­te del gra­ve dan­no che la sua inav­ver­ten­za avreb­be po­tu­to pro­vo­ca­re al se­con­do ge­mel­lo, quan­do un gri­do acu­to dell’al­tra par­to­rien­te la ri­chia­mò in al­to e i pa­ren­ti cor­se­ro a tra­sci­nar­la su:

    «Pre­stu, don­na ‘Nto­nia, u pic­ci­rid­du sta na­scen­nu. Cur­ri­ti!»

    Non eb­be scel­ta, cor­se su, fe­ce il più pre­sto pos­si­bi­le, una bel­la bam­bi­na già si sta­va af­fac­cian­do al­la vi­ta: nac­que la pic­co­la Giu­lia­na.

    Il ge­mel­lo di Lu­ca do­vet­te fa­re tut­to da so­lo per far­si stra­da, fa­ti­can­do un pa­io d’ore per su­pe­ra­re – pri­ma con la te­sta ben vo­lu­mi­no­sa e poi con le spal­le – quel cu­ni­co­lo che non fi­ni­va più e per re­spi­ra­re aria a pie­ni pol­mo­ni. Con uno stril­lo si­gni­fi­ca­ti­vo fe­ce sen­ti­re al­la le­va­tri­ce, che pro­prio in quel mo­men­to so­prag­giun­ge­va tra­fe­la­ta, la sua pro­te­sta per tan­ta sba­da­tag­gi­ne!

    «Che bed­du pu­ru chi­stu!», escla­ma­ro­no tut­te, men­tre il bam­bi­no stril­la­va a più non pos­so. An­che Lu­ca stril­la­va, pro­ba­bil­men­te sen­za sa­per­ne il mo­ti­vo; si cal­ma­ro­no so­lo quan­do sul pet­to del­la mam­ma sen­ti­ro­no di es­se­re di nuo­vo as­sie­me, ras­si­cu­ra­ti cia­scu­no dal ca­lo­re dell’al­tro.

    In real­tà il se­con­do non era poi co­sì bed­du co­me il pri­mo, an­zi, più pic­co­lo, si pre­sen­tò pao­naz­zo e qua­si cia­no­ti­co per la man­can­za d’aria, ma con una vo­glia di vi­ve­re e una fa­me non co­mu­ni.

    I due ge­mel­li e Giu­lia­na fu­ro­no bat­tez­za­ti nel­la chie­sa di San­ta Ro­sa­lia da Pa­dre Sal­va­to­re. Sem­pre vi­ci­no al­le fa­mi­glie, i bam­bi­ni nu­tri­ro­no un af­fet­to par­ti­co­la­re per lui, con­si­de­ran­do­lo un fa­ro.

    Pa­dre Sal­va­to­re era una per­so­na ec­ce­zio­na­le: ri­ser­va­to e schi­vo da ten­ta­zio­ni di do­mi­nio, era umi­le ma di ca­rat­te­re fer­mo. Asciut­to, al­to, di­na­mi­co con la gam­ba­ta agi­le, chia­ma­to ap­pun­to "Pa­dre Bi­ci­clet­ta", con fa­re ap­pa­ren­te­men­te se­ve­ro, ave­va par­ti­co­la­re cu­ra dei bam­bi­ni che lo cir­con­da­va­no fe­sto­si. Abi­ta­va con la so­rel­la in Via San Mi­che­le Ar­can­ge­lo, a me­tà del­la sa­li­ta, e vi­ve­va con po­co, de­sti­nan­do le ele­mo­si­ne al­la chie­sa e ai po­ve­ri. Col­to, ar­gu­to e sve­glio, si te­ne­va lon­ta­no dai po­li­ti­ci li­mi­tan­do all’es­sen­zia­le i con­tat­ti con le per­so­ne che con­ta­va­no ed esclu­si­va­men­te nell’am­bi­to del­le sue fun­zio­ni e pre­fe­ren­do de­di­ca­re il suo tem­po ai gio­va­ni e al­la let­tu­ra. Uni­co suo vez­zo era il fu­mo: ama­va le si­ga­ret­te con aro­ma par­ti­co­la­re.

    Lu­ca ri­ma­se or­fa­no del­la ma­dre in te­ne­ris­si­ma età; non ave­va com­piu­to nem­me­no un an­no quan­do lei se ne an­dò. La zia pa­ter­na Bin­na lo vol­le con sé nel­la sua ca­sa, in­ten­zio­na­ta a cre­scer­lo co­me un fi­glio suo. Vi ri­ma­se per po­co per­ché sua so­rel­la Ma­ria lo ri­pre­se quan­do ven­ne a sa­pe­re che in quel­la ca­sa di­mo­ra­va­no spi­ri­ti bur­lo­ni. La zà Bin­na non ne ave­va pau­ra, an­zi si van­ta­va di in­te­ra­gi­re e dia­lo­ga­re aper­ta­men­te con lo­ro, ma di­ce­va che gli spi­ri­ti spes­so le fa­ce­va­no spa­ri­re il bam­bi­no ed el­la li sfi­da­va mi­nac­cian­do­li di ri­tor­sio­ni:

    «De­lin­quen­ti, un­na mit­ti­sti­vu u pic­ci­rid­du? Vi pig­ghiu a va­stu­na­ti si un m’u fa­ci­ti tru­va­ri!»

    Lo tro­va­va pun­tual­men­te chiu­so in un ar­ma­dio o in qual­che cas­set­to­ne.

    Po­co po­te­va pe­rò Ma­ria per pro­teg­ge­re il fra­tel­li­no dal­la ri­gi­di­tà del­la ma­tri­gna che il pa­dre, Tu­rid­du, vol­le pre­sto ac­can­to a sé. Per­sa la mo­glie, sban­dò so­praf­fat­to dall’an­sia di do­ver ac­cu­di­re a una pro­le nu­me­ro­sa con due bam­bi­ni pic­co­lis­si­mi. La ma­tri­gna pre­sto si di­mo­strò ta­le, con una par­ti­co­la­re se­ve­ri­tà ver­so Lu­ca sin dal­la più te­ne­ra età, pu­nen­do­lo a ogni mi­ni­ma mo­nel­le­ria.

    In­do­mi­to, Lu­ca creb­be au­to­no­mo, il ca­rat­te­re for­gia­to ad af­fron­ta­re ogni av­ver­si­tà, pro­pen­so a vi­ve­re una vi­ta tut­ta sua, per nien­te mal­lea­bi­le, in­tol­le­ran­te ai so­pru­si e al­le pre­po­ten­ze al­trui, ma sem­pre ge­ne­ro­so e pron­to al­la di­fe­sa dei più de­bo­li. Le­ga­tis­si­mo al suo ge­mel­lo e sem­pre pre­mu­ro­so e pro­tet­ti­vo con lui, si ad­dos­sa­va tut­te le col­pe del­le lo­ro ma­ra­chel­le, com­pre­se quel­le non sue, e gli ri­spar­mia­va qual­sia­si fa­ti­ca. Se c’era un pe­so da sol­le­va­re era Lu­ca a far­si avan­ti: «E’ trop­pu pe­san­ti pi tia, las­sa a mmia, ci pen­zu io». Pron­to a in­ter­ve­ni­re se qual­cu­no lo at­tac­ca­va, me­na­va caz­zot­ti all’im­paz­za­ta, in­cu­ran­te del­la mo­le e dell’età dell’av­ver­sa­rio: non vo­le­va in ma­nie­ra as­so­lu­ta che qual­cu­no toc­cas­se il fra­tel­lo.

    Giu­lia­na era la più pic­co­la di tre so­rel­le. Bel­la, af­fet­tuo­sa e di una in­tel­li­gen­za non co­mu­ne, bam­bi­na mo­del­lo sin dall’asi­lo, pre­sto di­ven­ne la coc­co­li­na di ca­sa. Il pa­dre, ti­to­la­re di un fre­quen­ta­to sa­lo­ne da bar­ba che si af­fac­cia­va pro­prio sul­la fon­ta­na di Piaz­za So­pra­na, aven­do un de­bo­le per lei, le ri­spar­miò la fer­rea di­sci­pli­na con la qua­le ave­va an­gu­stia­to le so­rel­le mag­gio­ri, con­ce­den­do­le la li­ber­tà di gio­ca­re fuo­ri con le ami­chet­te, ma sem­pre pron­to a te­ner­la d’oc­chio.

    Ri­bel­le an­che lei, cre­scen­do, non di­sde­gna­va di sfi­da­re i ma­schiet­ti sia al­la fon­ta­na che nei lo­ro gio­chi pre­fe­ri­ti. Sfug­gen­do all’oc­chio vi­gi­le del pa­dre, lei si lan­cia­va in cop­pia con Lu­ca nel­le sfi­de a squa­dre, non te­men­do la com­pe­ti­zio­ne; la lo­ro for­te in­te­sa era un ba­luar­do. An­che Giu­lia­na spes­so tor­na­va a ca­sa ba­gna­ta fra­di­cia ma sod­di­sfat­ta di aver mes­so in fu­ga quei di­sco­lac­ci che ave­va­no avu­to la te­me­ra­rie­tà di sfi­dar­la pen­san­do di ave­re la me­glio per­ché era una fem­mi­nuc­cia.

    Sem­pre as­sie­me, Lu­ca e Giu­lia­na ama­va­no gi­ro­va­ga­re ma­no nel­la ma­no per le vie del quar­tie­re e an­da­re a cu­rio­sa­re at­trat­ti da­gli ar­ti­gia­ni che lo po­po­la­va­no. Sul­la Piaz­za So­pra­na e sul­le vie adia­cen­ti si af­fac­cia­va­no in­fat­ti nu­me­ro­se pu­tìe - mer­ce­rie, ne­go­zi di ge­ne­ri ali­men­ta­ri, un for­no elet­tri­co, un cur­da­ru, due scar­pa­ra, un oste - ol­tre a un pa­io di trap­pe­ti, un fran­to­io, il tea­tro dei pu­pi, una sa­la da bal­lo per so­li uo­mi­ni e il cir­co­lo de­gli agri­col­to­ri.

    Il la­vo­ro dei cal­zo­lai, i scar­pa­ra, in par­ti­co­la­re li la­scia­va a boc­ca aper­ta e, quan­do po­te­va­no, Lu­ca e Giu­lia­na cor­re­va­no a se­der­si sui gra­di­ni del­le lo­ro pu­tìe per as­si­ste­re al­la crea­zio­ne de­gli scar­po­ni. Tut­to di lo­ro li at­trae­va: la sce­no­gra­fia, i mo­vi­men­ti del­le ma­ni, le smor­fie sul vol­to e pu­re le can­ta­te scac­cia-fa­ti­ca.

    Uno dei lo­ro pre­fe­ri­ti era "ma­stru Vi­ché u Fod­du". Ap­pe­na lo scor­ge­va­no, uno sguar­do di in­te­sa fra i due e di cor­sa af­fa­sci­na­ti a se­der­si in pri­ma fi­la per ve­der­lo all’ope­ra. All’ap­pa­ren­za bur­be­ro – ma sot­to sot­to con­ten­to del­la lo­ro com­pa­gnia – fi­ni­va sem­pre per in­trat­te­ner­li af­fa­bil­men­te:

    «Com­mu mai si­ti cca? Chif­fà, ‘unn’avi­ti chif­fa­ri og­gi?» Li ac­co­glie­va con vol­to tru­ce.

    «Ma­stru Vi­ché, nni fa vi­vi­ri com­mu fa i scar­pu­na?» Lo pre­ga­va Lu­ca.

    «Avan­ti, as­sit­ta­ti­vi bo­ni bo­ni, sen­za fa­ri bac­ca­nu chi vi can­tu ‘na can­zu­ni!»

    E ini­zia­va con:

    «Bed­da ar­ri­spig­ghia­ti

    Ca lu son­nu è vi­ziu!

    Pro­vu u sdil­liz­ziu

    Vi­ci­no ad­do te.

    Com­mu po’ dor­mi­ri

    Ccu sta’ fri­scan­za­na,

    Sta’ tra­mun­ta­na

    Pa’ trip­pa ti va!»

    E poi con vo­ce strug­gen­te:

    «E non mi di­re lai­ro

    E non mi di­re brut­to!

    Se no mi pi­lo tut­to

    Tut­tu mi pi­le­rò!»

    E poi te­ne­ro:

    «Se aves­si un la­pi­so

    Di mar­ca fab­bi­tro

    Tut­te di­pin­ge­ria

    Le tue bel­tà!»

    In­fi­ne chiu­de­va:

    «E non mi di­re lai­ro

    E non mi di­re brut­to!

    Se no mi pi­lo tut­to

    Tut­tu mi pi­le­rò!

    Tut­tu mi pi­le­ròòòòòòòòòòò!

    ‘Nzà, ‘nza!»

    E fa­ce­va fin­ta di ti­rar­si i ca­pel­li.

    A vol­te con­ti­nua­va con:

    «Bed­da af­fac­cia­ta al la­stri­co

    Mi fe­ce un dol­ce si­gno

    Vin­ni so pà cu li­gno

    E tut­tu mi li­gnò.

    E non mi di­re lai­ro

    E non mi di­re brut­to!

    Se no mi pi­lo tut­to

    Tut­tu mi pi­le­rò!

    Tut­tu mi pi­le­ròòòòòòòòòòò!

    ‘Nzà, ‘nza!»

    Lu­ca e Giu­lia­na ri­de­va­no dal­la gio­ia, ne era­no let­te­ral­men­te af­fa­sci­na­ti.

    Ma­stru Vi­ché u Fod­du era ami­co di tut­ti, ma non ave­va nes­sun ami­co. Pic­co­lo di sta­tu­ra, ri­cur­vo su se stes­so, la fac­cia ne­ra e la bar­ba di una set­ti­ma­na, con il mez­zo si­ga­ro sem­pre in boc­ca, il na­so schiac­cia­to e lar­go, la boc­ca se­mia­per­ta a mo’ di sog­ghi­gno, as­so­mi­glia­va al vec­chiet­to dei film we­stern che gui­da­va i ca­val­li del­la di­li­gen­za. Ve­sti­to al­la me­no peg­gio, pan­ta­lo­ni li­si e ne­ri, ca­mi­ce lu­ri­de, ber­ret­to sen­za co­lo­re per l’un­to che lo co­pri­va, nei suoi po­chi spo­sta­men­ti da un ne­go­zio all’al­tro per pro­cu­rar­si da man­gia­re, cam­mi­na­va a pas­so le­sto per non fer­mar­si con nes­su­no, ri­lut­tan­te com’era a so­cia­liz­za­re con chi lo sa­lu­ta­va: non an­da­va ol­tre qual­che bat­tu­ta a chi gli chie­de­va co­me sta­va.

    La pic­co­la pu­tìa nel vi­co­let­to di Via Cam­ma­ra­ta: Ma­stru Vi­ché u Fod­du era un ar­ti­sta nel suo la­vo­ro. Il ri­to, con­so­li­da­to ne­gli an­ni, era im­mu­ta­bi­le: ini­zia­va sem­pre con l’inu­mi­dir­si ab­bon­dan­te­men­te le ma­ni con il suo spu­to, se le stro­fi­na­va ri­pe­tu­te vol­te, se le fa­scia­va con stri­sce di cuo­io, or­mai ne­re per l’uso. In­ce­ra­va ac­cu­ra­ta­men­te lo spa­go e vi ap­pli­ca­va la zac­cu­ra­fa, lec­can­do­la per ren­der­la scor­re­vo­le. Con la le­si­na bu­ca­va i bor­di del­la to­ma­ia e per i fo­ri fa­ce­va pas­sa­re la zac­cu­ra­fa e lo spa­go in­ce­ra­to e con tut­ta la sua for­za strin­ge­va i no­di con smor­fie che da­va­no la mi­su­ra del­lo sfor­zo. Ter­mi­na­va le scar­pe con l’ap­pli­ca­zio­ne di tac­ce (chio­di) e pun­tet­te di me­tal­lo, per pre­ser­va­re pun­te e tac­chi. Gli scar­po­ni fi­ni­ti da ma­stru Vi­ché ‘u Fod­du era­no ro­bu­sti, du­ra­va­no un’eter­ni­tà.

    Sar­ca­sti­co ver­so chi gli chie­de­va ri­pa­ra­zio­ni im­pos­si­bi­li, guar­da­va le scar­pe e poi ne­gli oc­chi il clien­te e poi le scar­pe an­co­ra; re­sta­va in si­len­zio e poi con fa­re ab­bat­tu­to:

    «Ma chi ci vo fa­ri cu sti scar­pi? … Ti ‘nni vai a bal­la­ri, a un ma­tri­mo­niu? T’hai a ma­ri­ta­ri? Hai a sa­lu­ta­ri u sin­na­cu?»

    «Ma­stru Vi­ché, mi l’ava a ri­pa­ra­ri pic­chì un ci n’aiu sor­di pi ‘na scar­pa no­va!»

    «U nu vi­ri, sun­nu fra­ri­ci, è meg­ghiu jit­ta­ril­li!»

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