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Le Fauci degli Abissi: Il tempo dei mezzosangue Vol.3
Le Fauci degli Abissi: Il tempo dei mezzosangue Vol.3
Le Fauci degli Abissi: Il tempo dei mezzosangue Vol.3
E-book640 pagine9 ore

Le Fauci degli Abissi: Il tempo dei mezzosangue Vol.3

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Info su questo ebook

Trovate tutte le mie opere, le curiosità, i contatti e altro su di me sul mio sito ROBHIMMEL.COM
Questo è il terzo e ultimo volume della trilogia high fantasy: Il tempo dei mezzosangue.

Ogni scelta comporta dei sacrifici.

La campagna di conquista dell’impero Danador sta per collassare su se stessa. Tra i regni sottomessi torna la speranza e cominciano ad accendersi le prime scintille di rivolta, pronti a reclamare la propria libertà a costo della vita.
Tuttavia il vero piano dell’Imperatore Kedrax è passato in sordina, ma quando i Mietimorte svolgono l’incarico affidato loro, la vera minaccia si palesa: le Fauci degli Abissi stanno per spalancarsi.
Separati dagli eventi e sparpagliati in varie parti del continente, Jandar, Lenara, Ethan ed Eliadar, tentano di opporsi a questo flagello con scontri che coinvolgeranno potenze, dèi, arcidemoni e il dragone Namias.
La vera battaglia ha inizio.
LinguaItaliano
EditoreAetermundi
Data di uscita14 giu 2020
ISBN9788835848646
Le Fauci degli Abissi: Il tempo dei mezzosangue Vol.3

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    Anteprima del libro

    Le Fauci degli Abissi - Rob Himmel

    PRIMA PARTE

    SCELTE

    La solitudine è tra le cose più avvilenti. È questo che direbbero i mortali, vittime dell’innato bisogno di stare in mezzo ai loro simili. La ricerca dell’amore e dell’approvazione altrui è una necessità intrinseca delle fragili creature, soltanto i forti sanno comprendere il valore della solitudine. L’ineguagliabile opportunità di analizzare il proprio essere compiendo l’introspezione necessaria all’evoluzione del proprio io. Un passo necessario se si vuole progredire nella propria crescita, oltre la normalità. La solitudine può essere una sofferenza, ma anche un dono se ben sfruttata. La solitudine è il cammino che spetta agli individui con compiti od obiettivi fuori dal comune, è il tragitto obbligatorio per coloro che fanno la differenza.

    Memorie di Eleazar,

    Quarto tra i Primi Originali.

    1. Allenamento

    Jandar rotolò di lato e una saetta di fuoco gli passò accanto. Quella successiva lo avrebbe ustionato, se non avesse alzato il braccio e deflesso il colpo attivando lo scudo magico infuso nella placca d’acciaio posto su di esso. Ne arrivarono altre e usò entrambe le protezioni per difendersi, riuscendo a deviare e parare tutti gli attacchi.

    Grazie per il suggerimento, Feniceoscura .

    «Eccellente» si complimentò Muvlon, il mago da battaglia di Vermandor.

    Lui sorrise soddisfatto e si girò verso le maghe nella speranza che lo stessero guardando.

    «Ma adesso vediamo se i tuoi nuovi scudi magici resisteranno a qualcosa di più… impegnativo.»

    Il mago prese qualcosa dalla propria sacca, parevano delle palline di una sostanza grigiastra, recitò la formula in ansindium e le lanciò. Queste vennero avviluppate dalle fiamme, ingrandendosi. Rimbalzarono sulla sabbia fino a raggiungere Jandar, mentre una luce rossa, proveniente dal nucleo, pulsava a ritmo crescente. Infine esplosero gettando lingue di fuoco nei dintorni. Quando tutto finì, non rimase che fumo.

    Jandar, che aveva deciso di non rischiare i due scudi sui bracciali per resistere all’attacco, aveva invece attivato il globo protettivo legato al suo amuleto che ora stava brillando sotto la camicia: lo zaffiro con la scaglia argentea di Namias. Lo stregone si trovava al sicuro dentro un’energia sferica bianco-azzurra.

    «Eccellente!» Muvlon applaudì. «Ti sei creato un’ulteriore barriera magica, più resistente di quelle nei bracciali.»

    Jandar annuì fiero e dissolse lo scudo. Il suo sguardo si diresse di nuovo verso le maghe che si stavano allenando poco distanti da loro.

    «Esatto.»

    «Sbaglio o sei più distratto del solito, oggi?»

    Lo stregone tornò sul mago e finse di non capire.

    Muvlon gli si affiancò. «Ti vedo molto interessato ad Alethia e Lenara…»

    Sollevò le spalle. «Semplice curiosità.»

    «La curiosità può essere pericolosa, alle volte.»

    Corrugò la fronte e osservò il mago, ma servì a poco: un’illusione gli conferiva l’aspetto di un uomo obeso, con il volto rotondo e la barba folta, dove le espressioni erano difficili da decifrare. D’altronde anche Jandar era celato sotto un’illusione, come la regina e l’ex consigliera dell’impero.

    Tutto merito dei braccialetti che indossavano, creati da Lenara con l’aiuto di Alethia, proprio allo scopo di muoversi liberamente ad Aghoria, per incontrarsi di nascosto nell’arena dove si allenavano nei combattimenti magici ormai da settimane.

    «E pensare che questa arena ospitava eventi famosi in tutta Erebia» disse Muvlon guardandosi attorno. «Mi sarebbe piaciuto assistervi almeno una volta.»

    «Guardiamo il lato positivo: possiamo usarla come campo di addestramento senza che nessuno venga a impicciarsi» rispose Jandar mentre teneva gli occhi fissi su Lenara, o meglio, sull’illusione che la nascondeva.

    Muvlon smise di osservare l’arena e tornò sullo stregone. «Hai sfruttato la mia esperienza, le risorse della regina e il tuo potere per infondere nei bracciali d’acciaio degli scudi magici, ma come hai fatto per la barriera?»

    Jandar lo guardò esibendo un ampio sorriso. Infilò la mano nella camicia e, tirandolo dalla catenella, mostrò uno zaffiro ovale incastonato in fasce d’argento.

    «Questa gemma mi è stata donata dal mio maestro di stregoneria. È da tempo che la uso come riserva di potere, infondendoci la mia energia ogni sera, prima di dormire. Così ho pensato di applicarle una modifica, in modo da darle una seconda funzione.»

    «Cosa c’è al suo interno?»

    «Una scheggia d’argento.»

    «Davvero bizzarro. E cosa hai fatto esattamente?»

    Jandar girò l’amuleto tra le dita. «Ho rafforzato il contenitore dello zaffiro usando dell’argento che ho incantato con delle rune. Adesso posso decidere se e quando attivare la barriera, in modo che l’ equindaher attinga dalla riserva di potere al suo interno. Oppure posso lasciare che la difesa si attivi da sola in caso di pericolo.»

    «Ingegnoso. Questo è un lavoro degno di un arcimago con grande esperienza. Impari davvero in fretta e continui a sorprendermi.»

    «Per oggi può bastare» disse Alethia avvicinandosi. Appariva come una contadina dai capelli scompigliati. «Tornate alle vostre faccende, ci ritroveremo qui domani, alla solita ora. Le nozze sono vicine e dobbiamo essere pronti.»

    Jandar osservò Lenara: appariva come una sguattera con il viso sporco di fuliggine e i capelli raccolti in un panno. Non c’erano né occhi celesti né lentiggini che la contraddistinguevano.

    «A domani» salutò Lenara prima di andare via, poi fece lo stesso la regina.

    «Vuoi restare là impalato o andare via?» lo rimproverò Muvlon.

    ***

    «Oh… ti prego… Basta, basta!» singhiozzò Lenara, agitandosi nel letto e ridendo a causa del solletico. Quando il momento di ilarità terminò, si fece seria e guardò in direzione della finestra sbarrata. «Quanto pensi che durerà… tutto questo? La notte non potrà nasconderci per sempre.»

    Lui si stese sul fianco, puntellando il gomito e poggiando la testa sul palmo. La guardò dritta negli occhi. «Perché adesso? Sarebbe meglio lasciare simili pensieri a momenti meno belli… questi dovremmo dedicarli soltanto a noi due.»

    Lenara sospirò. «Hai ragione, ma ogni volta che lascio il castello di nascosto rischio di essere scoperta da Varo. Se dovesse accadere prima delle nozze…»

    «Non accadrà. Sei troppo astuta per lui, inoltre sei un’esperta di magia illusoria. Non capirà mai quello che stai facendo, e comunque mancano pochi giorni alle nozze, poi attueremo il nostro piano.»

    «E dopo, cosa faremo? Una volta restituito il regno nelle mani di Lorigan, che ne sarà di noi due?»

    Lui le accarezzò il viso, le baciò la spalla con delicatezza e infine rispose: «Andremo via, lontano da tutti. Costruiremo il nostro futuro secondo ciò che desideriamo. Io e te».

    «Sarebbe bello…»

    «Ma…?»

    «Oh Jandar, sai bene quali sono le mie colpe. Non posso far finta di nulla e andarmene.»

    «Ricordo ancora i primi giorni che abbiamo passato assieme…»

    «Oh, li ricordo anch’io! Mi trafiggevi con lo sguardo, come fossi stata un mostro.»

    Lo stregone sorrise. «Vero, non sapevo chi eri, se non quello che avevo sentito sul tuo conto e quello che avevi fatto per sabotare il nostro incarico.»

    «Scusami… me ne pento tutt’ora.»

    Lui le ravviò una ciocca di capelli dietro l’orecchio. «Lo so, percepisco quel che provi, così come feci in quei giorni. Eri una donna piena di dolore, di rabbia, a causa della perdita del tuo amico Seth e di come Kedrax ti ha manipolata e barattata. Hai sofferto molto, e sento che quel dolore è ancora forte dentro di te, accompagnato da un immancabile rancore.»

    «Ma si allevia quando siamo insieme» lo interruppe, fissandolo negli occhi.

    Jandar la baciò. «Sei stata usata e manipolata come chiunque altro. Sei una vittima, lo siamo un po’ tutti. Ecco perché penso che sia giunto il momento di vivere qualcosa di bello. Non puoi continuare così, e io voglio restare assieme a te.»

    La maga fece una smorfia inarcando un angolo della bocca. Con dolcezza lo accarezzò. «È quello che voglio anch’io. Sei l’unico che riesce a vedere dentro di me, a capirmi, ad accettare quello che ho fatto e ciò che sono. Sei una persona stupenda…»

    «Sento che sta arrivando un altro ‘ma’» ironizzò Jandar, con espressione scema.

    Lei storse la bocca in un mezzo sorriso. «… Ma sei anche Gelotempesta, in molti fanno affidamento su di te. Sono stata la causa di tanto dolore e distruzione, non posso anche privarli di te. Sono certa che se me ne andassi sarebbero contenti, ma non accadrebbe lo stesso con te.»

    «E quello che voglio io? Si parla di me, della mia vita. Sono io a decidere.»

    «Lo pensi sul serio?» La domanda parve riecheggiare nella stanzetta spoglia e illuminata da qualche candela. «Ormai è da diverso tempo che ci incontriamo qui, tutte le notti. Non c’è stata solo passione, abbiamo condiviso molto di più. Parliamo davvero tanto, è una cosa di noi che adoro. Superati i preconcetti iniziali, ci siamo avvicinati fin dai primi giorni in cui ci allenavamo nell’arena. È stato così naturale… Ecco perché ho imparato a conoscerti, piuttosto bene, oserei dire. Non mi serve la tua empatia da nephilim per sapere quel che provi e come vivresti la nostra fuga.» Si mise sul fianco anche lei, speculare a lui. «Sei un uomo con un forte senso di giustizia e del dovere. Agisci pensando prima agli altri che a te.»

    «Tu sai che non è del tutto vero, ti ho parlato di quello che ho provato a Darjia e a Suldia…»

    «E ho letto il senso di colpa nei tuoi occhi, questi bellissimi occhi verdi, carichi di speranza.»

    «Lena, il senso di colpa non è sufficiente a giustificare il piacere che ho vissuto nell’uccidere con la stregoneria, nel sentire tutto quel potere.»

    «Esatto, il senso di colpa non è sufficiente… per entrambi.»

    Jandar scosse la testa, iniziando ad agitarsi. «Non volevo dire questo…»

    Lei lo interruppe posandogli un dito sulle labbra. «Tu sai quel che hai provato e non sarai mai soddisfatto finché non avrai rimediato. Se andassimo via vivresti sempre con questo rimorso e penso che io farei lo stesso.»

    Lo stregone sbuffò. «Allora attueremo il nostro piano durante le nozze, ci sbarazzeremo di Kedrax e saremo liberi di andare per la nostra strada.» Lei aprì la bocca per replicare, ma lui la fermò. «No, Lena, faremo questa cosa e andremo via. Non ho scelto di essere un nephilim, né di avere l’empatia e la stregoneria. Farò quel che va fatto, ma poi ci dedicheremo a noi. Io scelgo te al potere, alla fama e a qualunque altra cosa. Tu sei tutto quel che desidero.»

    Lenara lo spinse affinché poggiasse la schiena sul letto, poi gli salì sopra e lo baciò con trasporto. «Sei incredibile, sai?»

    Jandar inarcò un sopracciglio fingendosi pensieroso. «Credo di averne una vaga idea.»

    «Stupido!» Dopo una breve risata, tornò seria. Guardò il suo volto sotto il gioco di ombre e luci delle candele. Fissò i suoi occhi che, anche in quelle condizioni di penombra, irradiavano uno scintillio verde.

    «Sai, c’è una cosa che non ti ho raccontato…»

    «E sento che adesso lo farai.»

    «Sono seria, al contrario di te che fai sempre lo scemo.»

    «Allora sono tutt’orecchi, Lena, anche perché sono schiacciato sotto di te, non posso scappare.»

    Lei fece un’espressione furba. «Posso sempre spostarmi, se vuoi…»

    «No, posso resistere ancora, sono abbastanza forte. E poi sei così morbida.»

    Lenara gli diede un buffetto sulla spalla. «Io ti ho incontrato molto prima di quando ci siamo visti ad Aghoria.»

    Jandar si fece serio. «Che cosa vuoi dire?»

    «Uno dei miei incarichi mi portò a Vermandor. Fu là che ti vidi la prima volta, dinanzi l’Argletiam. Ricordo ancora la tua espressione, imbambolato a guardare la scuola di magia. Ma soprattutto ricordo i tuoi occhi che brillavano al sole, ne fui colpita.» Alzò la mano, mostrando l’anello al dito: una banda d’argento con al centro un’altra composta da varie schegge di smeraldo. «Lo vedi questo? Lo comprai soltanto a causa dei tuoi occhi. Volevo qualcosa di altrettanto verde e luminoso.»

    «Scherzi?»

    Lei scosse la testa. «Girai per ore al mercato di Vermandor e non fui soddisfatta finché non trovai questo anello. Pensavo fosse bello e utile come riserva di magia, come fai tu con il tuo amuleto, ma nella piramide ho scoperto che si tratta di Erheyhl , una delle creazioni del Fabbro Ancestrale, nonché Primo Originale Adathar.»

    «Ti sarà costato un’enormità.»

    «In realtà no, credo che nessuno si sia accordo del suo reale valore.» Lenara guardò l’anello prima di continuare. «Io stessa, dopo averlo scoperto, ho usato molti incantesimi di identificazione per scoprirne le proprietà, ma non è emerso nulla. Penso che, qualunque qualità abbia, non siano visibili alla magia che conosciamo. In fin dei conti fu creato con uno dei Tomi della Supremazia , quindi immagino che sia al di là delle nostre capacità. Magari un giorno scoprirò cos’ha di speciale…»

    Jandar esibì un sorrisetto. «Quindi, alla luce di quello che mi hai raccontato, potremmo dire che, in un certo senso, è come se una parte di me fosse sempre con te… e da ancor prima di conoscerci.»

    Lei ci pensò sopra qualche secondo. «Sì, in effetti potremmo dire che è così. Ma adesso non ti montare la testa, vorrei ricordarti che prima di me non sapevi nemmeno come avvicinarti a una donna.» Scoppiò a ridere.

    «Ahia, questo è un colpo basso» protestò lui, fingendosi offeso. Poi la guardò negli occhi, con espressione così profonda che Lenara arrossì. «Malgrado ciò, adesso sono così vicino a te che non vorrei più allontanarmi.»

    «Stupido…»

    «Non sto scherzando, Lena. Grazie a te ho scoperto quel che non avrei mai immaginato. Non ho intenzione di rinunciarci.»

    2. Il caduto

    «Eh eh! Sale l’ombra sulla montagna, scende l’onta sulla cagna!» sghignazzò Jackar.

    Lamanera si trattenne a stento dall’impulso di trafiggerlo con Sibilo . Non sarebbe nemmeno stato semplice colpirlo, dato che lui si arrampicava sulla vetta come fosse uno stambecco, mentre lei cominciava ad arrancare a causa della stanchezza e dell’altitudine raggiunta.

    Viaggiare con Jackar era diventato estenuante, soprattutto perché avevano attraversato l’intero continente. C’era voluta un’infinità di tempo passato in pessima compagnia, contando che avevano lasciato la Piramide di Garavesh verso la fine dell’estate e, passando per Gozar’vad per una sosta, avevano raggiunto l’isola Mascella di Drago in autunno inoltrato. Il tutto per liberare una sottospecie di dio caduto, o almeno questo era quel che dicevano le istruzioni che le aveva consegnato Feniceoscura nella piramide.

    Lei non comprendeva la ragione di quell’incarico, ma poco le importava se non per ottenere quel che desiderava: l’immortalità utile a perseguire la sua vendetta.

    Kedrax gliel’aveva promessa alla fine di questo secondo e ultimo compito. Feniceoscura gliel’aveva garantita se lei si fosse alleata con lui nel momento opportuno, cosa che aveva fatto tagliando la gola di Seth. Non solo, l’elfo le aveva detto che sapeva chi stava cercando e dove trovarlo.

    Lamanera non dubitava che lo stregone sapesse molto più di Kedrax al riguardo, eppure qualcosa la rendeva irrequieta. Poteva fidarsi di lui?

    Mai chiedere aiuto, mai dare le spalle, mai fidarsi. Era stata questa la sua filosofia di vita da quando aveva abbandonato Shikoghin e il suo orrendo passato.

    Jackar saltellò euforico. Con la manica penzolante indicò una parete rocciosa più avanti. «Oh oh! Una porta per la sorte avversa, una morta per la corte perversa!»

    Lamanera terminò l’arrampicata su uno spiazzo naturale, raggiungendolo. Studiò la porzione di cima che le si parava davanti: aveva la superficie liscia, contornata da una serie di incisioni a formare due colonne congiunte a un’arcata.

    Che sia l’ingresso? Si chiese la donna.

    Il messaggio dell’Imperatore diceva che Jackar poteva aprire la porta d’accesso, ma che solo lei poteva varcarla. Tuttavia spettava al mascherato liberare il prigioniero di quel luogo, nessun altro ne sarebbe stato capace.

    Mentre si chiedeva cosa dovesse fare, Jackar trotterellò in avanti e poggiò le mani sulla superficie di pietra. Dapprima parve non accadere nulla, poi la vetta prese a tremare come scossa da un terremoto. Le incisioni si riempirono con un bagliore biancastro e cominciarono a pulsare in maniera crescente.

    Lamanera era troppo stanca per usare l’ Occhio del Ki nella sua forma più concreta, sotto concentrazione, e quindi decise di non ricorrervi. Tuttavia sfruttò le proprietà incantate della maschera in jezaton che le consentivano di distinguere l’essenza vitale delle creature più grandi.

    Questo le bastò per intravedere un flusso di energia spropositata passare dalle mani di Jackar fino alla superficie di pietra, delineando un sigillo di luce grande quanto la parete di una casa modesta. Il tutto traballò, generando delle crepe che si ramificarono lungo il muro prima che si sbriciolasse con un boato.

    Liberato l’accesso, dall’interno provenne una corrente d’aria irrancidita. Delle scale ricavate nella pietra conducevano verso il basso, nell’entroterra della montagna.

    Jackar fece un inchino goffo, invitandola a entrare. «Uh uh! La porta è aperta, aperta è la porta!»

    «Dopo di te» disse atona l’assassina.

    «Hi hi! Noi non possiamo entrare se tu non ci fai entrare. Entreremo quando ci farai entrare, per entrare, allora entreremo» ribatté lui, inclinando la testa da spalla a spalla.

    Lamanera si diresse all’interno senza aggiungere altro. D’altronde sapeva che Jackar non sarebbe riuscito ad andare oltre, almeno in teoria. Però voleva scoprire se le informazioni dell’Imperatore fossero vere.

    Accantonando la questione, scese le scale affondando nell’oscurità. Un tratto breve che venne interrotto da un bagliore distante. Seguì il percorso guardandosi attorno con circospezione. L’assassina restò vigile perché quel luogo le trasmetteva una sensazione insolita.

    Ormai erano anni che non provava paura e, nonostante ricercasse l’immortalità, nemmeno la morte le faceva effetto. Aveva scelto di essere una dei monaci che sacrificavano le emozioni per poter annullare il proprio hikrit . Questo per riuscire a essere invisibile a qualsiasi incantesimo o sensore magico, oltre che all’ Occhio del Ki di qualunque altro monaco. I monaci dei clan oscuri diventavano delle ombre capaci di penetrare in qualunque luogo, celate dalle tenebre.

    Doveva essere la ragione per cui l’Imperatore l’aveva scelta, d’altronde chi altro poteva oltrepassare tutte le barriere magiche di quel posto? Restava il problema di fare entrare anche Jackar, però.

    Procedette lungo la galleria naturale rivestita da rune sinuose che somigliavano a quelle degli elfi, solo che erano ancor più eleganti. Durante il percorso rifletté su Jackar, nonostante in passato avesse usato l’ Occhio del Ki su di lui, non aveva scorto il potere che aveva appena dimostrato di avere.

    Com’era possibile contenere tutta quella energia? Come riusciva a controllarla o a tenerla a bada? Doveva esserci un mistero attorno a Jackar, qualcosa che chiunque ignorava fatta eccezione per l’Imperatore.

    Scese nell’entroterra seguendo l’unica via disponibile. Non si rese conto di quanto stesse andando in basso, né da quanto tempo stesse camminando. Aveva la sensazione di raggiungere la luce in fondo al tunnel, eppure pareva non avvicinarsi mai, come se non progredisse di un solo passo.

    Attinse all’ Occhio del Ki per studiare l’ambiente circostante trovando soltanto un flusso di energia perpetuo lungo le mura della galleria. Doveva essere un luogo antico e potente.

    Alcune domande le si affollarono nella mente, ma decise di ignorarle giacché avrebbe assolto al suo incarico e reclamato quanto le spettava dall’Imperatore, oppure da Feniceoscura. Poi sarebbe andata per la sua strada, tornata in Shikoghin, avrebbe creato un clan proprio e completato la sua vendetta in maniera definitiva contro i Pugnali del Destino: gli artefici di ogni sua sofferenza.

    Loro le avevano tolto tutto, uccidendole i figli e il marito davanti agli occhi. L’avevano violentata in gruppo, fingendosi dei banditi. Soltanto anni dopo aveva scoperto l’identità dei suoi aguzzini. E tutto per indurla ad abbracciare le tenebre e diventare l’assassina più spietata che esistesse. Aveva abbandonato quel che era sempre stata, Yori, per diventare qualcos’altro, rinunciando alle emozioni e seppellendo il dolore. Poi, scoperta la verità, aveva ottenuto una vendetta parziale, uccidendo i membri del clan che le aveva rovinato la vita, ma senza mai capire chi fosse stato l’occidentale dagli occhi arancioni che in quella brutta storia aveva svolto il ruolo del mandante.

    Era certa che un giorno l’avrebbe scoperto e avrebbe ottenuto la sua vendetta. A costo di vagare per l’eternità nel suo corpo immortale. La ricompensa, però, dipendeva dall’esito di questo incarico.

    Procedette lungo il tunnel finché non si aprì su una spelonca dall’ampiezza sbalorditiva. Un ponte di pietra tagliava in due un baratro senza fine, creando una passerella sospesa nel vuoto. Al termine c’era una piattaforma circolare con al centro un pilone che arrivava fin sul soffitto. La parte superiore era ricoperta da cristalli bianchi che ne circondavano uno più grande nell’epicentro. Insieme producevano una luce tenue, sufficiente a illuminare l’ambiente sottostante.

    Una catena, che presentava dei sigilli incisi sugli anelli, passava sulla vita del prigioniero alla stregua di una cintura, bloccandolo contro la massiccia colonna. Poi gli girava attorno alle braccia, ancorandone i polsi alle pareti più distanti, attraversando il baratro.

    Lamanera procedette sul ponte osservando il vuoto sotto di sé: nulla più che oscurità. Sulla passerella erano presenti dei glifi sconosciuti, parecchio articolati.

    «Una visita» disse il prigioniero alzando il capo per guardarla. «Non ne ricevo una da secoli, o forse millenni? Non saprei dirlo dato che qui il tempo è immutabile. A cosa devo l’onore? I principati hanno deciso di mettere fine alla mia esistenza? Sarebbe liberatorio.»

    L’assassina continuò ad avvicinarsi studiando l’uomo.

    Il prigioniero indossava un pantalone bianco e una camicia del medesimo colore, in parte aperta sul petto. Il suo volto era semplice, ma con lineamenti aggraziati e il taglio degli occhi accattivante. Le iridi brillavano di un giallo innaturale, simile a oro, come luci nell’oscurità. Lisci capelli biondi gli cadevano sopra le spalle.

    «Nessuna creatura immortale può attraversare l’ingresso e tutto ciò che ne consegue fin qui» affermò il prigioniero, «questo significa che sei una comune mortale. Un’assassina, direi.»

    Lamanera osservò la catena, realizzando che era impossibile spezzarla solo con l’utilizzo della spada. C’era un’energia che vi fluiva attraverso, saldando ogni singolo anello.

    «Forse non sei qui per uccidermi» suppose lui tra sé e sé. «Che qualcuno ti abbia inviata a liberarmi? Sono certo che tu non possa spezzare questa catena, però. Seppure uno dei principati potesse comparire qui attraverso una manipolazione dello spazio, ingannando le barriere di questo luogo che altrimenti gli impedirebbero di entrare, non potrebbe sfiorarla neppure volendo. La catena è impregnata di un sortilegio potente che impedisce loro di toccarla. Mentre ci vorrebbe la forza di centinaia e centinaia di uomini per romperla. Nessun comune mortale potrebbe riuscirci. Tuttavia… non puoi essere stata tu a sbloccare l’accesso alla mia prigione.»

    Furono sufficienti quelle parole per far capire a Lamanera l’importanza di Jackar. Se l’altro Mietimorte era riuscito a infrangere il sigillo sulla porta con la sua energia, forse poteva fare altrettanto con la catena. Ma come poteva farlo arrivare fin laggiù, senza che venisse fermato da un intero percorso segnato dalle rune che costituivano delle barriere magiche invalicabili?

    Il prigioniero ridusse gli occhi a due fessure puntandoli su di lei. «Dimmi, mia visitatrice, per quale ragione sei qui?»

    «Liberarti.»

    «Per volontà di chi?»

    «Un uomo potente.»

    «E cosa vorrebbe da me, questo uomo potente

    «Non mi è dato saperlo.»

    Il prigioniero chinò il capo, con lo sguardo pensieroso rivolto ai piedi scalzi.

    Lamanera fece un paio di passi verso di lui, arrivandogli a un metro di distanza. «Adesso tocca a me farti alcune domande. Chi sei?»

    «Ero uno dei principati celesti. Ma quando decisi di intervenire, scendendo tra i mortali per mettere fine a un’ingiustizia, fui accusato di aver interferito con il vostro libero arbitrio. Inoltre, così facendo, palesai la nostra esistenza.»

    «Sei una specie di divinità?»

    Il prigioniero proruppe in una risata divertita. «Molti di voi mortali ci venerano come tali, affibbiandoci nomi diversi con delle aree di dominio. Ma fate lo stesso con gli arcidemoni dei Nove Abissi. Quindi lascio a te decidere se lo ero oppure no. Di certo, adesso, non sono più nulla. Sono stato relegato in questo corpo mortale, imprigionato qui per l’eternità… a meno che tu mi liberi per davvero.»

    Lamanera si morse le labbra. Le indicazioni fornitele dicevano che, una volta preso il prigioniero, doveva condurlo dall’Imperatore, anche contro la sua volontà.

    «Come posso toglierti questa catena?» gli chiese.

    «Come hai fatto a rompere il sigillo sulla porta?»

    «L’ha fatto la persona che è venuta con me.»

    Il prigioniero mugugnò. «E come sei riuscita ad arrivare fin qui, senza che le protezioni di questo luogo ti bloccassero?»

    «Ho soppresso la mia energia vitale, in modo da non essere percepita.»

    «Notevole» si complimentò. Il suo sguardo iniziò a vagare per la spelonca. «Questa prigione è stata concepita affinché io non potessi uscire e nessuno potesse raggiungermi. Per renderlo possibile c’è bisogno di una quantità di energia impressionante, cosa che difficilmente si può rendere permanente senza un metodo di alimentazione costante. Quindi immagino che ci siano degli elementi perpetui, come il sigillo all’ingresso e quelli sugli anelli della catena, e altri che dipendono da questo flusso.»

    Lamanera si sedette a terra con le gambe incrociate e i palmi congiunti dinnanzi al petto. Esaminare l’intera prigione avrebbe richiesto la massima concentrazione con l’ Occhio del Ki , dovendo estendere la propria percezione al di là della vista normale.

    Calò le palpebre e si concentrò sulla propria abilità, amplificandola per studiare qualunque sezione presentasse un flusso di energia costante. Escluse qualsiasi forma di vita e fonte naturale, riuscendo a distinguere alcuni cristalli che si differenziavano dagli altri. Ognuno era collegato a quello centrale, il più grande, che a sua volta si allungava per decine di metri fin sulla cima della montagna. Con tutta probabilità doveva assorbire l’energia del sole e del vento, incanalandola ed estendendola nella spelonca e nella colonna centrale.

    Lei non aveva mai visto nulla di simile. Chiunque avesse costruito quella prigione doveva avere conoscenze e abilità fuori dal comune. Alla luce di quella scoperta, la storia del prigioniero iniziava ad acquisire una certa credibilità.

    Sentendo la concentrazione venirle meno, la rinforzò accantonando i pensieri. Seguì il flusso che si dipanava lungo le pareti della spelonca, irradiandosi attraverso il tunnel per attivare le rune di blocco. Una gabbia inaccessibile, con un tappo che avrebbe impedito a qualsiasi essere vivente di fare anche un solo passo al suo interno.

    Era perfetta, o quasi.

    Interruppe l’ Occhio del Ki e rimase qualche secondo senza fiato. Aveva esagerato, estendendo la propria percezione a una distanza eccessiva e per troppo tempo. Aveva la fronte imperlata di sudore e avrebbe voluto togliersi la maschera per asciugarsi, ma evitò.

    «Ti vedo stanca» le disse il prigioniero.

    Lei si chiese come lo avesse notato. Lo ignorò e, dopo essersi alzata, tornò indietro ripercorrendo il ponte fino all’imbocco del tunnel. Là poggiò le mani sulla parete della spelonca e si arrampicò sfruttando il potere del suo hikam : il Ragno Vagabondo.

    Risalendo la cupola naturale come un aracnide, raggiunse il soffitto di cristalli. Utilizzando l’ Occhio del Ki individuò e infranse uno a uno quelli collegati al pezzo centrale, il catalizzatore. Esso era di dimensioni importanti e di certo impossibile da distruggere, anche per via del continuo flusso di energia che lo attraversava.

    Le ci volle diverso tempo sommato a una buona dose di pazienza e un enorme consumo di ki . Dopodiché tornò sul ponte, esausta. Controllò lo stato dei flussi di energia e vide che erano stati recisi tutti quelli che le interessavano, nullificando le rune di blocco lungo la galleria fino all’esterno. Adesso Jackar poteva entrare.

    Prima di andare a recuperarlo, però, aveva bisogno di riprendere le forze.

    «Sento che qualcosa è cambiato» disse il prigioniero, «allora ci sei riuscita, hai sgombrato la via.»

    Ancora una volta lo ignorò e decise di meditare per ripristinare il ki in maniera più veloce. Si sedette a gambe incrociate, mani congiunte davanti al petto e occhi chiusi. Lo stomaco le brontolò per la fame e si ricordò che stava trascurando il suo corpo da giorni. Si ripromise che, non appena avesse concluso il suo incarico, si sarebbe presa del tempo per se stessa, per rimettere in sesto il corpo dopo un periodo di sforzi eccessivi.

    «Ah ah! Vola il caduto fuori dalla gabbia, cade il volatile dentro la rabbia!»

    Jackar arrivò all’improvviso, trotterellante e senza fare alcun rumore. Si affiancò all’assassina guardandola attraverso le lenti di rubino della maschera bianca, inclinando la testa alla stregua di un gufo.

    Lamanera avrebbe voluto chiedergli come fosse riuscito a capire che il blocco era svanito, ma sapeva che avrebbe ricevuto una risposta ambigua. Inoltre il fatto che fosse entrato subito nella prigione confermava quello che lei sospettava da un po’: Jackar poteva vedere le fonti di energia e i loro flussi a occhio nudo.

    Canticchiando con voce stridula, Jackar avanzò lungo il ponte fino a raggiungere il prigioniero. Sghignazzò con fare festoso e poi posò le mani sulla catena.

    Incuriosita, e nonostante fosse esausta, l’assassina utilizzò l’ Occhio del Ki per scoprire cosa sarebbe successo.

    Per la prima volta vide l’ hikrit di Jackar mutare, passando da un’unica fonte a forma di sfera posizionata nel torace a un flusso spropositato di turbini che vorticarono per il corpo intero. Il tutto fluì attraverso le sue braccia fino alle punte delle dita, poi sfociò nella catena.

    Lamanera rimase esterrefatta. Non aveva mai visto nulla si simile, conscia che non si trattava di un hikrit comune, ma di un’anomalia preoccupante.

    I sigilli sugli anelli parvero arginare l’energia, almeno all’inizio, poi presero a vibrare e incominciarono a consumarsi come legna al fuoco. Ci vollero alcuni minuti, dopodiché la catena cedette sotto il flusso, di troppo superiore a quello che poteva sostenere, finendo per disgregarsi.

    «Eh eh! Liberato il padre dei giusti, vincolato il caduto degli ingiusti» esultò Jackar.

    Tuttavia Lamanera notò che il suo hikrit era tornato normale, lasciandolo meno energico del solito. Qualunque cosa avesse fatto Jackar, adesso ne stava pagando le conseguenze.

    Dopo essere caduto a causa della liberazione improvvisa, il prigioniero si alzò da terra massaggiandosi braccia e fianchi, le parti che fino a poco prima erano state serrate dalla catena.

    «E adesso?» chiese passando lo sguardo da Jackar a Lamanera.

    L’assassina gli andò incontro, lo afferrò per i polsi con malagrazia e glieli legò dietro la schiena con un legaccio che aveva portato con sé proprio a quello scopo.

    «Ah… è solo un cambio di prigione, dunque» appuntò il prigioniero.

    Lei colse la nota d’amarezza nella sua voce ma non le interessava. Doveva portarlo a Gozar’vad, consegnarlo all’Imperatore e reclamare la sua immortalità. Tutto il resto le era indifferente.

    Lo spinse per indurlo a camminare mentre Jackar saltellava loro attorno con fare festoso.

    «Uh uh! La fine della fine è iniziata dall’inizio!»

    Attraversarono la galleria senza dire nemmeno una parola, fatta eccezione per Jackar che continuava a canticchiare motivetti privi di senso con la sua voce stridula. Eppure Lamanera stava riflettendo su quello che le aveva raccontato il prigioniero, perché rievocava nella sua memoria qualcosa di famigliare.

    Le ci vollero alcuni minuti per ricordare a cosa somigliasse la storia raccontata dall'individuo appena liberato. E, se tutto ciò fosse stato vero, allora non era solo un comune mortale come poteva sembrare alla vista, bensì un dio sceso tra gli uomini per liberarli dalla schiavitù delle altre razze. E se anche non fosse stato il suo vero nome, tutti lo veneravano come Seraf, dio della guerra e dell’onore.

    3. Il baluardo dei mezzosangue

    Sospirò sollevato non appena riuscì a scorgere le alte mura tra la foresta Bianca e i monti Bagadon. La città era distante qualche centinaio di metri e c’era ancora il fiume Frebro da oltrepassare, ma Eliadar sorrise comunque, contento per esservi arrivato.

    Si passò il braccio sulla fronte per asciugare il sudore, non che facesse caldo, anzi, l’aria era piuttosto fredda per una giornata d’autunno inoltrato. Era a causa delle correnti gelide provenienti da Ghiarkur, capaci di valicare i monti Bagadon e insinuarsi nel basso nord.

    Era stanco e spossato dal lungo viaggio durato giorni e percorso a piedi, poiché lo avevano privato di ogni suo avere. Cavallo, carrozza, abiti, armi, liuto e monete. Tutto. Non era nemmeno riuscito a procurarsi qualcosa durante il tragitto: non si dava fiducia né pietà a un mezzosangue che bussa alla porta e chiede l’elemosina come uno straccione. Senza strumento non si era potuto nemmeno esibire nelle locande per racimolare del denaro.

    Non aveva mai vissuto qualcosa di tanto umiliante. Se solo ci ripensava, sentiva la rabbia montargli addosso.

    Aveva fatto del bene e cosa ne aveva avuto? Giorni di prigionia ad Aghoria. Aveva salvato Lorigan dal generale imperiale Nartias e lo avevano ricompensato con maltrattamenti e lunghi interrogatori. Lo avevano sfamato con cibo di pessima qualità e occhiate sprezzanti. Sapevano soltanto dirgli «assassino» come se questo spiegasse ogni cosa.

    Lo sguardo gli cadde sul dorso della mano: c’era un glifo articolato che pareva un tatuaggio di fine bellezza, ma che per lui imbrattava la pelle e non poteva che disprezzarlo. Era la maledizione scagliata dalle due maghe: non avrebbe più potuto avvicinarsi a Balderk e Jandar senza che loro fossero allertati da un fischio, e non avrebbe più potuto fargli del male.

    Non che lo desiderasse, aveva deciso di chiudere con la storia delle Note del Fato. Aveva scelto di abbandonare il sentiero tracciatogli dagli elfi per andare in un luogo dove lo avrebbero accettato per quello che era: un mezzelfo.

    Si avviò verso Trinym continuando a rimuginare su ciò che aveva vissuto. Nonostante tutto, era convinto che se Jandar fosse arrivato in tempo, prima che lo bandissero, le cose sarebbero andate in maniera diversa. Lo stregone gli avrebbe creduto, a discapito della manovra della regina Alethia, desiderosa di garantirsi la scelta meno rischiosa. Tuttavia, se non fosse stato per Ethan, che aveva interceduto in suo favore, lo avrebbero giustiziato oppure tenuto a vita nelle prigioni.

    Una persona normale, al posto suo, sarebbe stata grata di essere sopravvissuta. Ma lui non era quel genere di persona, ecco perché lasciata Aghoria si era diretto alle Rovine di Telldhir.

    Non aveva visto nulla di buono e, nonostante si ripetesse di lasciarsi tutto alle spalle, la sua fastidiosa coscienza continuava a sussurrargli di fare qualcosa per evitare il disastro imminente. Perché di quello si parlava, un disastro di proporzioni titaniche che sarebbe passato alla storia come l’evento peggiore di Erebia.

    Più di un secolo dedicato al bene del continente non era forse abbastanza? Era stufo di offrire la propria esistenza a scopi di certo onorevoli, ma che non lo riguardavano affatto.

    Il fiume Frebro si mostrava con imponenza: largo circa quaranta metri e con una forte corrente che si gettava nel mar Dorato. Aveva origine a Ghiarkur passando attraverso i monti Bagadon, raccogliendo la neve e il ghiaccio che si scongelava in estate. Eliadar sapeva di non poterlo attraversare a nuoto, sarebbe stato travolto dalla corrente e, anche se ci fosse riuscito, sarebbe morto congelato sull’altra sponda. Il Frebro era celebre per le sue acque gelide durante tutto l’anno.

    Costeggiò il fiume sapendo che prima o poi avrebbe trovato un traghetto e che comunque sarebbe arrivato a Trinym anche solo risalendolo. La notte stava sopraggiungendo quando si fermò a riprendere fiato, fissando le mura della città che nascondevano qualunque cosa ci fosse dentro. Sul camminamento e sulle torri iniziarono ad accendersi dei lumi e desiderò con tutto se stesso essere già là.

    L’aria gelida venne accentuata dal calare del sole, accompagnata dall’umidità penetrante del fiume. La pancia brontolava da giorni per la fame.

    Si strinse nel mantello e tenne il cappuccio calato sugli occhi, ma tremava, non aveva abiti adatti a quelle temperature. Cercò un riparo per la notte, qualcosa che gli permettesse di chiudere occhio per qualche ora riparandosi dalla gelata.

    Ci volle un’oretta prima di trovare una roccia con un’insenatura capace di ripararlo. Ci si infilò dentro e si acquattò in posizione fetale. I denti battevano per il freddo, così forte da fargli venire il mal di testa. Sentiva ancora il vento ghermirlo, ma era meglio che restare allo scoperto e non era nemmeno distante dal fiume, anzi, poteva sentire il suo rumore a qualche decina di metri di distanza.

    Chiuse gli occhi per dormire, si sentiva debole e voleva soltanto riposare un po’. Sarebbe stato meglio in un letto comodo e caldo, a quel pensiero si rese conto che nella vita aveva sempre avuto un luogo in cui ripararsi.

    Se la maggior parte degli inym aveva difficoltà a trovare ospitalità in giro per Erebia, lui, come bardo, era stato accolto quasi ovunque.

    Il potere della musica e di una buona storia , pensò con una mezza smorfia.

    Ma sapeva che era anche merito dei suoi modi cordiali, rispettosi e soprattutto di un sorriso disarmante. I sorrisi erano qualcosa di potente, facevano sentire le persone a loro agio e potevano prevaricare le barriere culturali. Far ridere con sana autoironia e qualche battuta divertente spalancava le braccia della gente. In un mondo come quello, ridere e far ridere era qualcosa di magico quanto la magia stessa.

    Guardando in direzione del cielo, coperto da nuvole scoraggianti, si chiese se esistesse ancora una ragione per ridere. O qualcosa per cui gioire. In fin dei conti la sua era sempre stata una farsa per raggiungere i suoi obietti, anzi, gli obiettivi del Pentagramma. Perché di propri non ne aveva mai avuti.

    Serrò i pugni con i lembi del mantello. Avrebbe voluto gridare, ma era stato addestrato a reprimere i propri sentimenti in favore del ruolo che interpretava. Mai mostrare quel che si prova e quello che si è , recitava una delle regole delle Note del Fato. Era una gabbia mentale che soffocava ogni istinto personale.

    Forse era proprio quella la ragione per cui non aveva mai alterato il suo aspetto quando vestiva i panni del bardo, facendosi chiamare con il nome di nascita: Eliadar. Era un modo per non abbandonare del tutto la sua vera identità, anche se gli elfi si ostinavano a dire che Eliadar non esisteva più, che adesso era una Nota del Fato, era Si .

    In cuor suo non lo aveva mai accettato e loro lo sapevano, era la ragione per cui lo tenevano d’occhio e alcuni persino lo disprezzavano.

    Che si fottano!

    Fece un mezzo sbadiglio con i denti che ebbero una breve pausa prima di tornare a battere tra loro.

    Riaprì gli occhi all’improvviso, li aveva chiusi e si era addormentato senza accorgersene. Era raggomitolato sul fianco, oscillando sopra a un ripiano di legno. Aveva il corpo ancora irrigidito dal gelo della notte e, nonostante stesse sudando, sentiva freddo fin nelle ossa.

    «Oh, ti sei svegliato» sentì dire da una voce sconosciuta. «Immagino che fossi intenzionato a raggiungere Trinym quando ti sei infilato tra quelle pietre. Fortuna che ti ho notato grazie a uno stormo di corvi che ti volteggiava sopra, ti davano per morto. L’ho pensato anch’io, in verità. Se non avessi scorto le tue orecchie da mezzelfo forse non mi sarei nemmeno preoccupato di accertarmene.» Ridacchiò.

    Eliadar portò una mano alla testa, percependola pesante come un macigno, lenta a ragionare. Gli dolevano gli occhi, irritati dalla luce del giorno e con la vista annebbiata. Non capiva nulla di quanto stava accadendo. Pensò che fosse tutto un sogno, almeno finché sobbalzò sbattendo l’anca contro le tavole di legno sotto di sé.

    «Ahi» lamentò.

    «La strada non è il massimo, lo so» si giustificò lo sconosciuto. «Non è trafficata come le altre in Erebia, anche perché nessuno vuole avere a che fare con un’intera città di mezzosangue. Ma eccola lì, siamo quasi arrivati a Trinym.»

    Eliadar si destò di soprassalto, cercando di sollevarsi quel tanto che bastava per guardare oltre l’uomo e il carretto.

    «Ehi, sta’ attento! Hai la febbre e non dovresti fare movimenti bruschi.»

    Eliadar fu colto da un capogiro, ma non si fece scoraggiare. Guardò le alte mura di Trinym: blocchi di pietra incastrati tra loro componevano la solida difesa coronata da merlature squadrate e torri di vedetta esagonali. La porta era di legno massiccio rinforzato da placche di ferro borchiato con un solido ponte a collegare l’ingresso alla terraferma, passando sopra il fossato creato dal fiume Frebro. Arcieri di provenienza multietnica vigilavano dall’alto, con lo sguardo rivolto a sud, l’unico punto in cui erano attaccabili.

    Qualunque cosa ci fosse poi, Eliadar non riuscì a vederla perché svenne ricadendo sul pianale.

    Non aveva idea di quanto tempo fosse trascorso, ma quando alzò le palpebre si trovò dentro un’umile stanza con pareti di legno. Tuttavia era lieto di stare sopra un letto comodo e sotto coperte calde. Si sentiva meglio, la febbre era passata e comprese subito che qualcuno si era preso cura di lui. A conferma di quel pensiero, vide una bacinella piena d’acqua sul mobile accanto al letto con dei panni puliti. C’era persino del cibo.

    Si alzò, forse troppo in fretta, perché ebbe uno sbandamento che lo riportò a sedere, dove restò per lunghi secondi. Poi, con calma, prese il cibo e lo poggiò sul materasso. Affamato, divorò mezzo tocco di formaggio, due mele, sette noci e della carne essiccata. Tutto gli parve ottimo. Bevve anche due bicchieri colmi di latte.

    «Ti sei ripreso, vedo» disse qualcuno sulla soglia della stanza.

    La porta era stata lasciata aperta, un dettaglio che Eliadar non aveva notato prima. Ma adesso guardò il suo interlocutore e vide un tizio basso, che sarebbe sembrato un bambino se non fosse stato per braccia e gambe tozze e una testa spropositata per quel corpo. Aveva la barba rossiccia e capelli corti ben curati, gettati all’indietro. Stava a braccia conserte con la spalla poggiata allo stipite della porta.

    «Uno dei nostri ti ha trovato lungo la strada. Sei stato fortunato che sia stato mosso a compassione dalle tue condizioni e abbia deciso di portati qui perché sei un mezzosangue come noi. È la solidarietà di noi inym.»

    Eliadar non afferrò le sue parole, perché lo stava fissando con la fronte aggrottata mentre si chiedeva cosa fosse.

    Lui inarcò un sopracciglio e incedette nella stanza con passo goffo e ondeggiante. «Non hai mai visto uno della mia razza, immagino.»

    Annuì. «Mai prima d’ora.»

    «Sono un nanetto, l’incrocio tra nani e umani.»

    Eliadar era ancora più confuso. «I nani sono estinti dalla Grande Guerra dei Sei Popoli, devastati dall’epidemia inflittagli dagli zerish.»

    Il nanetto oscillò la mano aperta a mezz’aria, gesticolando un più o meno .

    «Quasi estinti. Alcuni sono sopravvissuti e si sono rifugiati nei meandri più nascosti delle montagne e poi qui a Trinym. Ma li vedrai da te, a oggi ne sono rimasti in vita circa una decina.» Si fece avanti e stese la mano verso il mezzelfo. «Io sono Ulgrind, qui tutti mi chiamano Volpe, però. Dicono che il colore dei miei capelli ricordi il pelo dell’animale, ma io penso che sia perché mi infilo dappertutto grazie alla mia statura. Dubito che qualcuno lo ammetterebbe mai.» Fece spallucce assieme a una smorfia buffa.

    Eliadar sfoggiò uno dei suoi sorrisi amichevoli e gli strinse la mano. «Eliadar il bardo, al vostro servizio.» E so che stai cercando di mettermi a mio agio, piccola volpe .

    «Un trovatore, quindi. Allora è bene che mi metta comodo per ascoltare la storia di come sei arrivato a Trinym senza strumenti.»

    Ulgrind afferrò la sedia là vicino e la trascinò dinanzi a Eliadar, vi si issò sopra in maniera goffa e poi si sistemò comodo. Quando fu pronto, fece cenno a Eliadar di incominciare.

    Il mezzelfo a stento trattenne la risata stimolata da quella scena comica. Dopodiché gli raccontò una versione in parte vera e in parte falsa, citando tutto ciò che riguardava la sua vita da bardo e omettendo quella da Nota del Fato. Il suo interlocutore pareva prendere tutto per buono, ma Eliadar pensava che stesse fingendo e che fosse più astuto di quanto volesse mostrare.

    «E questo è quanto.»

    Ulgrind parve soddisfatto, si spinse in avanti e scese dalla sedia con un saltello, poi la scostò di lato.

    «Bene, Eliadar il bardo. Spero tu ti rimetta presto. Magari potrai allietarci con la tua musica… ti troverò un liuto da qualche parte, stanne certo.» Suonò più come una minaccia che non una promessa. «Sei ospite nel Rifugio del Taumaturgo , quindi sarebbe eccellente se ripagassi in qualche modo la cordialità e le cure che ti sono state fornite.»

    «Sarà un onore» replicò chinando il capo con fare cortese.

    Il nanetto annuì soddisfatto e uscì dalla stanza, ma giunto oltre la soglia si fermò e lo guardò con espressione austera.

    «Trinym è il baluardo dei mezzosangue, di qualsiasi mezzosangue. Tutti sono ben accetti. Anche se custodiscono segreti che non vogliono condividere…» Gettò un’occhiata fugace al dorso della mano di Eliadar, dove c’era il glifo restrittivo. «Ma quello che a noi interessa è il bene comune. Nessuno deve portare guai in questa città, nessuno deve creare problemi e rompere i nostri equilibri.»

    Ulgrind se ne andò ed Eliadar sorrise. Ora gli era chiaro perché lo chiamassero la Volpe.

    4. Il quinto

    La casa di legno era stata costruita alla base delle montagne del Drago, dove si fondevano con la Foresta Ignota. Circondata da alberi e per questo ben nascosta, era umile e senza nulla di appariscente. Tuttavia Mogurzath era certo di sapere chi vi si nascondesse.

    La bussola magica, una delle sei dategli da Feniceoscura nella Piramide di Garavesh, lo aveva condotto fin lì. Tuttora l’ago di cristallo indicava con insistenza l’abitazione: aveva smesso di lampeggiare, ma adesso brillava con costanza.

    Questo lo rendeva consapevole del fatto che era vicinissimo al suo quinto obiettivo, così come era avvenuto con le bussole già adoperate per trovare gli altri quattro.

    Stava eseguendo il compito richiestogli dall’Imperatore, eppure c’era qualcosa che lo turbava, che non gli tornava. Perché sei dei nove principati abissali erano in Erebia, sotto forma di spiriti all’interno di corpi mortali? Come avevano fatto a lasciare il loro piano di esistenza e a tramutarsi in spiriti? E perché radunarli alle Rovine di Telldhir?

    Nella Piramide di Garavesh, Mogurzath aveva scoperto che in Hirko c’era l’arcidemone Flegedo, signore del Secondo Abisso. Ragione per cui, spinto dalla curiosità, lo aveva salvato portandolo con sé anziché abbandonarlo là. Poi, nelle settimane successive, seguendo il nuovo incarico, aveva trovato e convinto, o costretto, le persone che ospitavano gli spiriti di Namauk, Lavianash e Magnuloth. Facendo qualche ragionamento, ed escludendo i principati più potenti dei Nove Abissi, restavano Sharania e Jezial. Uno di questi due era nella casetta.

    Aveva cominciato a interrogarsi su molte cose riguardo al piano dell’Imperatore, fin da quando Seth gli aveva raccontato come aveva ottenuto lo spadone Basmath

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