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L'erede della fonte oscura
L'erede della fonte oscura
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E-book543 pagine7 ore

L'erede della fonte oscura

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Info su questo ebook

È trascorso un anno dalla caduta dell'antico stregone, ma l'oscuro potere di Pòlton alberga ora nell'artenìsio Ìmenum, rinnovata minaccia per tutte le terre incantate. Per scongiurare il compimento delle profezie che si profilano sull'orizzonte, Gàrland dovrà distruggere il potere dell'erede, prima che le arche rivivificate ne prendano il sopravvento. È una sfida contro il tempo e contro un fato che pare ormai prossimo ad avverarsi. Tra laboriosi procedimenti alchemici, formulazioni di pozioni, incantesimi e lunghi viaggi, Gàrland dovrà riuscire a fronteggiare con ogni mezzo la minaccia di morte che grava ancora una volta su tutte le terre incantate.

Dopo "L`ultimo mago di Helenisya", la storia procede in questo secondo capitolo, fulcro centrale di una trilogia fantasy tutta italiana. L'ultimo episodio della saga è atteso per il 2016.
LinguaItaliano
Data di uscita18 lug 2015
ISBN9788891196941
L'erede della fonte oscura

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    Anteprima del libro

    L'erede della fonte oscura - Paolo Morandi

    INDICE

    CAPITOLO I

    Il pasticcio di Sèrafil

    CAPITOLO II

    La missiva del ducato di Tridàcna

    CAPITOLO III

    Alla ricerca del sangue di drago

    CAPITOLO IV

    L’ira del monte Wùlrug

    CAPITOLO V

    Il rancore della regina

    CAPITOLO VI

    Le piume dell’augurio

    CAPITOLO VII

    L’ultima profezia di Hesperìda

    CAPITOLO VIII

    La visione di Dèladrien

    CAPITOLO IX

    La maledizione dell’unicorno

    CAPITOLO X

    Il lago del pianto

    CAPITOLO XI

    L’opera alchemica

    CAPITOLO XII

    Il trasferimento del ducato

    CAPITOLO XIII

    Tridàcna

    CAPITOLO XIV

    Il marchesato di Melanotènia

    CAPITOLO XV

    Il colloquio

    CAPITOLO XVI

    Il sangue di drago

    CAPITOLO XVII

    Il sostegno degli artenìsi

    CAPITOLO XVIII

    La formulazione della pozione protettiva

    CAPITOLO XIX

    La strega Mnemònia

    CAPITOLO XX

    La suddivisione dei compiti

    CAPITOLO XXI

    La cattura di Ìmenum

    CAPITOLO XXII

    L’infausta scoperta di Nimphàlis

    CAPITOLO XXIII

    La condanna di Ìmenum

    CAPITOLO XXIV

    Il consiglio si riunisce

    CAPITOLO XXV

    La furia di Ìmenum

    CAPITOLO XXVI

    Il nullaosta di re Gàlomir

    CAPITOLO XXVII

    Un ponte sul mare

    CAPITOLO XXVIII

    Lacrime e sangue

    CAPITOLO XXIX

    La potenza della maledizione

    CAPITOLO XXX

    La scoperta dei patti

    CAPITOLO XXXI

    Il dolore di re Gàlomir

    CAPITOLO XXXII

    Il ritorno di Gàrland

    CAPITOLO XXXIII

    La sepoltura di Àstar

    CAPITOLO XXXIV

    Un giorno a Dagòre

    CAPITOLO XXXV

    L’oscuro piano dell’erede

    CAPITOLO XXXVI

    L’esilio della vita

    L’EREDE DELLA

    FONTE OSCURA

    Di Paolo Morandi

    LIBRO SECONDO

    Youcanprint Self-Publishing

    Titolo | L’erede della fonte oscura

    Autore | Paolo Morandi

    Illustrazione di copertina | Ferdinand Dumago Ladera

    Composizione musicale Melodia dell’anima | Santino Cara 2014

    ISBN | 9788891196941

    © Tutti i diritti riservati all’Autore

    Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta senza il

    Preventivo assenso dell’Autore.

    Youcanprint Self-Publishing

    Via Roma, 73 – 73039 Tricase (LE) – Italy

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Facebook: facebook.com/youcanprint.it

    Twitter: twitter.com/youcanprintit

    A Sara e Giulia, per tutto

    DETTAGLI ALLA MAPPA

    Tavola 1: Terre di Helenìsya

    Tavola 2: Terre di Eòwilas e Regno di Rhòdeus Meridionale

    Tavola 3: Regno di Rhòdeus Centrale

    Tavola 4: Regno di Rhòdeus Settentrionale

    Tavola 5: Mar Xàntror

    Tavola 6: Territori abbandonati (occidentali alla Tavola 3)

    CAPITOLO I

    Il pasticcio di Sèrafil

    Era trascorso poco più di un anno da quando Pòlton era stato sconfitto. Nonostante l’erede del suo potere fosse ancora vivo, la sua azione malefica non si era ancora manifestata. Infatti, la fonte oscura non aveva subito alcun cambiamento durante quell’anno e continuava a saettare tra le montagne del Laurèsthes; essa era la testimonianza che l’erede non poteva essere morto.

    La distruzione della barriera magica sulle montagne di Kìlforon aveva dato origine ad un intenso flusso migratorio: molti abitanti delle terre di Eòwilas e di Rhòdeus si erano trasferiti nelle terre di Helenìsya e viceversa, così da rendere le terre incantate nuovamente un tutt’uno.

    L’estate era ormai alle porte e gli studi di Gàrland alla biblioteca della saggezza potevano dirsi quasi conclusi. Grazie all’aiuto dell’alchimista, era pervenuto alla formulazione di una potentissima pozione, capace di schermare il potere dell’Ùrsax Tridèntos, ovvero della fonte oscura. Il viandante era fermamente convinto che quella sarebbe stata la chiave che gli avrebbe permesso di affrontare la minaccia dell’erede senza eccessive preoccupazioni. Confidavano che presto si sarebbe messo alla ricerca di Ìmenum.

    Quel mattino il viandante si trovava alla biblioteca. Restava solo da ripartire il filtro in boccette tascabili e pronte all’uso.

    Sèrafil, l’alchimista della biblioteca, si era spostato nella stanza accanto per cercare libri e aveva preso con sé la beuta contente la pozione appena formulata. Era da un po’ di tempo che lo studioso mancava dal laboratorio e Gàrland cominciava a chiedersi dove fosse finito.

    «Sèrafil?» disse il mago impaziente, avviandosi verso la porta «Sèrafil, ci siete?»

    «Arri…».

    La voce dello scienziato s’interruppe. Gàrland udì un violento botto e vide la porta del laboratorio aprirsi e poi richiudersi nuovamente. Sentì il rumore di vetri che s’infrangevano. A quel tintinnio, il suo cuore si arrestò di colpo. Si sentì pervadere da un sentimento di mortale preoccupazione, sicuro che fosse accaduto qualcosa di grave e probabilmente forse anche di irreparabile. Il silenzio dell’alchimista rafforzò quel timore. Il mago si precipitò verso la porta, sperando di non trovarsi davanti la scena che si era appena raffigurato nella testa, ma, non appena l’ebbe aperta, vide quel timore coi suoi occhi: seduto per terra, circondato da un anello di vetri sporchi di un liquido smeraldino, stava Sèrafil. Il suo sguardo colpevole e afflitto incrociò i tondi occhi blu di Gàrland, che fissava incredulo ciò che rimaneva della pozione.

    Allarmato da quel botto, sopraggiunse anche il signor Acràsium – il presidente della torre delle arti magiche e occulte – che, dopo un momento di esitazione, fu l’unico a trovare il coraggio di parlare.

    «È il composto su cui stavate lavorando assieme?» chiese docilmente, mantenendo un filo di voce.

    «Ma perché diamine non mi avete chiamato?» esplose il viandante rivolto all’alchimista. «Quale rimbambita fantasia ha offuscato il vostro senno?»

    «È stato un incidente. Ho dovuto spingere la porta con il braccio e mi è caduto tutto».

    «Superficialità e negligenza! Ecco cosa!» inveì Gàrland, osservando il liquido smeraldino che defluiva in una conca del pavimento. «Ci vorranno giorni per procurarsi tutti quegli ingredienti. Dannazione! Ma PERCHÉ?».

    «Aspettate, prendo degli stracci» fece Acràsium. «Forse potremmo…»

    «Non la recupereremo» lo avvertì il mago, scuotendo la testa. «Perderebbe la sua purezza».

    «Non preoccupatevi, Gàrland. Mi assumerò le mie responsabilità» cercò di tranquillizzarlo l’alchimista, mentre faceva per sollevarsi. «Andrò a recuperare tutti gli ingredienti da solo!»

    A quelle parole, Gàrland rise beffardo e, aiutando lo scienziato a rimettersi in piedi, disse: «Abbiamo perso la pozione, non perderò anche l’alchimista! Se dovesse succedervi qualcosa potrei dire addio ad ogni speranza. Oggi stesso partiremo e andremo a recuperarli tutti quanti».

    «Oggi?» ripeté Sèrafil con aria perplessa. «Ma non dovevate partire per Còrad-Prèll?»

    «Merito della vostra faciloneria se dovrò rimandare il viaggio a data da destinarsi! Raccattate e pulite tutto, per favore. Mi allontano un momento».

    Gàrland si diresse verso uno scrittoio, mentre continuava a borbottare insulti contro l’alchimista. Prese un foglio ingiallito da un cassetto, intinse la punta di una penna in un calamaio di bronzo e cominciò a scrivere.

    Caro Ydam,

    purtroppo il mio arrivo a Còrad-Prèll dovrà essere posticipato di due o tre settimane. Ho avuto un imprevisto qui alla biblioteca (nulla di grave). Sono molto rattristato, ma sono costretto a rimandare. Comunica tutto anche a tua madre. Statemi bene.

    A presto

    Con affetto, Gàrland

    Finito di scrivere, Gàrland sventolò il foglio a mezz’aria per fare seccare l’inchiostro e lo arrotolò. Lo legò con un laccetto rosso e su di esso scrisse il destinatario. Tornò dai due sapienti, che stavano pulendo il pavimento.

    «Posso lasciarvi questa lettera, Acràsium?» chiese il viandante, chinandosi e prendendo uno straccio.

    «Certamente! Dove dovete inviarla?»

    «Al villaggio di Còrad-Prèll».

    «D’accordo» fece il direttore, girando il rotolino con le dita per leggerne l’indirizzo. «Non appena qualche piccione avrà fatto ritorno provvederò a recapitarla».

    Gàrland sorrise ringraziandolo, poi scoccò un’occhiata stizzita a Sèrafil, mentre questi raccoglieva gli ultimi frantumi di vetro.

    «Prendete una sacca e metteteci dentro tutta la vetreria di cui avremo bisogno» disse con voce distaccata. «Non dimenticate gli utensili. Finisco io qui».

    Mentre l’alchimista si dirigeva nell’officina, Gàrland e il signor Acràsium finirono di pulire tutto. Il viandante prese gli stracci e, uno a uno, li strizzò all’interno di un secchio, nel quale gocciolò il liquido verde della pozione. Quanti ricordi passarono a raffica nella sua testa a quella visione! Avevano impiegato quindici mesi per arrivare a quel traguardo. Ora, a causa della riprovevole distrazione dell’alchimista, avrebbero dovuto ripetere daccapo la formulazione del composto, per la quale sarebbero servite altre due o tre settimane. Gli sembrava ancora impossibile che ciò fosse accaduto realmente. Come poteva essere stato Sèrafil così maldestro da perderne il prezioso filtro? La pozione rappresentava anche il trionfo dell’opera alchemica sulla quale, per anni, l’alchimista aveva lavorato. Il mago non riusciva a capacitarsi della superficialità dello scienziato.

    Quando Sèrafil tornò, non ebbe il coraggio di guardare Gàrland negli occhi.

    «Avete preso tutto?» si volle assicurare il pellegrino.

    L’alchimista annuì e disse: «Questa volta ho preso dei contenitori più grossi, oltre a una daga, un martello e uno scalpello».

    «E dove avete messo gli utensili?».

    «Nella sacca» rispose Sèrafil in tono scontato.

    «Giusto!» lo derise il viandante, annuendo a occhi stretti e labbra serrate. «Così, se mai i contenitori dovessero rompersi durante il viaggio, ne acquisteremo degli altri chissà-dove».

    Resosi conto di aver fatto una cosa poco intelligente, l’alchimista estrasse i tre utensili dalla sacca e li porse al mago, che li inserì in uno spazioso tascapane legato alla cintola.

    Gàrland recuperò il suo bastone e una borsa con dentro viveri e altre cose per il viaggio, poi i due eruditi si avvolsero in ampi mantelli e salutarono il signor Acràsium.

    «Vedete di non litigare voi due» si raccomandò il presidente con un sorriso. «Là fuori avrete bisogno l’uno dell’altro».

    I due annuirono, tranquillizzandolo. Lo abbracciarono e lasciarono la biblioteca.

    CAPITOLO II

    La missiva del ducato di Tridàcna

    Quando Gàrland e Sèrafil furono usciti dalla grande costruzione, raggiunsero la stalla, dove Hopètel e la cavalla dell’alchimista stavano col muso l’uno attaccata all’altra, in due box differenti.

    «No eh!» disse il mago, accelerando il passo verso il suo destriero. «Hopètel, non è adatta a te quella giumenta!»

    Nonostante il triste pensiero della pozione andata perduta e del senso di colpa che lo perseguitava, Sèrafil non riuscì a rimanere serio e ridacchiò col naso.

    Presi i cavalli, i due anziani si diressero a piedi verso la ripida mulattiera ciottolata, ora sgombra di neve. Solo la vetta del monte Hykdon era ancora imbiancata e si ergeva fiera contro il cielo blu come una candida corona di regalità. Davanti a loro verdeggiava un pendio erboso, che fluttuava in discesa a perdita d’occhio. Su quel tappeto smeraldino crescevano boschetti di larici e abeti bianchi, che vestivano la grande montagna con un nuovo abito, adatto a celebrare il ritorno della stagione calda. Cespi di sassifraghe e anemoni sulfuree spiccavano tra i fili d’erba e negli interstizi delle rocce. Il colore giallo delle arniche, il magenta dei cardi crespi e il blu delle cracche e delle clematidi, si univano in un tutt’uno a costituire gioielli multicolori, che impreziosivano l’abito regale del monte.

    Gàrland e Sèrafil raggiunsero velocemente la taverna del signor Gàlet. Senza la neve accumulata davanti all’edificio, la bettola, da fuori, sembrava molto più grande.

    «Ho bisogno di fermarmi un secondo da Gàlet» disse il viandante, scendendo da cavallo. «Preferite aspettarmi o venite anche voi?»

    L’alchimista annuì senza proferire parola, scese da cavallo, poi entrò all’interno con il pellegrino.

    Dentro non c’era nessuno, se non l’oste che tentava di cantare un motivetto forse inventato sul momento. Era così stonato che una rana avrebbe saputo cantar meglio. Fortuna che ogni tanto si limitava a fischiettarlo!

    Quando bevo l’acquavite,

    son felice, son felice.

    Quando bevo un po’ di vino,

    nel mio cuore nasce un bambino.

    Quando sono in compagnia

    I pensieri volan via!

    Lo storico ubriacone era rannicchiato sotto ad una mensola, intento a ripulire le assi di legno dalla polvere.

    «Buongiorno!» fece il viandante, richiudendosi la porta alle spalle.

    Spaventato, l’ometto si alzò di colpo, inzuccandosi contro il ripiano. Un gemito di dolore esplose nella bettola. Sofferente, Gàlet portò entrambe le mani sulla testa liscia, massaggiandosela ad occhi serrati e a denti stretti. Dopo un momento il dolore passò e vide il viandante.

    «Gàrland!» tuonò gioioso. «Vecchia biblioteca ambulante!»

    L’oste gli camminò incontro ciondolando e poi lo abbracciò.

    «Sono mesi ormai!» disse il mago, sorridendogli. «Mi siete mancato, sapete?»

    Gàlet ridacchiò, portando una mano sul fianco, massaggiandosi con l’altra la testa.

    «Mancato dite… non sarete venuto anche voi ad arruffianare? Scommetto che avete già saputo!» disse.

    «La vostra presenza quassù è un essenziale aiuto per quanti vogliano recarsi alla biblioteca» spiegò il mago con fare misterioso.

    «Ecco vedete quel è il problema?» inveì l’oste in tono offeso, aprendo le mani. «Questa taverna non è un rifugio! Costruire un’osteria quassù è stato un magro affare, altroché! Ho detto che mi trasferirò ad Eòwilas e così farò! Metterò lì la frasca!»

    Quella del taverniere aveva tutta l’aria di essere una decisione definitiva e il pellegrino sobbalzò dalla sorpresa. Sapeva infatti che Gàlet avrebbe voluto lasciare la montagna, ma non pensava che lo avrebbe fatto per trasferirsi in un luogo così lontano. Il pensiero che avrebbe potuto trasferirsi nelle terre governate dalla regina Nimphàlis lo indusse a farlo ragionare.

    «Non avete idea di quanta gente parli di voi alla biblioteca» gli disse sinceramente, tentandolo di convincere a rimanere.

    Lo sguardo incredulo ma interessato di Gàlet assunse un che di comico. Gàrland ridacchiò e proseguì.

    «Dico davvero! Se non fosse per voi, la biblioteca vedrebbe calare buona parte dei suoi frequentatori. Perché avete preso questa decisione?»

    «Sì, le solite scuse…» borbottò il bettoliere, voltandosi verso la finestra. «Me ne vado proprio per il motivo per cui siete qui voi: la gente viene e non prende vino. O aumento il prezzo dell’acqua oppure non posso campare in questo modo!»

    Per un momento Gàrland si sentì tirato in ballo. D’altronde non poteva dire che le parole del taverniere non corrispondessero a verità. Diverse volte si era recato alla taverna solo per scambiare due chiacchiere. Le parole dell’oste fecero riscoprire al mago una certa colpevolezza. Volle scusarsi dando un suggerimento all’amico.

    «Allora vi do un consiglio: continuate a spargere la voce che volete andarvene. Sono sicuro che alla biblioteca qualcuno comincerà a preoccuparsi. Non si sa mai che vi diano un supporto economico per indurvi a rimanere».

    Il viso del taverniere s’illuminò, mentre le sue labbra iniziarono a tendersi per la geniale trovata del pellegrino. Un solo istante e la disillusione riaffiorò sul suo viso.

    «Proverò a fare come dite» disse disincantato.

    «Sono venuto proprio per questo: per convincervi a rimanere» chiarì il viaggiatore. «Spero di trovarvi ancora qui quando tornerò».

    L’oste trasse un profondo sospiro, guardando Gàrland con gli occhi grati di un caro amico.

    «Non lo so… vedremo» concluse brevemente.

    Il mago fece un cenno convinto col capo e gli strizzò un occhio, confidando che sarebbe tornato alla taverna e lo avrebbe ritrovato.

    Dopo che si furono salutati, Gàrland e Sèrafil partirono dall’osteria e si rimisero sul sentiero per Tarkùm.

    Il viandante era ancora innervosito con l’alchimista e fino all’entrata del bosco di Elìndoter non spiccicò una parola. Il silenzio del pellegrino non fece che aumentare il senso di colpevolezza dell’alchimista che, per timore di una rispostaccia, preferì non parlare. Solo quando giunsero nei pressi della grande macchia, lo scienziato trovò il coraggio di fare la domanda che da un po’ di tempo gli sfarfallava in testa.

    «Avete preso il foglio degli appunti?» chiese con un filo di voce.

    «Eh?» disse forte il mago, che non aveva sentito niente.

    «Il foglio degli appunti!» gridò Sèrafil sul chiasso dei barattoli che tintinnavano nella sacca.

    Gàrland si voltò sorpreso verso l’alchimista e diede tre pacche sul tascapane.

    «È qui dentro» lo tranquillizzò serio. «E voi? Avete preso il buon senno questa volta?»

    La stizza di Gàrland cominciava a diventare insostenibile e lo scienziato non avrebbe resistito ancora molto. Con un moto di rabbia diede involontariamente una tallonata sul fianco della giumenta, che partì a tutta carica verso l’interno del bosco. La figura minuta di Sèrafil si piegò indietro, mentre i recipienti in vetro presero a tintinnare più forte.

    Preoccupato che i barattoli potessero rompersi, il viandante lasciò le briglie sul collo di Hopètel, lanciandosi all’inseguimento della cavalla.

    «Le redini!» gridò. «Tiratele!»

    Quand’ebbe ritrovato l’equilibrio, Sèrafil rallentò l’andatura dell’animale e Gàrland lo raggiunse.

    «Che le è preso?» chiese il viandante serio, guardando la cavalla.

    «E chi può dirlo!» mentì l’altro, cercando di mantenere un tono pacato. «È partita all’improvviso. Fai la brava bella, oh!».

    «Dobbiamo fare attenzione, Sèrafil. Il viaggio sarà lungo e dubito che questa volta avremo la stessa fortuna di tre settimane fa».

    «In che senso?» chiese lo scienziato.

    «L’ultima volta il fato fu dalla nostra parte: non capita tutti i giorni di trovare un drago morente. Considerando quanto re Gàlomir tenga a quelle creature, dubito che potrà procurarci quel che ci serve».

    «Pensate che non sarà facile reperire il sangue di drago

    «Ahimè, temo di no» confermò il mago. «Non vorrei andare a Dagòre per niente. Come dire… sarebbe tempo perso».

    «Ma val la pena tentare. Anche ammesso che non possieda l’ingrediente, non si sa mai che possa darci qualche utile suggerimento».

    Gàrland odiava perdere tempo e detestava pazientare. Lo spirito con cui aveva iniziato il viaggio non era proprio dei migliori. Avrebbe dovuto rifare una cosa già fatta, con tutte le complicazioni del caso. Non riusciva a non provare disistima nei confronti dell’alchimista: era solo a causa della superficialità di quest’ultimo se si trovava nuovamente sul sentiero per Tarkùm. Ad essere sincero, non era nemmeno sicuro che sarebbe riuscito a recuperare tutti gli ingredienti. Cosa sarebbe successo in quel caso? Cosa sarebbe successo se non fosse riuscito a formulare una nuova pozione? Ma ormai era inutile piangere sul latte versato. Sospirò, proseguendo fiducioso sul sentiero davanti a sé, che s’inoltrava nel ventre del bosco.

    L’insistente cinguettìo dei passeri, delle cince e dei fringuelli, assieme allo stormire delle fronde degli alberi accarezzate dal vento, ebbero la capacità di rilassare i suoi sensi e di fargli passare la rabbia. I tronchi grigiastri dei larici secolari si ergevano per decine di piedi, a costituire le sontuose colonne del tetto della foresta. Da lassù filtravano i bianchi raggi solari, che donavano parte della loro luce al florido sottobosco: rigogliose piante di sedum e seneci crescevano in intimità coi tappeti di muschi, ed il giallo dei loro fiori si univa al bianco delle cardamine e allo smeraldo delle felci che, in quella stagione, crescevano folte lungo i bordi del sentiero. Arbusti di pruni selvatici, corbezzoli, rovi, ginepri, rose canine e biancospini rendevano il bosco di Elìndoter ancor più florido. Impiegarono più di un’ora per uscire dalla foresta.

    Il sole aveva da poco cominciato la sua discesa nella volta celeste, rendendoli consapevoli che non sarebbero mai arrivati a valle prima di notte. Raggiunsero il passo della viverna quando ormai il sole era già sceso dietro il profilo della cresta montuosa e le ombre vespertine del tardo meriggio avevano quasi soffocato ogni colore.

    Sul far della notte, Gàrland e Sèrafil giunsero ai piedi del monte Hùgluk. Sfruttarono le ultime luci del giorno per raccogliere un po’ di legna secca, con la quale accesero un piccolo falò vicino al tronco di una grossa quercia solitaria. Più tardi, l’oscurità arrivò puntuale come un’acqua d’agosto a salutare le terre incantate, avvolgendole nel suo lugubre abbraccio. Il cielo era un’infinità di stelle nitidissime e la luna una sottilissima ferita luminosa.

    Lasciati i cavalli più in là e sufficientemente separati l’uno dall’altra, i due amici si sedettero intorno a quel fuoco scoppiettante e mangiarono frutta e crostini di pane, scambiando due chiacchiere.

    «Credete che gli artenìsi acconsentiranno al rituale per una seconda volta?» domandò l’alchimista, mentre strappava un morso da una mela rossa.

    «Non ne ho idea» rispose il mago sinceramente. «Certo non potrò dirgli di aver perduto la pozione. Per loro non è stato facile acconsentire alla mia richiesta».

    Alle parole dubbiose del viandante, il viso dell’alchimista si dipinse nuovamente di afflizione. Per l’ennesima volta non riuscì a non sentirsi in colpa. Tuttavia, quando pensò a qual era il secondo ingrediente, minimizzò.

    «Un pezzo di corno… che sarà mai» replicò qualunquista.

    «Gli unicorni sono sacri per loro, Sèrafil. Dovrò dargli una buona ragione. Ci penseremo su domani» taglio corto l’altro.

    Gàrland allungò le mani verso la fiamma e cominciò a sfregarle sulle ombre danzanti, poi intonò una canzone, con la quale sperò di allontanare i pensieri che l’alchimista gli aveva ravvivato nella testa.

    Allegra fiamma, fumo brontolone.

    Tutti corrono intorno al fuoco

    col cuore bambino.

    Mani nelle mani,

    hanno dipinto sul volto un sorriso,

    come se avessero bevuto del vino.

    Se ne va la memoria,

    corre nei prati,

    vola nel cielo.

    Fiamma brontolona, cuore allegro.

    Accompagnato dalla melodia dei grilli in sottofondo, la cantò una seconda e una terza volta e, alla quarta, Sèrafil si unì a lui. Più tardi, quando le braci della legna si ridussero ad un mucchietto di cenere bianca e le lingue di fuoco si retrassero, i due dotti si coricarono e si addormentarono.

    *

    L’indomani, quando si svegliarono, si accorsero che il cielo sopra di loro si era annuvolato. Benché grossi banchi di nuvole grigie coprissero la volta celeste, larghi squarci lasciavano ancora intravedere intense strisce di azzurro. Si sedettero intorno a ciò che rimaneva del falò e si sgranchirono braccia e gambe prima di riprendere il viaggio. I cavalli erano riposati e pronti per ripartire.

    Raggiunsero Tarkùm dopo diverse ore e Gàrland decise che non si sarebbero fermati presso la locanda del signor Diàtius. Proseguirono sul sentiero fino ad arrivare al fiume Èquadon, che superarono grazie ad un vecchio ponte di pietra, sui cui mattoni di tufo nocciola attecchiva un tappeto di soffice muschio.

    Impiegarono un’ora per arrivare al fiume Tàllin che, a dispetto del suo nome, era in realtà un canale collegante i fiumi Òrudix ed Èquadon e che la regina Hesperìda ed il re Acrilòpus avevano fatto scavare per assicurare una miglior irrigazione delle terre orientali. Sul suo corso regolare si potevano ancora rinvenire i resti di numerosi mulini in legno o di pietra, che due secoli prima venivano usati per la macinazione dei cereali. Le ruote idrauliche non giravano più. Erano marcite nella parte sommersa e sulle palette crescevano talli di licheni crostosi e spessi strati di muschi.

    Il cielo rimase nuvoloso fino al tardo pomeriggio. Sul far della sera, i due dotti raggiunsero il reame di Dagòre. Le nubi meridionali ricordavano grossi ammassi infuocati, sui cui ventri rossi e gialli sembrava sollevarsi un fumo corvino. La catena montuosa di Sàgradum appariva così lontana da rendere l’orizzonte una tremula linea nera. Avevano cavalcato molto e la stanchezza prese nuovamente possesso delle loro membra. Presto avrebbero potuto riposarsi dal lungo viaggio. La cittadella di Dagòre ardeva di innumerevoli luci, fugando le lunghe ombre del vespero. Il palazzo del sovrano, la grande piramide capovolta, si ergeva nell’oscurità del crepuscolo con tutta la sua magnificenza e sembrava un’opera futuristica, provenuta da chissà quale altro mondo.

    «Finalmente siamo arrivati» disse il mago, ormai prossimo alle scuderie.

    «Debbo dire che non la ricordavo così maestosa» lo incalzò Sèrafil, alzando lo sguardo alla grande piramide capovolta. «Gli anni mi hanno decisamente offuscato la memoria. Un’opera colossale, impossibile da trovare altrove».

    «È proprio come dite» convenne il mago. «Il signore di Dagòre ha sempre avuto un certo occhio di riguardo per il cambiamento. È convinto che l’originalità ed il cambiamento siano la chiave per vincere i conformismi delle masse. Solo chi osa può tentare il cambiamento».

    Dopo aver affidato i cavalli ad un garzone della stalla, i due sapienti si diressero verso l’ingresso del magnifico palazzo. Un gran numero di torce ardevano tutt’intorno alla costruzione e davanti alla porta stavano impettite due sentinelle cittadine, che ghermivano una picca ciascuna.

    I due anziani salirono tutta la rampa elicoidale, fiancheggiando il grande pilastro di marmo nero che costituiva l’ossatura di tutto l’edificio. Arrivarono in cima affaticati, poi si diressero verso la porta della grande stanza, sorvegliata da due guardie reali, con le alabarde incrociate. I loro sguardi di ghiaccio furono attratti dalla luce della pietra incantata.

    «Desidero conferire con il sovrano» disse il viandante.

    Le armi furono sollevate e Gàrland bussò.

    Una possente voce dall’interno tuonò: «AVANTI!»

    Spingendo con forza l’anta di destra, i due anziani oltrepassarono la soglia.

    Il re era seduto dietro ad uno scrittoio ricoperto di fogli ingialliti, ammassati in pile disordinate. Molti erano anche sul pavimento. Doveva essere un periodo decisamente impegnativo per il monarca. Gàlomir era intento a scrivere qualcosa di impegnativo visto che ripeteva ad alta voce ciò che metteva sul foglio. Quando sentì la porta richiudersi sollevò la testa per vedere chi fosse entrato.

    «Gàrland?» disse incredulo, alzandosi. «Che sorpresa!»

    I due amici si scambiarono un forte abbraccio.

    «Capitate sempre a fagiolo, voi!» esclamò, afferrandolo amichevolmente per una spalla. «Sicuro che tra i vostri poteri non ci sia anche quello di leggermi nel pensiero? Sapete, comincio a preoccuparmi».

    Gli occhi del mago si velarono d’interrogativo. Cosa significavano le parole del sovrano? Subito, il re provvide a spiegare.

    «Proprio poco fa è partito un ambasciatore inviato dal ducato di Tridàcna. Forse lo avete anche incrociato» disse.

    Gàrland trasalì. Tridàcna era una cittadina che si trovava oltre le terre di Eòwilas, nel regno di Rhòdeus.

    «Tridàcna?» domandò stupito.

    «È stata quasi rasa al suolo dalla magia nera» argomentò il regnante. La sua voce argentina assunse un che di preoccupato. «Non vorrei fosse opera di quell’artenìsio di cui mi parlaste».

    Grande inquietudine strinse il cuore del mago. Non poteva essere vero. Proprio ora che avrebbe dovuto raccogliere gli ingredienti per riformulare la pozione.

    «È stato avvertito anche il regno di Eòwilas?» chiese sospettoso.

    Gàlomir annuì ad occhi chiusi, poi disse: «Pare che tiri vento di fronda tra Eòwilas e Rhòdeus. La regina Nimphàlis si sarebbe rifiutata di aiutarli».

    «No…» escluse Gàrland con un sorriso. «Stento a crederlo. Ormai posso dire di conoscerla abbastanza bene».

    «Vi dico di sì» ribatté il sovrano sicuro, allontanandosi verso lo scrittoio. «La lettera che l’araldo mi ha consegnato lo esplicita chiaramente. Ecco, tenete».

    Incredulo, il viandante prese la lettera, la srotolò verticalmente con due mani e ne lesse il messaggio ad alta voce.

    Ducato di Tridàcna – Luce del mare

    URGENTE RICHIESTA DI AIUTO

    Gent.mo sovrano del regno di Dagòre, re Gàlomir,

    Con cotale missiva vorremmo indirizzare la Vostra cortese attenzione ad un problema che da qualche tempo ci opprime. Da varie fonti ci è pervenuta la notizia della sconfitta dello stregone e della distruzione della barriera magica sui monti Kilforoniàni.

    A distanza di un anno da quegli avvenimenti, una nuova mano nemica ha ripreso a seminare distruzione, con gravissime conseguenze per i nostri territori.

    La sovrana di Eòwilas si è dimostrata incurante riguardo la nostra critica situazione. È per questo motivo che, a nome del sovrano di Rhòdeus – re Athèris – abbiamo deciso di rivolgerci a Voi.

    Saremmo voluti venire personalmente, ma ci troviamo geograficamente isolati dalla terraferma. Il messo da noi inviato provvederà a fornirVi ulteriori notizie.

    Sperando che vogliate prendere a cuore la nostra critica situazione, continueremo a sperare.

    Abbiamo l’onore di firmarci

    I migliori ossequi.

    Duca Cornèlio e Duchessa Ròsen

    Finito di leggerla, Gàrland l’arrotolò nuovamente e la porse al sovrano. Sul suo viso si dipinse lo scetticismo. Non poteva credere che Nimphàlis si fosse rifiutata di aiutare il regno confinante. Il monarca vide subito l’espressione incredula del viandante.

    «Che vi prende?» chiese curioso.

    «Perché mai Nimphàlis avrebbe dovuto rifiutarsi? La cosa non mi convince. L’ambasciatore vi ha detto qualcosa di più a riguardo?»

    Il sovrano annuì e disse: «Solo che la sovrana non ha mai risposto alle loro reiterate richieste di aiuto».

    «Davvero strano…» replicò il mago, appoggiando un palmo sulla folta barba. Lo sguardo perso sul pavimento. «Mi recherò ad Eòwilas e m’informerò da Nimphàlis» concluse convinto dopo un momento.

    «E se ne approfittassi per domandarvi di recarvi al ducato in qualità di mio inviato? Avreste modo di appurare la personalità dei due duchi e fare chiarezza su questa faccenda».

    «Per me va bene, ma la mia partenza non avverrà prima di due settimane».

    «Temo che quattordici giorni siano troppi» ricusò il sovrano lentamente e con nota preoccupata. Si tolse la corona dorata e la ruotò tra le mani pensieroso, poi l’appoggiò sullo scrittoio. Si voltò e camminò verso una grande finestra quadrangolare, cornice di un cielo scuro, con nuvole che ora si erano tinte di viola e di rosso, mentre il sole era una palla di sangue divorata dal profilo dentellato dell’orizzonte. «Sì, due settimane sono decisamente troppe. Il messo mi ha riferito che il castello di Tridàcna è stato quasi raso al suolo e che i due duchi si trovano ancora al suo interno» aggiunse. «Le comunicazioni con la terraferma sono limitate e le loro provviste non dureranno ancora a lungo. Se volete aiutarmi dovete essere pronto a partire al più presto. Giusto il tempo perché io avvisi il ducato e riceva una loro risposta. Diciamo tre-quattro giorni al massimo. Che ne dite?»

    Il mago non si sentì di rifiutare l’opportunità che il re gli stava offrendo. In fin dei conti, la raccolta degli ingredienti non avrebbe richiesto più di due o tre giorni, ammesso che tutto fosse andato per il verso giusto. Avrebbe potuto tranquillamente rimandare la formulazione della pozione di un giorno. Sarebbe stata l’opportunità per appurare personalmente l’indole dei due duchi e per comprendere quanto grave fosse la minaccia della quale i due nobili avevano parlato nella lettera. Inoltre avrebbe avuto la possibilità di capire quanto si fosse mosso Ìmenum in quei lunghi mesi. Alla fine accettò.

    «D’accordo» disse.

    «Allora scriverò una lettera e la farò recapitare al ducato da uno dei paladini. Non appena avrò ricevuto la conferma vi farò avvisare. Tra quattro giorni… anche tre. Dove vi troverò?»

    «Alla biblioteca della saggezza».

    «Benissimo. Vi farò raggiungere là da Àstar non appena sapremo qualcosa. Grazie Gàrland. La vostra amicizia è un prezioso aiuto per questo regno».

    Il mago replicò con un sorriso espansivo. Ora avrebbe potuto chiedere senza indugio l’ingrediente a Re Gàlomir, benché convinto che la richiesta che gli avrebbe rivolto non sarebbe stata facilmente esaudibile. Fece per parlare, ma il sovrano lo precedette.

    «Scusate se mi sono preso la libertà di coinvolgervi in questa faccenda, ma sapevo che avrebbe potuto interessarvi» disse.

    «Infatti è così» replicò Gàrland cordiale.

    «Posso domandarvi cosa vi porta a Dagòre? Avete poi terminato quella pozione di cui mi parlaste?»

    «Vi sembrerà strano, ma sono qui proprio per questo motivo. Mi occorre il vostro aiuto».

    «Se posso…» fece il sovrano, chinando un poco la testa e aprendo i palmi in segno di concessione.

    Prima di avanzare la sua richiesta al sovrano, Gàrland gli presentò l’alchimista. Nonostante il disastro che aveva combinato, Sèrafil venne molto elogiato dal pellegrino. Lo scienziato lo apprezzò tantissimo. Il sovrano e l’alchimista si salutarono con una forte stretta di mano.

    «Siamo qui per domandarvi un ingrediente» disse il mago.

    A quelle parole, gli occhi fermi del sovrano si posarono su quelli verdi dell’alchimista, perdendosi nella profondità di quello sguardo intelligente. Il viso eccentrico dello scienziato lo stregò.

    «Un ingrediente?» ripeté in tono vacuo.

    «Sì, siamo alla ricerca del sangue di drago».

    Gàlomir scosse la testa di getto, facendo precipitare Gàrland e Sèrafil in un baratro di sconforto. Come avrebbero fatto senza di esso? La decisione del monarca aveva tutta l’aria di essere definitiva ed indiscutibile. I due eruditi attesero che il re almeno motivasse quella decisione apparentemente affrettata e non ponderata.

    «Quello che mi domandate va oltre le mie possibilità, Gàrland. Voi sapete bene quanto i draghi siano importanti per questo regno. Non posso recare sofferenza ad alcuna di queste creature. Mi dispiace, ma non posso proprio ottemperare alla vostra richiesta».

    «Ma sarà necessaria sola una piccola quantità» chiarì fiducioso il viandante. «Sèrafil, il recipiente».

    Il sovrano ricusò nuovamente, allungando la mano e ribadendo la sua decisione. Avvilito da quella presa di posizione, Sèrafil smise di rovistare.

    «Non posso davvero» riaffermò dispiaciuto. «Tuttavia, mi permetto di suggerirvi una valida alternativa. La vostra magia potrebbe aiutarvi comunque ad ottenere quel che cercate, Gàrland».

    «Sarebbe a dire?» chiese il viaggiatore con una nota di delusione nella voce.

    «Al di là delle montagne di Urènius, oltre i confini settentrionali delle terre di Helenìsya, so che esiste un luogo popolato da numerosi draghi, la cui intelligenza supera persino la nostra».

    «I draghi ribelli…» interloquì il pellegrino con fare preoccupato. «Una delle antiche minacce del regno di Sòlius. Diedero molto filo da torcere alla regina Hesperìda. Per quanto sagge e intelligenti, sono comunque creature molto pericolose».

    «In che senso?» chiese il sovrano altamente turbato. «Se ben ricordo, la sovrana di Sòlius riuscì a tenerli alla larga dal regno… o almeno così ho sempre letto».

    Gàrland chinò la testa, cercando di ricomporre quel puzzle di ricordi confusi che riempivano la sua testa in maniera disordinata. Quand’ebbe fatto un po’ di ordine in tutto quel caos, iniziò a spiegare.

    «Incendiavano i campi e facevano razzìa di bestiame» disse lentamente. «Molti sudditi delle campagne morirono durante i loro attacchi. Divenne un problema di vasta portata, così grande che la regina fu costretta ad armare tutte le periferie. Il fuoco persistente di quelle creature era persino in grado di sciogliere la roccia, trasformandola in lava. Fu anche grazie alla magia degli artenìsi se la regina Hesperìda riuscì a contenere la minaccia dei draghi ribelli: era un problema comune, che superava ogni genere di contrasto governativo».

    Quando il mago terminò di raccontare, il viso del re aveva assunto un’aria di seria inquietudine. Il regno di Dagòre era sorto dopo l’imposizione della barriera magica; non avendo il reame più di centocinquanta anni, nessuno dei suoi sudditi aveva mai sperimentato un simile pericolo. Come avrebbe potuto Re Gàlomir difendere il suo popolo se mai si fosse presentata una minaccia del genere? Le parole di Gàrland sembravano attendibili e veritiere. Erano esperienze che il mago aveva vissuto in prima persona.

    «Credete che quel pericolo potrebbe riaffacciarsi sulle nostre terre?» chiese il re nervoso, facendo scorrere le dita di una mano dalla guancia al labbro inferiore.

    «Chi può dirlo…» rispose il pellegrino stringendosi nelle spalle e aprendo i palmi. «Il fatto che ancora non si siano fatti vedere potrebbe indicare tre cose: o che si sono spostati, o che si sono estinti o che, ancora, non si sono accorti della distruzione della barriera».

    «E se fosse vera la terza ipotesi?» incalzò il sovrano. «Se considerassimo la possibilità che presto o tardi torneranno?»

    «In quel caso è chiaro che il regno dovrebbe difendere i sudditi, magari agendo come fece la regina Hesperìda più di due secoli fa: armando le periferie».

    «Pensate che l’uso degli arpioni potrebbe aiutarci a tenerli lontani?» chiese il re.

    «Dovranno essere costruite delle opportune strutture protettive, capaci di resistere al loro fuoco, in ferro possibilmente» spiegò l’altro. «Alla biblioteca sono ancora conservati gli autentici manuali degli ingegneri del regno di Sòlius. Ad essere onesto non ricordo se ci sia scritto qualcosa a riguardo, ma potrebbe essere un’idea consultarli».

    «Debbo assolutamente procurarmeli!» rispose d’impulso il monarca, saettando un pugno davanti a sé. «Domani stesso invierò uno dei paladini e me li farò portare».

    «Mi spiace Gàlomir, ma nessuna delle opere conservate alla biblioteca può uscire dall’edificio. E poi non è nemmeno detto che ne avrete davvero bisogno».

    Il sovrano parve non capire le ultime parole del mago. Un’espressione dubbiosa si abbozzò sul suo viso.

    «Cosa volete dire?» chiese ignaro.

    «Voglio dire che non sappiamo se quelle creature si sono davvero estinte. Certo, considerato quanto quel sangue ci è necessario, io voglio ben sperare di no».

    La franca risposta di Gàrland sorprese molto il nobile, che per un momento rimase senza parole. Aggrottò la fronte con aria incredula, poi batté una volta le palpebre. Se lui era preoccupato per via della possibile esistenza dei draghi ribelli, il viandante sperava che fossero ancora vivi per appropriarsi di quel che stava cercando. Che valore poteva mai avere del misero liquido rosso?A un tratto, il monarca fu còlto da un’idea che distese all’istante tutte le grinze sul suo nobile viso.

    «Ho trovato!» proruppe all’improvviso, alzando il dito indice. «Quando ci rivedremo alla biblioteca per la questione di Tridàcna, mi racconterete della vostra spedizione. Avrò modo di fare due calcoli e decidere il da farsi».

    «Quindi aspetterò anche voi sul monte Hykdon?» domandò il pellegrino.

    Il monarca annuì deciso.

    «Sta bene!» concluse l’altro. «Dubito che sarò di ritorno alla biblioteca prima di quattro giorni. Fra cinque giorni, ammesso che non morirò prima, mi troverete là».

    Gàrland e Sèrafil furono invitati da Re Gàlomir a trattenersi a palazzo per la cena. La cucina offrì laute porzioni di riso con funghi porcini e spezzatino di capriolo al tartufo con contorno abbondante di cavolo rosso alle mele e carciofi. Furono servite infine praline di marzapane guarnite con gherigli tritati di noci.

    I due dótti mangiarono a sazietà e niente avanzò nei loro piatti.

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