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La caccia all'unicorno
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La caccia all'unicorno
E-book164 pagine2 ore

La caccia all'unicorno

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Info su questo ebook

Nel regno immaginario di Vienna, cavalieri e dame danno la caccia a un unicorno. Pare che solo bevendo il sangue della creatura, la regina Vilja potrà liberarsi dai pericolosi effetti della maledizione della strega Mefitis.
Nel frattempo. però, anche il giovane cavaliere Tancredi, e la dama Clizia, cercano a loro volta di catturare l'unicorno...
LinguaItaliano
Data di uscita26 giu 2020
ISBN9788835855873
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    Anteprima del libro

    La caccia all'unicorno - Giulio Pooli

    pooli_la_caccia_all'unicorno_copertina.jpg

    Giulio Pooli

    La caccia all’unicorno

    A Sofia

    I

    Dell’unicorno fuggitivo

    Presso fior di lilio e malve

    D’acanto, d’acacia, al rivo

    Gran Musa Clio, dell’aspra caccia

    Per le ombrose fosche selve

    Narrami, se ciò pur ti piaccia.

    Dame e Cavalier invano

    Gli dan la caccia con le ilve

    Arme corrusche nella mano.

    Con lena corre, le catene

    Fugge de’ cacciator e volve

    ratto a seguir il suo bene.

    Il rivo a un fiume cede

    Un fiordo copron alghe, ulve,

    Ed ei a ristor cercar riede.

    - Ov’è l’unicorno?

    Il Sire Richard e la sua compagine di prodi si sono fermati.

    - Cavaliere dei Corvi, questo è un enigma per noi!

    - Se solo il valoroso Oktavian di Hirschweg, esperto di cacce, ci avesse seguiti! In vero, non avremmo durato fatica! Ma la sorte l’ha voluto tornato alla sua Terra, e buon pro’ gli faccia.

    Richard si è voltato. Miracle, l’Amazzone, lo seguiva sulla traccia.

    - L’unicorno è creatura della luce. Forse dovremmo seguire il Sole nel suo volgere.

    Ha detto la spavalda guerriera, con voce di cristallo.

    - No. Torniamo da Vilja, la nostra Regina. Chi sa quali terribili scherzi ci potrebbero fare gli Spirti e le Naiadi della foresta, quando restassimo al buio.

    La Sala del Trono era alta e ampia. Da alte bifore, contenenti ciascuna una colonna tortile, filtrava la luce del tramonto.

    Il Trono dallo schienale rotondo di ruvida pietra, è stato abbandonato da Vilja per camminare su segmenti di marmo che formavano una sorta di mosaico. Scalini di ardesia la tenevano più in alto dei suoi due sudditi, Richard e Miracle, che entravano da differenti vie nel salone.

    Pallida, lattea ninfa del Regno di Vienna, Vilja ha sceso i gradini. Bianchi erano i suoi capelli, e così le pupille, tali che l’iride si confondeva col bianco degli occhi. Il suo vestito variopinto di seta, viola e oro. Si è trovata di fronte i due. Ha allungato in direzione di ciascuno un avambraccio. Richard si è inginocchiato: non a Vilja, ma al Sacro Trono illuminato dai raggi serali alle sue spalle, e dalla Grazia Divina. Ha stretto la mano della sua Signora e l’ha coperta di lacrime. Miracle ha accennato un inchino e ha baciato quella sinistra a lei tesa.

    Richard portava l’abito di festa dell’Ordine dei Floni, che aveva preferito all’armatura nella caccia. Un abito giallo zafferano, con un manto verde ornato di fiori trapunti all’estremità. Infangato e sudato, il Cavaliere si sentiva stremato.

    Richard proveniva dal villaggio inglese di Rexenby. Aveva occhi e capelli castani.

    Miracle era vestita di una strana armatura fatta solo di coperture per le spalle, i gomiti e le ginocchia. Portava un pugnale al fianco e una spada dietro la schiena. Il resto del vestito era maschile e color di sacco.

    La bella era bionda, ma anch’essa dagli occhi castani. La sua terra d’origine era a Occidente, famosa per i suoi arcieri e i frantoi dei campi.

    - Miei sudditi, siete di nuovo entro i confini della Città. Asciugate le lacrime e il sudore.

    - In che modo?

    Ha detto Richard con tono melanconico, come quello di un trovatore del Trovar di Morte.

    - Signora, Vi abbiamo delusa.

    - No. Affatto. Ora sappiamo con certezza, che l’unicorno esiste.

    - Oso chiedervi se è stato per sapere questo, che ci avete inviati.

    È intervenuta Miracle.

    - Sì, Cavaliera. Per questo vi ho mandati.

    - È vero ciò che si dice, che se non cattureremo l’unicorno, perderete la vista?

    - Così è, per via della maledizione di Mefitis.

    Da sinistra, da dove era entrata Miracle, è caracollato Iorio, il buffone di corte. Orrido nano malefico, della stirpe di Alberich, era gobbo e zoppo. Il suo berretto con sonagli e il vestito da arlecchino avrebbero potuto far ridere, ma teneva in mano un bastone di giunco terminante con un teschio di scimmia. Anche il teschio aveva un cappello con sonagli. Ha cominciato a ridere sinistramente.

    - Guardate bene i Vostri servi da quattro soldi, Signora, perché non li vedrete ancora a lungo!

    - Iorio, ecco che da tacito che eri nel banchetto, mentre ti abbuffavi, ora parli.

    Ha commentato la Regina.

    - Sì, e Vi maledico, e dico che Colei che disperde le adunanze Vi raggiungerà, perché la malattia dei Vostri occhi si è diffusa ai capelli, e minaccia la testa, e la corona che la sovrasta.

    - È lesa maestà!

    Ha commentato Richard.

    - Sì, Richard. Il buffone è reo di malefizio, peraltro, ma non posso farci nulla. Mio marito, quando morì, disse che i buffoni dovranno sempre essere mantenuti a spese dello Stato, e mai puniti per le loro balordaggini. Il buffone di corte di allora era meno irriverente, e i suoi motti erano volti a ridere con gli altri di facezie, non a godere del loro dolore. Devo troppo alla memoria di mio marito Franciscus, per disobbedire al suo ultimo desiderio.

    - Ah ah ah! E così, Signora, da allora comanda un morto, e presto chi comanda morirà.

    Miracle ha estratto la spada, e l’ha puntata contro la gola del pagliaccio.

    - A costo di marcire in prigione, vorrei punire questa lingua!

    Il buffone ha riso più forte.

    - Davvero, Cavaliera? Ma sì, liberatemi di questa vita che odio, e non dovrò più invidiare tutti voi, che il Signore ha voluto più belli e fortunati di me.

    - Miracle.

    Ha detto la Regina.

    - Non fatelo! Costui è l’unico che sappia come curarmi, una volta catturato l’animale.

    - Glie lo farete confessare con le torture?

    - No. Lui stesso lo farà da solo. La vita per lui è già una tortura. In lui il bene e il male si alternano, e parlano vicendevolmente. Come ora è malvagio, a volte diventa buono.

    - Perdonate, Signora. Io, però, l’ho sempre visto cattivo.

    Miracle ha rinfoderato la spada.

    - Ora, però, amantide armata di lama, ti farò vedere che so essere anche buono! Ebbene, vi dirò come catturare l’unicorno. E come potrà guarire la cecità della Regina.

    Detto questo, Iorio rideva come un forsennato.

    - Parla!

    A quest’ordine della Regina, il gobbo di corte è sbiancato. Ha finito di ridere. È parso raddrizzarsi e commuoversi. Ora piangeva.

    - Da che mondo è mondo, per catturare gli unicorni ci vuole una vergine. Solo una ragazza il cui onore non sia mai stato macchiato, che non abbia mai conosciuto uomo può farcela. Lui stesso, stanco di fuggire da voi, si addormenterà con il muso in grembo a lei.

    - E come posso guarire poi?

    - Affondate un pugnale nell’unicorno. Bevete il suo sangue, e guarirete dalla cecità. Ma più sangue berrete, più la vostra vita diventerà oscura. Una goccia di troppo, potrebbe precipitarvi in una terribile incertezza, due, anche in mali peggiori.

    - Come posso sapere che non menti?

    - Mento in fatti, mento sempre!

    Iorio era già rientrato nella, più frequente, malvagità di prima.

    I due camminavano veloci per sale e androni e corridoi.

    - Io torno alle mie stanze, per riposare, Miracle. Avrò incubi nel riposo. Tremo all’idea, che la nostra Regina si trasformi in una vampira, per salvarsi gli occhi.

    - Io no. Sono certa che una goccia sola dell’unicorno le farà bene. Uccidere quella bestia, è un male minore, da sopportare per un grande bene.

    - Tu dove vai, amica mia?

    - Dalle mie Amazzoni, nelle stalle. Chiederò se ci sono vergini tra loro ma, diciamolo, non mi aspetto che ce ne siano!

    Richard era stato stalliere, prima che Cavaliere. Doveva il suo stemma con i due corvi d’argento in campo blu, al Re d’Inghilterra, che lo aveva investito. Tutti sapevano come avesse conquistato la nobiltà con la spada, servendolo quando era Principe d’Inghilterra, combattendo guerre, e viaggiando per il mondo. Di lui si narrava che sapesse parlare la lingua degli uccelli.

    Quella notte, il Cavaliere dei Corvi ebbe un sonno agitato. Sognò che il monastero dei frati che lo avevano cresciuto, andasse a fuoco, per colpa di un uomo malvagio. Quell’uomo vestita di nero, con abiti da Cavaliere lussuosi, e portava un elmo nero cilindrico che copriva quasi tutto il volto.

    V’era alla corte il giorno dopo, sempre piena di ospiti stranieri, un giovane nobiluomo. Sapeva conversare molto bene, e avrà avuto quattordici anni, meno della metà rispetto a Richard, che ne aveva trentotto. Bello d’aspetto come un Principe, in molte, delle Dame, non avrebbero disdegnato baciarlo. I suoi modi erano fin troppo eleganti, e il volto esprimeva timidezza. Discendeva dalla nobile famiglia italiana dei Neris. Il suo nome era Tancredi.

    Quando gli chiedevano da dove venisse, il giovane dava una risposta sibillina. Soltanto un motto di spirito, per chi non lo avesse creduto matto.

    - O Tancredi, che tanto credi!

    Gli ha detto una ragazzina scherzando, e al contempo esaltando la sua religiosità. Tancredi era un Cavaliere Mistico, e si era recato a Vienna con l’intento di vedere una reliquia. La Vera Croce, che i Viennesi si onoravano allora di custodire.

    - Da dove venite, Cavaliere?

    - I Comandamenti di Nostro Signore mi vietano di mentire. Sappiate tutti voi che mi ascoltate, scusando la mia spudoratezza, che io vengo da un altro mondo.

    - Posto sotto o sopra il nostro?

    Ha chiesto il Saggio Aminadab.

    - Non saprei dirlo. Una cosa è certa: quel mondo è vero, mentre questo dove siamo non è che un sogno.

    Molti si sono messi a ridere. Aminadab stava in silenzio.

    - Si può ben dire, che il mondo di cui facciamo parte sia così effimero che sia un sogno.

    Il saggio era l’unico a credergli. Gli altri lo prendevano per matto o burlone, e dicevano di essere convinti di esistere, in carne e ossa. Insomma, di non essere fantasmi o aliti di sogno. Succedeva spesso così. La cosa si ripeteva, e Tancredi era ormai stanco di quel gioco.

    Aminadab era un sapiente astronomo, Ebreo della Tribù di Levi. Vestiva un preziosissimo abito in porpora e pelle d’ermellino, dalle molte pieghe. Aveva

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