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Connessione con l'aldilà
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E-book238 pagine3 ore

Connessione con l'aldilà

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Info su questo ebook

Ritrovatosi in una minuscola stanza senza porte e finestre, Ken J. Elliott ricorda quando tutto ebbe inizio. Una notte di Ottobre del 2041 sogna il suo amico d’infanzia Marc Jefferson col volto insanguinato, che invoca aiuto. La mattina seguente riceve una telefonata: Emily, un’altra sua amica d’infanzia, lo prega di raggiungerla a Denver per consegnargli un plico da parte di Marc. Ken si mette in viaggio da Seattle verso Denver, dove incontra Emily. In privato lei gli rivela che suo marito Marc è in pericolo di vita e braccato da agenti governativi. Nella villa dei Jefferson, Ken ed Emily vengono travolti dalla passione. Il mattino seguente Ken trova la Graham (la digital key con i dati personali di Marc), ma Emily è sparita. Inseguito da sconosciuti, fugge per mettersi in salvo. Una volta al sicuro, Ken utilizza la Graham e scopre alcune applicazioni. Dal portatile un enorme bagliore: tramite il software “Serapide” è in grado di collegarsi con l’Aldilà! Entra così in contatto con un certo Abdul Khalid, che gli rivela agghiaccianti segreti: il Presidente americano del 2041 Morrison, con un passato d’agente nei servizi segreti, è stato complice di vari attentati. Gli mostra dei video dove il Presidente e altri agenti programmano con dei terroristi la strage delle “Torri Gemelle” e la diffusione del Covid-19.
LinguaItaliano
Data di uscita30 giu 2020
ISBN9788831674690
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    Anteprima del libro

    Connessione con l'aldilà - Gianni Brandi

    633/1941.

    PROLOGO

    Se state leggendo questo messaggio, vuol dire che sono riuscito nel mio intento e ho trovato il modo di mettermi in contatto con qualcuno. Il mio nome è Ken J. Elliott, nato a Denver il 25 maggio 1990. Fino a pochi mesi fa (ottobre 2041, ndr) avevo trascorso la mia vita senza troppe emozioni, ai limiti della banalità. Quelle però che erano le mie certezze, all’improvviso, hanno cominciato a vacillare e ad assumere contorni sfumati. Confuso, mi sono ritrovato catapultato in un incubo, tra realtà e fantasia.

    Mi sono ritrovato ad avere capacità paranormali, ho incontrato mio padre e vittime di attentati, morti da anni, e ho visto mio figlio di 14 anni, già in età piuttosto avanzata. Mi ritrovo, a questo punto, imprigionato tra verità e allucinazioni e vivo esperienze ai limiti del soprannaturale. Non riesco più a distinguere il bene dal male e ciò che è reale rispetto a delle proiezioni dei miei pensieri.

    CAPITOLO I

    «Dai, Ken, alzati. Dobbiamo assolutamente trovare una via di fuga».

    Sento, incalzante, una voce riecheggiare. A terra, stordito, mi riprendo lentamente dal torpore. Innanzi un muro di pietra. L’ambiente è buio e di pochi metri quadri e non ci sono né porte né finestre. Unico spiraglio un piccolo lucernario distante sopra la mia testa. Il respiro è affannoso. Un senso di oppressione mi assale.

    Cosa è successo?

    Provo a ricordare il momento in cui tutto ha avuto inizio...

    Era una notte di fine ottobre dell’anno 2041, con lampi, tuoni e il vento che ampliava i rumori. Mi svegliai all’improvviso, sconvolto da un sogno inquietante. Fissa nella mente l’immagine del mio amico d’infanzia, Marc Jefferson che, con il volto insanguinato, mi chiedeva di aiutarlo. Erano le 07.00 circa quando mi alzai dal letto e, ancora intontito, mi guardai allo specchio. Nonostante gli acciacchi dell’età e a dispetto di sparuti capelli grigi, sono un uomo di bell’aspetto con ancora un fisico tonico, dissi tra me e me quasi per darmi conforto.

    D’improvviso, un’eco lontana di una voce di bambino.

    Udii dei passi leggeri e notai un’ombra lesta dietro le mie spalle. Mi voltai di scatto, ma non vidi nessuno. Allungai lo sguardo verso il corridoio e sentii il guaito distante di Billy, il mio cocker spaniel. Si era rannicchiato, spaventato, in salotto, sotto il divano di pelle bianca. Mi fissò con gli occhi lacrimevoli, quasi in cerca di un sostegno morale. Provai a tranquillizzarlo, ma la mente era presa d’altro e vagava inquietante tra i ricordi dell’adolescenza. L’incubo aveva rievocato una serie di episodi spiacevoli.

    Vicini di casa sin dall’infanzia, io e Marc siamo stati per lungo tempo inseparabili amici. Abbiamo per anni condiviso passioni e interessi comuni, come il football, dai tempi della squadra del liceo. E successivamente, motori e tecnologia.

    All’età di venti anni ci rifugiavamo nel garage della lussuosa villa dei suoi genitori e, utilizzando come supporto una delle moto del padre, progettammo il prototipo di una hover-bike a quattro eliche orizzontali. Non tutto però andò per il verso giusto…

    «Marc, passami la chiave metallica. Devo regolare la frequenza del rotore sinistro».

    «Dai, non esagerare. Non avevamo detto che ci saremmo limitati a ridurre l’angolo di incidenza dei rotori?».

    «No, abbiamo già provato. Dobbiamo guadagnare in stabilità»…

    Durante uno dei nostri esperimenti il prototipo di hover-bike con il motore ancora in funzione si riversò rovinosamente su Marc e gli tranciò i tendini della gamba sinistra.

    «Aiutami, Ken, chiama mio padre, fai qualcosa… Mio Dio, quanto sangue!»…

    «Marc, non agitarti. Stringi il panno stretto alla ferita. Proverò ad alzare lentamente la moto e poi chiamerò tuo padre»...

    Il recupero funzionale dell’arto fu lento e traumatico. L’impazienza di Marc durante la degenza non consentì una perfetta suturazione dei tessuti e contribuì a renderlo parzialmente invalido. Marc si vide così applicare una protesi in sostituzione del ginocchio fantasma.

    L’incidente, oltre a invalidarlo in modo permanente, segnò la fine dei nostri interessi comuni e mise a dura prova il nostro rapporto d’amicizia, acuendo il senso di invidia che Marc nutriva per le mie prestanti doti fisiche. È sempre stato più basso di me e già in giovane età palesava una incipiente stempiatura che non lasciava ben presagire. La menomazione fisica lo rese anche più suscettibile e scontroso. E diventai io la sua valvola di sfogo…

    Ancora scosso, chiesi la connessione con comando vocale e interrogai il gestionale informatico. In un attimo, al centro della stanza, attraverso l’ornamentale piramide rovesciata in vetro, si dipanavano ologrammi di figure e icone in 3D. Iniziai a cercare freneticamente sul web il nome Marc Jefferson, ma dell’amico nessuna traccia. Continuai l’indagine in maniera sempre più ostinata, quasi ossessiva, e aggiunsi vari dettagli relativi al vecchio amico, ma invano.

    Che strano! Possibile che non esistano indicizzazioni, tag, o altre informazioni che lo riguardino?. Approfondii le indagini tramite motori di ricerca e social network, ma comparvero solo Marc Jefferson di altre città, con volti che non riconoscevo.

    E se non fosse solo un sogno? Se Marc fosse in pericolo e volesse comunicarmi qualcosa?.

    Dopo circa mezz’ora i miei pensieri vennero interrotti dal veloce trillo del digital-voice¹. Chiesi prontamente la lettura del messaggio. Il gestionale di casa con la solita voce suadente proferì: «Missiva registrata alle ore 03.46 a.m.». Dopo qualche attimo di esitazione, sentii riecheggiare nella stanza una voce familiare di donna. Il tono era molto inquieto: «Ciao Ken, sono Emily Burns, ti prego, raggiungimi quanto prima a Denver. Devo consegnarti qualcosa che appartiene a Marc. Lui ha detto che posso fidarmi solo di te».

    In un attimo, lo sconcerto. Cosa vuole da me?

    Emily era una nostra compagna di liceo e capo Cheerleaders della squadra di football. Alta, capelli color miele, folti e crespi, occhi castano chiaro e un corpo aggraziato, approfittavo di ogni occasione per trascorrere del tempo con lei. Durante i primi anni di liceo avemmo un flirt di pochi mesi. Una volta lasciati promettemmo che saremmo rimasti amici a vita senza ulteriori coinvolgimenti sentimentali. Il giuramento durò però poco!

    Era già fidanzata con Marc quando una sera, trasportato dai sentimenti, la baciai ancora una volta. Provai a confidarmi con l’amico fraterno, sperando che avrebbe capito, ma invano.

    Poco tempo dopo, durante i festeggiamenti della mia cerimonia di laurea presso l’Ateneo….

    «Ciao Emily, stasera sei irresistibile. Il tuo vestito è troppo scollato, però. Stai facendo girare la testa a tutti. Marc deve fare attenzione. Qualcuno potrebbe provarci con te. A proposito, dove sta?».

    «Ken, troppo gentile. Marc sarà sicuramente in giro a fare il cicisbeo con altre ragazze. Non ci crederai, comunque, ma stasera, con questo vestito, non ho ricevuto nessun avance».

    Con una sonora e sensuale risata lei interruppe la conversazione…

    «Ken, sei sempre impegnato a corteggiare le fidanzate dei tuoi più cari amici?».

    «Marc, finalmente. Ci stavamo domandando dove fossi».

    «Emily, non ti intromettere. Sto parlando con il mio migliore amico».

    «Marc, sei alticcio. Meglio se ce ne andiamo a prendere una boccata d’aria insieme».

    «Non mi parlare. Allontanati…». Marc, piuttosto alterato, spinse, con forza, distante il braccio di Emily.

    Provai a intervenire per sedare la discussione quando Marc, approfittando della situazione, mi diede un pugno in pieno volto. Io, intontito, mi rialzai da terra. Incurante dei rimproveri dei presenti, assestai poi con rapidità un gancio al mento di Marc, che cadde a peso morto su una tavola imbandita. Il pudding pronto in un recipiente si rovesciò buona parte sulla sua testa. Tanti i curiosi che accorsero in prossimità del patio per non perdere la scena quasi comica.

    La comunicazione improvvisamente si interruppe. Chiesi al computer centrale di rintracciare i recapiti di Emily, ma la risposta fu negativa: «Il mittente ha utilizzato un accesso criptato».

    Strano a dirsi. Tanti anni nel più totale silenzio e in poche ore il passato torna in maniera così impetuosa.

    Forse Marc è davvero in pericolo. Devo andare in fondo a questa storia!

    Mi preparai velocemente. Cinsi al polso il moderno smart-watch e indossai i primi indumenti che trovai nell’armadio. Imbracciai Billy e lesto bussai alla porta della mia giovane vicina. Mi aprì senza controllare dallo spioncino. Abbandonò rapidamente l’uscio e senza guardarsi alle spalle mi invitò a entrare. Indossava una sottana di pizzo nero che lasciava intravedere, in parte, il suo acerbo corpo da giovinetta.

    «Kate, mi dovresti fare il solito favore...», le chiesi garbatamente, mentre il mio minuto coinquilino iniziò ad abbaiare. Rispose seccata: «No, Ken. L’ultima volta il tuo cane ha fatto la pipì sul divano». Accennando un sorriso, continuò: «…eppoi, sempre eccitato, infastidisce i miei ospiti, sempre alla ricerca di qualche gamba»…

    Mi incamminai verso lo Studio distante circa dieci isolati. All’ingresso sentii una voce digitale: «Bentornato, dottor Elliott».

    Vidi Mary, poi, la segretaria sempre sorridente, che mi scrutò con i suoi occhi verde smeraldo. Era seduta dietro una scrivania stile moderno, con le gambe accavallate di lato. Capelli lisci lunghi color corvino, indossava un tailleur giallo, aderente, abbinato a vertiginosi tacchi a spillo. «Buongiorno, dottore».

    Risposi al suo saluto e le chiesi informazioni sui futuri appuntamenti. Con la sua consueta voce sensuale mi domandò: «Gradisce un caffè?», versando, nel contempo, la bevanda in una tazza. Mentre sorseggiavo l’intruglio, raccolsi il palmare con la lista dei pazienti e raggiunsi la stanza del socio più anziano, il dottor Anthony Jackson.

    Era con lo sguardo assorto sul monitor, intento a eseguire un esame tomografico a distanza sul cavo orale di un paziente. Come si avvide della mia presenza, mise in pausa il congegno elettronico e si alzò dalla sua postazione per salutarmi. Sempre elegante, sotto il camice da dentista si intravedeva un maglione blu scuro e la sua tipica camicia cerulea a righe strette. Chiese attonito: «Ken, cosa fai qui? Non è il tuo giorno libero?».

    «Caro Anthony, so che posso contare su di te. Ho degli impegni improrogabili e starò via per un po’ di tempo. Puoi sostituirmi?». Concordammo insieme i futuri appuntamenti, ma la curiosità poi prese il sopravvento.

    «Anthony, hai per caso visto o sentito ultimamente Marc? Intendo il mio amico Marc Jefferson. So che per anni ha curato il gestionale informatico della tua abitazione. Anche se a distanza».

    La mia domanda lo colse di sorpresa. Si stava forse chiedendo dove volessi arrivare e perché mai, dopo anni di silenzio, gli chiedessi di Marc. «No, in verità è da un bel po’ che non sento il tuo amico. L’ultima volta mi disse che era particolarmente impegnato e che non riusciva più a gestire i software del mio sistema. Mi sono dovuto rivolgere ad altri operatori. Mi sembra di avertelo già detto». E poi, dopo una pausa di riflessione: «Ma perché, gli è successo qualcosa?»

    Lo guardai dubbioso, indeciso se raccontargli tutto ciò che mi era successo in mattinata. Provai a sminuire: «Non ne so nulla, è da un bel po’ che non lo vedo e sento e mi farebbe piacere sapere cosa sta facendo. Tutto qui».

    Anthony arricciò la fronte pensoso e attese qualche secondo prima di rispondere: «A pensarci bene, Mary mi disse un giorno che Marc si era messo nei pasticci. Quando le chiesi ulteriori informazioni, lei però glissò. E la cosa mi ha un po’ stranito».

    Annuii. Feci una pausa di riflessione e poi gli risposi: «Va bene, non fa nulla. Fai finta che non te l’abbia mai detto. A volte i ricordi dell’adolescenza lasciano degli strascichi di nostalgia. Ma non si può tornare indietro».

    «Certo, Ken. A volte capita pure a me. Ma mi sembra strano. Non ti eri lasciato in buoni rapporti con Marc…»

    Lo ascoltai imbarazzato e preferii tagliare corto per non riaprire una ferita che mi aveva lasciato dei solchi profondi. Abbracciai calorosamente il collega e mi allontanai quindi con passo spedito. Prima di uscire dall’ufficio notai che in sala d’aspetto vi erano già tre assistiti. Adocchiai in lontananza il grande orologio digitale a muro. Impiegai qualche secondo per mettere a fuoco il display. Segnava le 07.00 p.m, anziché le 11.00 a.m. Incredulo mi rivolsi alla segretaria: «Scusami, ma il sistema informatico dello Studio non funziona? Potresti chiedere di aggiornare data e ora?».

    Avvertii, improvvisamente, una forte perdita dell’orientamento e mi sostenni con il braccio sinistro sul bancone della reception cercando di dissimulare il malessere. Percepii un flebile odore di incenso, tipo oud. Vidi nell’ombra la scritta rovesciata NODNOL e una musica pop che sembrava essere generata direttamente dalla mia mente. Provai a comprendere quale fosse l’impercettibile rumore a portata di orecchio: forse quello di un treno in movimento, oppure un aereo. La suggestione, anche se di breve durata, mi intontì quasi al punto di perdere i sensi.

    Mary, notando il mio colorito pallido, seduta nella sua postazione: «Dottore, non capisco. L’orologio segna l’orario corretto. Tutto bene?».

    Sarà stato solo un breve malore, pensai turbato…

    Rientrai a casa. Preparai uno zaino con lo stretto necessario. Immancabile il prezioso softnet². Mi recai quindi in garage e con comando vocale attivai l’apertura dello sportello della mia auto Honda Hover TK 3000 super-accessoriata.

    Poggiai il bagaglio sotto il sedile anteriore lato passeggero. Chiesi i comandi manuali e disattivai l’autoguida. Impostai quindi sul navigatore il percorso con destinazione programmata: Denver. Avrei potuto ridurre notevolmente i tempi di percorrenza con il pilota automatico, ma avevo bisogno di tempo per riflettere. Iniziai dunque a viaggiare, anche col pensiero…

    Il viaggio era lungo. Ricevetti diverse telefonate di lavoro e il tempo scorse via più veloce del previsto. Dopo sette ore circa di viaggio, interrogai il computer di bordo per contattare mio figlio. Abitava con la madre Lucy a Chicago e lo vedevo raramente a causa dei miei continui impegni di lavoro. In pochi secondi, su una sezione del vetro anteriore dell’auto comparve l’immagine di Jason nella sua stanza, seduto in un simulatore cockpit del videogioco Formula1 della consolle Sony X10. Esordii con: «Buongiorno, Jason».

    Passò ancora qualche minuto mentre mio figlio, ancora silenzioso, si dimenò forsennatamente nell’abitacolo monoposto che simulava una vettura di Grand Prix in un percorso virtuale.

    D’impeto, un sobbalzo. Si alzò in piedi ed esclamò: «Che botta. Sto bruciando...» e, quasi a voler spegnere le fiamme immaginarie, con le mani, si percosse in alternanza gli avambracci opposti. «Merda, quel cretino mi ha buttato fuori strada. Questa curva è micidiale, gli incidenti sono troppo realistici…». Si spogliò del leggero casco VR (virtual reality) in dotazione e mise il simulatore in stand by, ricambiando, alquanto seccato, il mio saluto.

    Mi rivolsi nuovamente a lui in tono indulgente: «Ma che combini?» e poi, dopo qualche attimo di pausa: «Ascolta, Jason, dobbiamo rinviare il nostro incontro. Sono mortificaito. Spero di poter passare da te la settimana prossima».

    «Ma come, sono due settimane che non ci vediamo?» sospirò in tono sempre più infastidito.

    «Non preoccuparti, farò il prima possibile. Recupereremo il tempo perduto, te lo prometto». Lo congedai, sperando in cuor mio di poter onorare quanto prima l’impegno preso.

    Effettuai subito dopo una sosta. A lato della strada una Stazione di Servizio. Feci revisionare il veicolo e chiesi la sostituzione di due unità energetiche per l’autovettura³.

    Sostai nell’attesa presso il Market antistante per consumare una Red Bull. Mi rivolsi all’addetto dell’esercizio: «Marc…?!».

    In un istante il negoziante aveva le sembianze dell’amico di vecchia data. «Tutto bene…?», mi rivolse la parola il tizio in livrea.

    Era solo una improbabile allucinazione!

    Mi rimisi sconcertato in viaggio. Erano passate le 20.00 e mi trovavo ancora in autostrada. Tante le luci bianche, rosse e blu, nel buio, all’orizzonte, che all’approssimarsi diventavano sempre più imponenti. D’improvviso innanzi a me uno scenario impressionante. Una moto ribaltata sul ciglio della strada. La polizia stava gestendo il traffico e aveva già transennato il perimetro. Sul selciato era disteso un giovane privo di sensi. Accostai la vettura poco più avanti. «Sono un medico. Fate spazio…». Gli agenti di pubblica sicurezza aprirono un varco al mio passaggio e mi avvertirono di aver già chiesto l’intervento dell’ambulanza.

    Mi accovacciai a lato del ragazzo per prestare soccorso. Premetti sulla parte alta delle spalle cercando di farlo rinvenire. «Ehi, mi senti?». Era svenuto… La testa volse involontariamente verso la mia parte. È impossibile! Non può essere!.

    Somigliava in tutto e per tutto a mio figlio. Ho parlato con lui meno di un’ora fa al telefono ed era a casa a una migliaia di km di distanza. Cosa mi sta succedendo?. Non riuscivo a respirare. Avvertivo dei brividi per tutto il corpo e delle fitte alla testa che diventavano sempre più insistenti. Presi una pausa e provai a calmarmi. Scrutai meglio il suo volto e mi resi conto che il ragazzo dimostrava più anni di Jason. Era più alto e aveva una corporatura più robusta. Accostai l’orecchio alla sua bocca e osservai se il suo sterno desse segni di reazione. Non percepii nessun segnale di risposta, ma solo un forte odore di alcol. Gli tastai subito il polso per verificare i suoi battiti: Accidenti, non si sentono le pulsazioni.

    Messo alle strette, provai a rianimarlo con un massaggio cardiaco, ma il ragazzo non rispose alle sollecitazioni. Attimi di panico. La gente che spingeva tutto intorno non mi consentiva di intervenire in maniera efficace. Ad alta voce esclamai: «Allontanatevi, per favore…». Attivai quindi la funzione defibrillatore dello smart-watch. Scollegai la placca elettrica sotto il fondello (associata alla lunetta dell’orologio) e seguii le indicazioni vocali fornite dall’innovativa app in dotazione.

    Attesi l’input sonoro prima di lanciare la scossa, ma nonostante i vari tentativi il giovane non riprendeva conoscenza. Continuai nel frattempo a sollecitare il cuore del malcapitato, con ardore, fino al liberatorio bip dello smart-watch. Dopo la seconda scossa, nel silenzio totale della folla, un sussulto. Il ragazzo accennò a qualche movimento, mentre in lontananza sentii le sirene dell’ambulanza.

    Erano quasi le undici di sera quando, stanco e provato, mi fermai presso un Motel in strada. Mi rivolsi, dunque, al gestore: «Salve, vorrei prenotare una stanza per stanotte».

    «Nessun problema». Mi passò rapidamente il lettore ottico sul viso per l’identificazione. Mi diressi finalmente verso la camera assegnata. Mossi la mano sul display vicino la porta d’ingresso e il lettore digitale posto a lato dell’uscio sbloccò la serratura. In automatico si accesero le luci della stanza.

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